Vorrei iniziare con un sentito ringraziamento ad Alma Poloni ed Enrico Faini (Poloni 2025; Faini 2025) per l’attenzione con cui hanno letto il mio libro, per la generosità dei loro commenti e l’acutezza delle loro osservazioni [1]. Entrambi hanno formulato domande stimolanti e puntuali, che aprono nuovi, possibili orizzonti di ricerca per la storia economica del Medioevo centrale. È un aspetto che tengo a sottolineare: una risposta pienamente adeguata a ciascuna delle questioni che pongono sarebbe materia per uno studio ad hoc. La mia replica consisterà, più modestamente, di alcune riflessioni attorno ai punti che i due autori hanno sollevato; e mi pare utile cominciare da quelli che sono stati toccati dall’una e dall’altro, anche se in modi diversi.
Faini e Poloni mi invitano a tornare a ragionare sul problema dell’aumento demografico. Il primo nota come la crescita della popolazione di alcune città toscane lontane dalla costa tirrenica (non solo Firenze, anche Pistoia, Siena e Arezzo) emerga dalle fonti sin dagli anni Trenta del secolo XII, accompagnata da quella di alcuni centri abitati di minori dimensioni (tra i quali Poggibonsi e San Gimignano) e preceduta dalla nascita degli insediamenti cui si dà, di norma, il nome di borghi. La cronologia di tale crescita, prosegue Faini, non coincide con quella della trasformazione dei rapporti di produzione tra proprietari ecclesiastici e contadini dipendenti che ho proposto nel libro, e che avverrebbe una cinquantina di anni più tardi. È una considerazione che non si applica alla sola Toscana: nel suo recente volume sull’economia mediterranea tra 950 e 1180 circa, Chris Wickham ha sostenuto che l’espansione di alcune città nell’Italia centrale e settentrionale si sia verificata prima dello sviluppo economico generale di quell’area verso la fine del XII secolo (sebbene, nel caso di Firenze, Wickham proponga di collocare il boom demografico tra 1225 e 1250: Wickham 2023, 486, 580). Poloni, invece, sottolinea come le stime del numero di abitanti di Lucca nella prima metà del Trecento siano il riflesso di una fase di crisi politica ed economica che probabilmente portò a una riduzione significativa del numero dei residenti urbani: non si possono utilizzare, quindi, per farsi un’idea di quanti fossero i Lucchesi tra XII e XIII secolo, ovvero in un momento completamente diverso – caratterizzato dallo sviluppo del settore manifatturiero cittadino e dall’emigrazione di molte persone dalla campagna alla città. Si tratta di un’argomentazione che condivido e che ho in parte svolto (Tabarrini 2023, 126), senza però dire esplicitamente quanto i documenti trecenteschi, come l’estimo lucchese del 1331-32, si prestino male allo studio degli andamenti demografici sul lungo periodo e spesso non valgano nemmeno a ricavare impressioni affidabili su di essi.
Le osservazioni di Faini e Poloni, insomma, colgono nel segno: la scarsità di prove della crescita della popolazione durante il periodo analizzato nel libro mi ha indotto a sottovalutare gli indizi, piuttosto numerosi, che ci sono a riguardo; nel caso delle città, inoltre, tali indizi aiutano a dare corpo all’ipotesi secondo cui la domanda urbana sarebbe stata una delle cause dell’inasprimento della pressione esercitata dai signori ecclesiastici sulla produzione contadina. Rimane il problema, messo in luce da Faini (e Wickham), dello scarto temporale tra l’espansione delle città e la crescita economica generale, che ha giustamente indotto Faini a chiedersi e a chiedermi che cosa facessero tutti i nuovi arrivati all’interno delle mura urbane. Questa domanda mi pare legata a una delle osservazioni fatte da Poloni, che ha notato come il decollo della produzione e della commercializzazione dei tessuti di seta da parte dei Lucchesi avvenga proprio nei decenni compresi tra 1180 e 1230, gli stessi in cui io ho creduto di poter riscontrare un’intensificazione nell’estrazione del surplus agrario generato dai contadini dipendenti. Le due questioni convergono, credo, in un’unica direzione e tenterò quindi, anche qui, di replicare a entrambi (ma tornerò più avanti sul problema del rapporto tra agricoltura, industria e inflazione su cui si è soffermata Poloni).
