Prima opera tradotta in italiano di Karl Schlögel (docente di Storia dell’Europa orientale all’Europa-Universität Viadrina di Francoforte sull’Oder), questo è un libro originale e illuminante, erudito ma sempre chiarissimo, suggestivo fin dal titolo. Titolo che rappresenta al contempo un tributo e un paradigma. «Negli spazi leggiamo il tempo» (così reciterebbe traducendolo alla lettera dall’edizione originale: Im Raume lesen wir die Zeit. Über Zivilisationsgeschichte und Geopolitik, Carl Hanser, München 2003) è infatti una citazione di Friedrich Ratzel (1844-1904), etnologo e geografo tedesco - noto fra l’altro per aver coniato un termine divenuto suo malgrado infausto: Lebensraum, il concetto di “spazio vitale” poi rideclinato dal nazismo a giustificazione dello “sterminio di massa” - che l’a. indica tra i fondatori di un «pensiero dello spazio» insieme ad Alexander von Humboldt, Carl Ritter e Walter Benjamin. Ma è anche un’esortazione a osservare il passato attraverso i luoghi. La tesi di fondo, in breve, è che la storiografia abbia privilegiato la categoria del tempo rispetto a quella dello spazio, e che sia opportuno invece recuperare la dimensione spaziale della storia, comprendere e descrivere i processi storici non solo come processi temporali, ma anche come processi spaziali. A partire da questo assioma si sviluppa un libro composito, dichiaratamente frammentario, composto però non da saggi già pubblicati, ma da una serie di riflessioni e studi inediti che l’a. con esattezza chiama «esplorazioni»: in totale, ventisei «esplorazioni» di varie epoche e luoghi della storia europea, con una certa predilezione per la prima metà del XX secolo, la vecchia Mitteleuropa, la Russia. Seppure di natura eterogenea, questi brevi saggi ruotano attorno a quattro nuclei tematici, che costituiscono le quattro parti del volume.
La prima è dedicata al «ritorno dello spazio»: nonostante l’apparente «atrofia spaziale» provocata dalla rivoluzione informatica degli ultimi decenni, dopo la fine del conflitto Est-Ovest la dissoluzione di un ordine geopolitico che era percepito come una realtà duratura ha riportato la questione dello spazio al centro della riflessione delle scienze umane. Ancora incapaci di rinnovare il proprio vocabolario concettuale per comprendere il nuovo assetto del mondo, le vecchie discipline, compresa la narrazione storica, necessitano di una sorta di «spatial turn» che porti a riconsiderare l’importanza dei confini, delle distanze, delle percezioni e rappresentazioni territoriali, sui comportamenti politici e sociali. La Germania nazista costituisce da questo punto di vista un caso di studio emblematico, per la sua stessa ambiguità: da un lato l’ossessione dello spazio; dall’altro un’idea di Europa puramente razziale, non geografica.
La seconda parte raccoglie una serie di esempi di come «leggere le carte» in quanto testimonianze del passato: forme di rappresentazione e di costruzione dello spazio, strumenti di potere in mano ai potenti, ma anche strumenti di sopravvivenza per chi deve trovare rifugio dai bombardamenti o vie di fuga dalle persecuzioni. La figura del flâneur, di colui che «si lascia trasportare» nelle/dalle strade di città senza alcun bisogno di seguire un tracciato cartografico, segna il passaggio alla terza parte, «il lavoro degli occhi», quella forse più sorprendente. Qui l’a. usa come documenti storici strade e marciapiedi, abitazioni e indirizzari, orari ferroviari e guide tascabili, riuscendo con maestria a ricostruire paesaggi e movimenti di epoche scomparse.
L’«Europa diafana», entità pallida e fragile ma della quale comunque si possono percepire i contorni, è il quarto e ultimo nucleo tematico. Le riflessioni proposte - per esempio sui campi di sterminio o sui cimiteri europei - provano a esplorare le possibilità di una complessa «europeizzazione dell’orizzonte storico», non come somma di percorsi e culture nazionali, ma come «teatro di un numero incalcolabile di storie intrecciate» che fanno dell’Europa un luogo prima ancora che un’idea o un insieme di valori. Un luogo che in determinati frangenti - si vedano le pagine dedicate alla figura del grande direttore artistico russo Sergej Djagilev - divenne davvero un unico «spazio culturale», irrimediabilmente distrutto dalle due guerre mondiali e ora ricostruibile solo con estrema difficoltà. Ma libri come questo aiutano perlomeno a ripensarlo.