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La nuova ‘grande narrazione’ di Wickham
Formulare paradigmi, costruire strutture esplicative entro cui osservare il passato è la palpabile tensione che attraversa molta della produzione di Chris Wickham, notoriamente prolifica. Lo sforzo, tutt’altro che semplice, di dare ordine e forma a un discorso sintetico che rifugga da letture teleologiche e false immagini preconcette è al centro anche del volume L’eredità di Roma. Storia d’Europa dal 400 al 1000 d.C., edizione italiana pubblicata nel 2014 a cinque anni di distanza dall’originale The Inheritance of Rome. A History of Europe from 400 to 1000. Dopo una ponderosa ricerca di taglio comparativo, Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean 400-800, data alle stampe poco più di un decennio fa, Wickham prosegue nel suo cammino di progressiva stesura di una nuova ‘grande narrazione’ dell’alto medioevo, sganciata dalle tradizioni storiografiche nazionali e identitarie, con un respiro amplissimo, più euroasiatico che mediterraneo.
I tempi erano maturi per una ripresa delle tante cornici giustapposte in Framing the Early Middle Ages – opera che ha costituito un vero e proprio spartiacque storiografico –, inserite in un quadro tematicamente e cronologicamente più ampio, che giungesse sino all’anno 1000, in alcune delle regioni considerate effettivo momento di rottura piuttosto che spartiacque convenzionale, e che tenesse insieme gli aspetti economici, politici, culturali [1]. L’opera si configura, insomma, come una specie di fratello “molto maggiore” di Early Medieval Italy. Central Power and Local Society 400-1000, uscito nel lontano 1981, dopo le prime ricerche sulle società toscane e appenniniche altomedievali. Per Wickham la sintesi che vira su un taglio manualistico – ai suoi studenti dell’University of Birmingham il volume è, infatti, dedicato – è una tappa fondamentale, in cui dare espressione in maniera chiara e non banale, ad architetture complesse pazientemente assemblate nel corso degli anni con il procedere degli studi. L’impegno nel proporre riflessioni entro un percorso di rilettura storica acuto e fruibile non è, d’altro canto, cessato con L’eredità di Roma. Da ultimo è stata pubblicata la sua ideale estensione: Medieval Europe, opera in cui lo studioso inglese ha adottato la stessa ottica globale d’indagine per osservare tutto il millennio medievale.
Con specifico riguardo all’alto medioevo, qual è, dunque, il nocciolo della ‘grande narrazione’ di Wickham? In un approccio che pone l’accento sulla lunga durata, cornice, però, non statica, entro cui si collocano le trasformazioni, egli rende esplicite alcune tendenze di cambiamento, soffermandosi segnatamente su una prima e fondamentale transizione. Con lo smembramento in Occidente dell’impero romano, si ebbe il passaggio da uno stato fondato sulle tasse a molti stati basati sulla terra, secondo un processo che chiama ‘deriva verso la terra’ (Shift to Land). Si tratta di un cambiamento sostanziale, poiché le imposte fondiarie sostenevano i pilastri dell’impero romano: esercito, amministrazione, ordinamento giudiziario, movimento di merci attraverso il Mediterraneo. I modelli e le risorse romane si frazionarono: iniziò un’epoca di creatività e sperimentazione in cui tali frammenti restarono per lungo tempo attivi e costituirono una pesante eredità. Il solo importante portato barbarico fu il «legame tra impegno militare e politica assembleare» [Wickham 2014, 97]. Assistiamo allora alla semplificazione e alla militarizzazione della politica: una ‘politica della terra’ incentrata sulle corti quali centro di redistribuzione di ricchezza e potere.
Con il venir meno della spina dorsale che aveva sostenuto la macchina statale romana in Occidente, l’asse Roma-Cartagine, l’economia si regionalizzò e anch’essa subì una radicale semplificazione. In Oriente la crisi si verificò, invece, più tardi, ma fu più acuta. La rapida avanzata araba e la conseguente perdita dell’Egitto, riserva di grano per Costantinopoli, misero in grande difficoltà l’impero, che riuscì a sopravvivere solo mutando aspetto, grazie a una decisa spinta verso centralizzazione e militarizzazione. Agli albori del secolo VIII da uno scenario dominato da un’unica grande potenza, l’impero romano, si era passati a un assetto dinamico e policentrico in cui il califfato arabo degli Omayyadi era in espansione; l’impero romano d’Oriente in difesa; l’Occidente, un mosaico frammentato in cui spiccavano tre tessere: la Francia merovingia, la Spagna visigota, l’Italia longobarda. Gli organismi politico-territoriali sono elencati secondo una scala di forza decrescente, inversamente proporzionale al grado di ‘deriva verso la terra’: un sistema tributario capillare ed efficiente di matrice romana sopravvisse soltanto nel mondo arabo.