Mi domando se non si possa azzardare una risposta riproponendo un’ipotesi formulata dallo stesso Faini nel suo volume su Firenze tra 1000 e 1211: quella, cioè, di uno sviluppo del settore secondario cittadino, in grado di attirare forza-lavoro dalla campagna, più precoce di quanto non saremmo portati a pensare sulla base della documentazione scritta disponibile – forse, nella fattispecie, proprio dell’import-export di panni provenienti dal nord Europa che farà la fortuna della città nel pieno Duecento e che potrebbe essere cominciato nel secolo precedente (Faini 2010, 118-119; Poloni 2018, 360-361). È noto che le fonti notarili conservate negli archivi ecclesiastici riguardano, quasi esclusivamente, le transazioni fondiarie e offrono dunque un materiale inadatto allo studio delle manifatture urbane e del commercio. Nel caso di Firenze, inoltre, più della metà degli atti rogati dai notai nel corso del secolo XII proviene dal monastero di S. Michele di Passignano, nel Chianti centrale, a circa 20 km in linea d’aria dalla città (ma il percorso stradale, che si snoda attraverso le colline, è lungo il doppio), in un’area su cui il comune fiorentino riuscì a estendere il proprio controllo solo nella prima metà del Duecento (Plesner 1979, cap. 3; Casini 2009, 83-85). Non possiamo aspettarci che il fondo archivistico di Passignano ci restituisca un’immagine affidabile delle tappe dello sviluppo industriale di Firenze – troppo distante sia geograficamente, sia politicamente per quasi tutto il Medioevo centrale.
Anche quando i documenti relativi a un centro abitato e alla campagna circostante provengono da chiese e monasteri collocati all’interno della città o nelle sue immediate vicinanze, le informazioni sul settore secondario urbano non diventano necessariamente più abbondanti. Così è per Lucca e i ricchissimi archivi dell’arcivescovado e del capitolo cattedrale, che, tuttavia, non illuminano le prime fasi dell’espansione commerciale lucchese, note solo grazie ai registri di imbreviature notarili di Genova (Poloni 2009, 36 e ss.). Gli stessi registri genovesi sono la fonte principale per studiare l’economia di Milano nel Duecento, forse la più grande città italiana dell’epoca (Grillo 2001, 31-32 e 209-234); per il secolo precedente siamo addirittura costretti a basarci su documenti, come gli statuti dei mercanti di Piacenza, che ci offrono sì un termine di paragone importante e ragionevole (per via della probabile somiglianza tra le manifatture milanese e piacentina), ma non ci mostrano gli artigiani o gli operatori commerciali milanesi all’opera (Wickham 2023, 601-602).
Ci sono, naturalmente, situazioni in parte o completamente diverse da quelle appena descritte e non bisogna tacere del contributo dato dalle fonti archeologiche, che forniscono preziose informazioni sulle caratteristiche e l’intensità della produzione e degli scambi; tuttavia, la possibilità di ricostruire le fasi dell’espansione dell’economia urbana nel corso del XII secolo sembra, tutto sommato, più l’eccezione che la regola. Uno iato tra il momento in cui cominciò ad accumularsi il capitale industriale e quello in cui il settore manifatturiero acquistò visibilità nelle fonti – per via, supporrei, dell’incremento di quello stesso capitale e quindi della possibilità di metterne in commercio i prodotti – deve essere preso in considerazione. Può forse spiegare, anzi, la discrepanza cronologica tra i primi indizi di espansione urbana e la crescita economica generale; di tale crescita, la trasformazione dei rapporti tra signori e contadini esaminati in Estate Management e le operazioni commerciali svolte dai mercanti lucchesi sulla piazza genovese nel tardo XII secolo (su cui cfr. ancora Poloni 2009) sono due espressioni diverse, ma convergenti.
Il terzo punto al quale Faini e Poloni hanno posto attenzione riguarda il problema del credito rurale e dell’indebitamento dei contadini. Faini si sofferma sulla differenza tra il credito di investimento (ovvero i prestiti elargiti allo scopo di aumentare il profitto di chi li riceve) e il credito di necessità (a favore, cioè, di chi ha bisogno di un anticipo di denaro per far fronte a spese gravose o a momenti di crisi); nota come io sia incline a riconoscere nella fornitura di sementi e nella condivisione delle spese tra proprietario e affittuario – elementi tipici del contratto mezzadrile – la seconda forma di credito più che la prima, e come questo crei una potenziale contraddizione con gli esempi offerti nel libro di accresciuta disponibilità di denaro contante per alcune categorie di contadini nei secoli XII e XIII. Mi domanda quindi “come reagirono i coltivatori all’imposizione di un controllo sempre più stringente sul loro lavoro”. Poloni, invece, si chiede quanto fossero diffuse e quali caratteristiche ebbero le situazioni di indebitamento tra i contadini della Lucchesia (nei confronti dei grandi proprietari terrieri o degli esattori fiscali cittadini) dopo il 1230 (l’anno oltre il quale non ho più letto tutti i documenti disponibili, limitandomi ad alcune “incursioni” mirate). Come riuscirono gli agricoltori a reggere all’aumento dei prelievi in un contesto generale in cui, a causa del perdurante incremento demografico, gli uomini erano sempre di più e le risorse sempre di meno – quindi un contesto, almeno da questo punto di vista, sfavorevole?
Penso che la risposta alla domanda di Faini l’abbia suggerita egli stesso quando ha osservato che i contadini dipendenti ai quali si richiedeva la consegna di censi fissi in frumento (al posto dei servizi di corvée di cui erano stati gravati in precedenza) appartenevano a un gruppo diverso rispetto ai proto-mezzadri. I destinatari degli atti di commutazione delle prestazioni d’opera, infatti, disponevano di una liquidità abbastanza consistente – e dimostrata, per esempio, dal pagamento dei costi di avvio del contratto, come nel caso dei coloni dell’abbazia di Passignano – da consentir loro di consegnare un canone in natura, spesso alto, e forse di contrarre un prestito a interesse in caso di difficoltà nel pagamento; la relativa ricchezza di alcuni coloni della campagna fiorentina trova ulteriore conferma nelle cifre che questi sborsavano per ottenere la piena libertà giuridica, registrate nelle imbreviature del notaio Palmerio (Tabarrini 2023, 113-114). Non credo che si possa dire lo stesso dei proto-mezzadri: anzi, la colonia parziaria (di cui la proto-mezzadria e la mezzadria poderale sono forme particolari) ha lo specifico vantaggio di eliminare la necessità, per il contadino, di chiedere un prestito qualora egli non riesca a rendere il censo concordato: quest’ultimo, infatti, è una frazione del raccolto totale ed è quindi sempre, strutturalmente, nella disponibilità dell’affittuario.
Penso, insomma, che la scelta tra canone fisso o parziario dipendesse – certo non esclusivamente, ma in buona misura – dal grado di solvibilità dei destinatari dei contratti. Credo anche che tale scelta non fosse mai il risultato di un’imposizione pura e semplice da parte dei signori, che avrebbe potuto generare quelle forme di reazione contadina (di disobbedienza o di aperta resistenza) di cui Faini mi chiede giustamente conto. La decisione di optare per l’una o l’altra forma aveva sempre un carattere pattizio: costi e benefici per i contraenti erano stati, almeno in parte, soppesati. I coloni di Passignano dovevano versare censi fissi in natura spesso alti, ma avevano ottenuto l’abolizione dei servizi di corvée; chi consegnava la metà del raccolto, invece, era probabilmente meno abbiente, ma aveva la possibilità di evitare la spirale di debiti che il mancato pagamento di un canone fisso in frumento avrebbe potuto causare. Anche i giuramenti collettivi delle comunità rurali sottoposte alla signoria del vescovo di Firenze si possono interpretare come l’esito di una concertazione (anche se sbilanciata) tra contadini e presule, al termine della quale i primi erano stati liberati dalle prestazioni d’opera che erano tenuti a svolgere, sostituite da rendite in frumento particolarmente preziose in un momento di pronunciata espansione della città. I giuramenti, forse, non servivano solo a “mantenere la sottomissione” degli agricoltori, come aveva proposto George Dameron (Dameron 1986, 146; Dameron 1991, 114-15), ma anche a ratificare un nuovo status quo che rifletteva il compromesso raggiunto dalle parti coinvolte.
Con questi esempi non intendo certo negare la natura coercitiva e violenta della signoria rurale: l’opposizione degli abitanti del castello di Massarosa all’aumento dei censi imposto dai canonici della cattedrale lucchese di S. Martino sul finire del XII secolo nasceva proprio dall’arbitrarietà con cui quell’aumento era stato imposto (Tabarrini 2023, 144-147). Credo tuttavia – per tornare alla domanda di Faini – che l’aumento della pressione e del controllo sul lavoro contadino fosse mitigata dai vantaggi di cui i beneficiari dei contratti avrebbero goduto – vantaggi tali, suppongo, da rendere poco conveniente la violazione delle clausole dell’accordo e tantomeno un’aperta ribellione. Mi pare utile richiamare, a tale proposito, le riflessioni svolte da Roberta Mucciarelli e Gabriella Piccinni sulla mezzadria poderale del tardo Medioevo: domandandosi perché in Italia non ci furono rivolte contadine di massa, le due studiose attribuivano proprio ad alcune caratteristiche del contratto mezzadrile (tra le quali anche i margini di guadagno fraudolento che questo lasciava al mezzadro) il merito di aver reso più pacifici, in generale, i rapporti tra proprietari e agricoltori (Mucciarelli e Piccinni 1994).
Vengo ora ai rilievi di Poloni, che mi trovano del tutto d’accordo. Studiare il grado di solvibilità della società rurale lucchese nella prima metà del Duecento mi pare una proposta importante e realizzabile: disponiamo, infatti, del ricco deposito dei protocolli di imbreviature notarili conservati nell’archivio storico diocesano della città, in larga parte ancora inedito e inesplorato, in cui le operazioni di credito sono molto numerose (una panoramica in Meyer 2011). Mentre stavo scrivendo il libro, avevo appena cominciato a leggere il registro su cui tal Isacco di Simeone teneva nota dei prestiti accordati ad alcuni contadini della piana lucchese negli anni Quaranta del secolo XIII (Archivio Storico Diocesano di Lucca, Capitolare, LL 4); l’esiguità delle somme di denaro e delle quantità di derrate alimentari elargite da Isacco ai suoi clienti – nessuno dei quali pare di alta condizione – mi inducono a pensare che, anche in questo caso, ci troviamo di fronte a credito di necessità e non di investimento. Si tratta di una conclusione provvisoria, che forse conferma la tendenziale solvibilità della società rurale lucchese (una solvibilità di cui la mancata diffusione della proto-mezzadria sarebbe una prova), ma che mostra anche un ricorso ai prestiti di piccola entità più diffuso di quanto non avessi supposto io. Lo si potrebbe spiegare, come suggerisce Poloni, con l’ulteriore inasprimento della pressione sul lavoro contadino nei decenni centrali del XIII secolo rispetto al periodo precedente, anche se l’“aumento della produttività della terra” e la “maggiore propensione dei coltivatori a integrare il proprio reddito vendendo il proprio lavoro” contribuirono, probabilmente, a mantenere un equilibrio tra la consistenza dei prelievi e quella delle risorse disponibili. Sarei comunque portato a pensare che i codici di imbreviature (che, è bene ricordare, esistevano a Lucca almeno sin dai primi anni del Duecento) facciano emergere, più di ogni altra cosa, le stratificazioni interne al mondo rurale: del resto, le testimonianze di morosità nel pagamento degli affitti di cui gli archivi lucchesi conservano tracce a partire dall’ultimo trentennio del XII secolo mostrano che alcuni contadini erano in difficoltà economiche già a quell’epoca (e che i tribunali del comune di Lucca erano pronti a far valere le ragioni dei proprietari). Insomma, il maggiore grado di solvibilità degli agricoltori lucchesi, in generale, rispetto a quelli fiorentini non deve farci dimenticare che all’interno di entrambi i gruppi c’erano differenze socioeconomiche notevoli: lo studio dei codici di imbreviature consentirà di approfondire il confronto ed estenderlo ai decenni centrali del Duecento.
Vorrei concludere questa riflessione sulle stratificazioni della società rurale rispondendo a una domanda posta esplicitamente da Poloni, ma che, come dirò meglio in seguito, percorre anche il testo di Faini: quella sulla libera proprietà contadina e la sua fisionomia. Se è consentita una rapidissima nota autobiografica, durante la discussione della tesi uno dei due examiners mi consigliò di specificare, da qualche parte nel testo, che la mia ricerca non toccava la peasant economy, come si sarebbe potuto erroneamente dedurre dall’uso insistito di espressioni come rural economy e estate management. Così ho fatto (Tabarrini 2023, 60). L’integrazione era, in effetti, necessaria: lavorare sulle carte notarili e sui documenti redatti dai chierici significava studiare le forme del prelievo signorile o, in altre parole, i rapporti tra alcuni grandi proprietari ecclesiastici e i contadini dipendenti usando, come punto di osservazione, le richieste fatte dai primi ai secondi. Una prospettiva legittima, purché se ne riconoscano i limiti. Gli studi di Chris Wickham sulla pianura attorno a Lucca, infatti, hanno mostrato che il ceto dei piccoli e medi proprietari liberi era molto numeroso nel XII secolo (Wickham 1995). Suggerirei che un discorso simile possa valere anche per le campagne di Firenze, dove, sebbene la signoria rurale sia stata nel complesso più opprimente rispetto alla Lucchesia, gli esempi di arricchimento e mobilità sociale dei contadini non mancano; con ogni verosimiglianza, molti agricoltori del Chianti avevano una o più terre di proprietà e sappiamo che alcuni riuscirono a migliorare la loro condizione economica e persino a emanciparsi dai vincoli signorili pur rimanendo, formalmente, homines e coloni di un grande abate o di un aristocratico laico (Plesner 1979; Collavini 2012; Lefeuvre 2023). C’è insomma un vasto settore dell’economia rurale medievale che le fonti scritte permettono al massimo di intravedere. Il problema mi sembra tanto più importante se supponiamo, come è stato fatto da alcuni autorevoli studiosi, che l’aumento della produttività e della produzione agraria sia il risultato dell’iniziativa contadina e non della pressione dei signori (cfr. da ultimo Petralia 2024, 61-62). Questi ultimi avrebbero incrementato il prelievo solo a posteriori, quando cioè la crescita economica nelle campagne era già avvenuta. Da tale crescita avrebbero tratto beneficio in modo parassitario: ne approfittarono, certo, ma non la stimolarono e anzi la inibirono, limitando la libertà personale e la capacità di spesa di chi lavorava la terra. Questa rappresentazione, derivante in parte dalla visione marxista dei feudatari come un gruppo di rentiers rapaci e improduttivi, è oggi superata; tuttavia, è ragionevole ipotizzare che una delle cause della trasformazione dei rapporti tra signori ecclesiastici e contadini sia da ricercare nell’intensificazione produttiva avviata dai secondi e sfruttata, successivamente, dai primi. Si tratta di un modello interpretativo che può contribuire a spiegare ulteriormente lo scarto cronologico tra crescita demografica delle città e inasprimento della pressione signorile; tale pressione diventerebbe, così, la reazione tardiva dell’aristocrazia rurale a una crescita economica cominciata altrove, nei campi e nelle case delle famiglie contadine, una parte delle quali emigrò nei centri urbani in cerca di fortuna e forse anche grazie alle fortune accumulate fino a quel momento. Saranno soprattutto le ricerche archeologiche che ci aiuteranno, in futuro, a chiarire tempi e modi dell’aumento della capacità di spesa dei contadini indipendenti.
Vorrei passare adesso ad alcuni punti che sono stati sollevati da Faini o da Poloni, individualmente. Faini si sofferma sull’equivalenza, che ho creduto di poter stabilire, tra lo staium come unità di misura delle superfici e lo staium come misura di capacità per i solidi (frumento e altri cereali, per esempio): il primo corrisponderebbe, cioè, all’estensione di terra che può essere seminata con il secondo. Si tratta di una correlazione approssimativa, come notava Elio Conti (Conti 1965, vol. I, p. 98) e come ho specificato anche io nelle pagine introduttive del libro (Tabarrini 2023, XVI), perché diversi tipi di suolo, a seconda delle loro caratteristiche, richiedono diversi tipi di semina, più o meno intensa. Nondimeno, è una correlazione che merita di essere usata e valorizzata, perché, penso, una differenza forte tra la superficie seminata e la rendita ricavata dai signori ecclesiastici si può spiegare in due modi: con rese agrarie molto alte (e molto rare, in generale, durante tutto il Medioevo), che avrebbero permesso a proprietari e affittuari di dividere i frutti del raccolto e di essere entrambi soddisfatti della spartizione; oppure con l’esiguità della quota destinata ai contadini dipendenti (ma occorrerebbe spiegare, allora, che cosa inducesse questi ultimi ad accettare condizioni così sfavorevoli, a meno di non voler invocare la mera coercizione). Penso, insomma, che questa correlazione possa aiutarci, con le dovute cautele, a gettare un po’ di luce sulla produttività del suolo e sui rapporti di produzione; e sono molto felice che Faini sia d’accordo con me su questo punto.
Allo stesso modo, credo che Faini abbia perfettamente ragione quando, in due punti del suo testo, solleva il problema del potenziale informativo della documentazione scritta a nostra disposizione; ne ho già parlato prima in riferimento al problema dell’economia contadina e vorrei proporre, adesso, un piccolo supplemento di riflessione. Il recente filone di studi sui beni del fisco dei re e dei loro funzionari tra alto e pieno Medioevo, cui Faini si richiama, ha mostrato come l’assenza o la scarsità di fonti su un determinato luogo – per esempio, un’azienda agraria regia – non implichi che quel luogo fosse poco importante dal punto di vista politico o economico; anzi, proprio la sua relativa invisibilità può significare che fosse rimasto nella piena disponibilità del sovrano (e non delle chiese e dei monasteri che ci hanno trasmesso gli archivi) o che comunque fosse stato ceduto in modo revocabile (Collavini e Tomei 2017; un inquadramento generale in Lazzari 2024). Credo che un ragionamento abbastanza simile si applichi anche all’economia curtense: la terra che non è donata, venduta o concessa (potremmo dire, che non si muove) è tendenzialmente più importante per il proprietario di quella che è oggetto di un’alienazione di un qualche tipo e dunque di un documento scritto. Ne consegue che veniamo a conoscere le caratteristiche di alcune curtes e gli obblighi dei loro dipendenti solo in momenti particolari della loro storia, spesso di cambiamento o di crisi: è il caso della già citata Massarosa, in Versilia, su cui saremmo poco informati se i contadini dei canonici della cattedrale lucchese non si fossero opposti, nell’ultimo quarto del secolo XII, all’incremento dei censi che dovevano pagare. Si può dire altrettanto della curtis di S. Martino alla Palma, uno dei più ricchi possedimenti della Badia a Settimo, che rimarrebbe avvolta nell’oscurità se il dissesto finanziario della Badia non avesse costretto i monaci a vendere gran parte della curtis ad alcuni cittadini fiorentini e, contestualmente, a redigere liste in cui canoni e servizi dei loro coloni erano messi per iscritto; così, all’alba del Duecento riusciamo a scoprire le forme di organizzazione di un’azienda agraria che esisteva almeno dalla fine del secolo IX, ma che era rimasta quasi invisibile per tre secoli (Tabarrini 2021; Cella, Mastruzzo e Tabarrini 2023). Le principali risorse economiche dei re e dei signori ecclesiastici, quindi, potevano essere – e spesso erano – le meno documentate.
Passo ora alle questioni su cui si è soffermata Poloni, cominciando da quelle relative alle possibilità di accesso al mercato che avevano gli agricoltori lucchesi e alla densità e gerarchia dei mercati rurali. Le fonti che ho letto, come nota la stessa Poloni, sono avare di informazioni su questo secondo argomento; allo stesso tempo, ritengo ora di non averlo trattato a sufficienza perché la centralità di Lucca per la campagna circostante, anche e soprattutto come luogo di afflusso dei censi agrari, mi aveva indotto a non attribuirgli troppa importanza. Il già citato registro di Isacco di Simeone mostra, è vero, come i contadini delle Sei Miglia si recassero in città per ottenere un prestito e ritengo che la maggior parte degli agricoltori interessati a vendere le loro eccedenze facesse altrettanto; ma lo stesso non vale necessariamente per zone un po’ più montuose e lontane, come la Versilia. Penso che ci siano due modi per approfondire il tema. Occorrerebbe studiare, in primo luogo, le serie pergamenacee degli archivi arcivescovile e capitolare di Lucca, in parte inesplorate per il Duecento; e poi i registri di imbreviature, risalenti ai decenni centrali dello stesso secolo, che riguardano l’amministrazione della Iura, ovvero il territorio versiliese amministrato dal clero della cattedrale lucchese, di cui Massarosa era il centro principale (uno di questi registri è Archivio Storico Diocesano di Lucca, Capitolare, LL 6). Un confronto tra la documentazione su pergamena sciolta e quella su codice potrebbe gettare luce sull’evoluzione dei mercati rurali e la loro importanza (forse simile, forse molto diversa) nelle varie aree che compongono la Lucchesia.
Poloni tocca, infine, un problema fondamentale: se l’espansione produttiva e commerciale di Lucca avviene nello stesso periodo in cui si verifica l’aumento del prelievo signorile nelle campagne attorno alla città, diventa necessario chiedersi quale fu il rapporto tra queste due forme di sviluppo economico nel determinare la spinta inflazionistica della fine del secolo XII. L’interpretazione che ne ho dato io era centrata principalmente sui processi di cambiamento interni alla società rurale, perché il bene di cui ho studiato l’andamento del prezzo è la terra; ma è un’interpretazione che merita di essere integrata con una lettura più attenta dei ritmi e delle modalità della crescita cittadina (i beni fondiari urbani e peri-urbani, d’altronde, erano quasi sempre i più cari). Temo che la domanda di Poloni sia destinata a rimanere senza risposta. Serie di prezzi per i prodotti industriali sono molto difficili da ottenere nell’Italia centrosettentrionale per i decenni a cavallo dei secoli XII e XIII (un’eccezione è Racine 1979, vol. II, pp. 438-63, su Piacenza, dove l’autore studia anche i beni fondiari; vedi anche Buenger-Robbert 1983 e Buenger-Robbert 1994, su Venezia); se non si ha a disposizione un paniere, non si può nemmeno sapere in quali settori l’inflazione fu più pronunciata e in quali meno – né, quindi, da dove potrebbe essere partito lo stimolo al rialzo. Sono tuttavia rimasto colpito e persuaso dall’osservazione di Poloni sulle fortune degli operatori commerciali lucchesi, che non possedevano (almeno non sempre e non necessariamente) consistenti proprietà fondiarie: il capitale agrario e quello industriale sembrano essersi sviluppati in modo spesso indipendente e, si può aggiungere, il secondo pare aver generato volumi d’affari e margini di profitto maggiori rispetto al primo; non mi stupirei, quindi, se fossero state le manifatture cittadine a trainare l’aumento del prezzo della terra.
Concludo rinnovando i ringraziamenti a Poloni e Faini. Non è affatto scontato che un libro sia letto con tanta cura e profondità di analisi; che questo sia accaduto proprio a Estate Management around Florence and Lucca mi rende molto felice. E lo sarò ancora di più se le riflessioni svolte dai due studiosi diventeranno, come ho detto all’inizio e come spero, materia per un questionario di ricerca che contribuisca alla rifioritura degli studi di storia economica del Medioevo centrale, cui il già citato libro di Chris Wickham ha dato uno stimolo importantissimo.
Bibliografia
- Buenger, Robbert, Louise. 1983. “Twelfth-Century Italian Prices: Food and Clothing in Pisa and Venice.” Social Science History 7 (4): 381-403.
- –, 1994. “Money and Prices in Thirteenth-Century Venice.” Journal of Medieval History 20: 373-90.
- Casini, Tommaso. 2009. Signoria e società rurale nella Toscana nordorientale nei secoli XII-XIII. Tesi di dottorato di ricerca in storia medievale, Università degli studi di Firenze.
- Cella, Roberta, Antonino Mastruzzo e Lorenzo Tabarrini. 2023. “Elenchi di censi in volgare fiorentino della Badia a Settimo (1250-1255).” Studi linguistici italiani 2 (23): 195-234.
- Collavini, Simone Maria. 2012. “Signoria ed élites rurali (Toscana, 1080-1225 c.).” Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge 124 (2): 479-93.
- –, e Paolo Tomei. 2017. “Beni fiscali e ‘scritturazione’. Nuove proposte sui contesti di rilascio e falsificazione di D. OIII. 269 per il monastero di S. Ponziano di Lucca.” In Originale - Fälschungen - Kopien. Kaiser- und Königsurkunde für Empfänger in ,,Deutschland’’ und ,,Italien’’ (9.-11. Jahrhundert) und ihre Nachwirkungen im Hoch- und Spätmittelalter (bis ca. 1500) / Originali - falsi - copie. Documenti imperiali e regi per destinatari tedeschi e italiani (secc. IX–XI) e i loro effetti nel Medioevo e nella prima età moderna (fino al 1500 circa), a cura di Nicolangelo D’Acunto, Wolfgang Huschner e Sebastian Roebert, 205-215. Leipzig: Eudora.
- Conti, Elio. 1965. La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino. 3 voll. Roma: Istituto Storico Italiano per il Medioevo.
- Dameron, George. 1986. “Episcopal Lordship in the Diocese of Florence and the Origins of the Commune of San Casciano Val di Pesa, 1230-1247.” Journal of Medieval History 12: 135-154, 183.
- –, 1991. Episcopal Power and Florentine Society, 1000-1320. Cambridge, MA: Cambridge University Press.
- Faini, Enrico. 2010. Firenze nell’età romanica (1000-1211): L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio. Firenze: Olschki.
- Faini, Enrico. 2025. “La ‘Grande Trasformazione’ del XII secolo.” Storicamente 20. DOI: 10.52056/9791254696910/24.
- Grillo, Paolo. 2001. Milano in età comunale (1183-1276): Istituzioni, società, economia. Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo.
- Lazzari, Tiziana. 2024. “Rileggere un rapporto complesso: monasteri padani e potere regio nei secoli IX-XI.” Studi di Storia Medioevale e di Diplomatica n.s. VIII: 251-270.
- Lefeuvre, Philippe. 2023. Notables et notabilité dans le contado florentin des XIIe-XIIIe siècles. Roma: École Française de Rome.
- Meyer, Andreas. 2011. “La critica storica e le fonti notarili: note su registri di imbreviature e pergamene lucchesi del XIII secolo.” Archivio Storico Italiano 169: 3-22.
- Mucciarelli, Roberta e Gabriella Piccinni. 1994. “Un’Italia senza rivolte? Il conflitto sociale nelle aree mezzadrili.” In Protesta e rivolta contadina nell’Italia medievale, a cura di Alvise Cherubini, 173-206. Bari: Dedalo.
- Racine, Pierre. 1979. Plaisance du Xème à la fin du XIIIème siècle: Essai d’histoire urbaine. Thèse présentée devant l’Université de Paris I le 5 mars 1977. 3 voll. Lille: Atelier de Reproduction des thèses, Université de Lille III.
- Petralia, Giuseppe. 2024. “Dai battelli agli asini: fine di un primato.” Reti Medievali Rivista 25 (2): 45-75.
- Plesner, Johan. (1934) 1979. L’emigrazione dalla campagna alla città libera di Firenze nel XIII secolo. Firenze: Papafava.
- Poloni, Alma. 2009. Lucca nel Duecento: Uno studio sul cambiamento sociale. Pisa: PLUS-Pisa University Press.
- –, 2018. “Italian Communal Cities and the Thirteenth-Century Commercial Revolution: Economic Change, Social Mobility and Cultural Models.” In Social Mobility in Medieval Italy, a cura di Sandro Carocci e Isabella Lazzarini, 352-372. Roma: Viella.
- –, 2025. “‘Grande trasformazione’ e ‘rivoluzione commerciale’: la Lucchesia e Lucca tra XII e XIII secolo.” Storicamente 20. DOI: 10.52056/9791254696910/23.
- Tabarrini, Lorenzo. 2021. “Monastère, tenanciers et ‘travail forcé’ dans les campagnes de Florence au Moyen Âge central (ca 1000-1250): le cas de la Badia a Settimo.” In Labeur, production et économie monastique dans l’Occident médiéval: De la Règle de saint Benoît aux Cisterciens, a cura di Michel Lauwers, 329-374. Turnhout: Brepols.
- –, 2023. Estate Management around Florence and Lucca, 1000-1250. Oxford: Oxford University Press.
- Wickham, Chris. 1995. Comunità e clientele nella Toscana del XII secolo: Le origini del comune rurale nella Piana di Lucca. Roma: Viella.
- –, 2023. The Donkey and the Boat: Reinterpreting the Mediterranean Economy, 950-1180. Oxford: Oxford University Press.