Si giunse a un nuovo equilibrio nel IX secolo, con l’affermazione di tre principali potenze: i Franchi, che sotto la dinastia carolingia, fregiatisi del titolo imperiale, misero in atto un’originale «prassi politica di esplicito contenuto moralizzatore» [Wickham 2014, 620] in stretta congiunzione con le gerarchie ecclesiastiche; l’impero romano d’Oriente che, potendo tornare a fare affidamento su un efficace sistema tributario, conobbe una stagione di rinascita; il califfato degli Abbasidi, che aveva spostato decisamente verso est, a Baghdad, il baricentro economico, politico e culturale del continente. Gli imperi franco e bizantino ebbero un impatto fortissimo sui più deboli vicini settentrionali, popolazioni di matrice celtica, germanica, sclavena, turca: nelle Isole britanniche, in Scandinavia e nell’Europa orientale progressivamente emersero, a un tempo per imitazione e reazione, strutture politiche e sociali più solide che si coagularono in entità politico-territoriali robuste e riconoscibili soprattutto a cavaliere del secolo XI.
Frattanto l’equilibrio geopolitico era ancora mutato. Delle tre grandi potenze, il califfato – di gran lunga la più forte – perse nel corso del secolo X l’unità politica. In assenza di un mare interno che facilitasse le comunicazioni, il coordinamento di un organismo politico così vasto era difficile. Non si verificò, tuttavia, un crollo strutturale. Si formarono, piuttosto, sue riproduzioni in piccolo, di scala regionale: fra le più riuscite l’Egitto fatimide e la Spagna omayyade. Pressoché in contemporanea avvenne anche la frantumazione dell’impero franco. Gli esiti furono, però, qui ben diversi: gradualmente, con una cronologia differente nelle varie regioni (al più tardi, come in Italia, nell’ultimo scorcio del secolo XI) mutarono i parametri e le strutture di base del potere.
Per Wickham andò allora esaurendosi in Occidente l’eredità di Roma: una cultura della sfera pubblica quale fondamentale arena dell’agone politico. Negli stati post-romani «il mondo del potere regio era anche il mondo pubblico della collettività (dei maschi liberi) nel suo complesso» [Wickham 2014, 628]. La concezione romana di publicum era stata rafforzata, come detto, dalla prassi politica assembleare, importata dal Settentrione germanico. Su tale aspetto lo stesso Wickham è tornato da ultimo con un denso articolo [2]. Con il passaggio al secolo XII ormai dovunque in Occidente il mondo pubblico, in cui regnavano valori come munificenza e ostentazione, ospitalità e convivialità, e in cui la giustizia e l’ordine erano amministrati e rappresentati pubblicamente in assemblea, era tramontato [3]: «la dialettica tra sfera pubblica e (quello che chiamiamo) interesse privato era scomparsa» [Wickham 2014, 630]. Si tratta, a ben vedere, di un assunto non scontato, che cozza, in particolare, con il racconto tradizionale della medievistica italiana, impegnata a rintracciare ed enfatizzare la presunta romanità dell’esperienza comunale [4]. La cesura fu talmente netta da giustificare l’utilizzo delle espressioni ‘rivoluzione feudale’, ‘mutamento signorile’: linea interpretativa recentemente ripresa e sviluppata da molti storici; fra gli altri, Charles West [2013] e Alessio Fiore [2017] [5].
In Occidente: Shift to Land e Caging of the Peasantry
Questa parabola storica, ricostruita a grandi linee senza dar conto delle molteplici sfumature messe in luce da Wickham, discende da alcuni assiomi fondamentali. Tutto il discorso è fondato su leggi che lo studioso inglese espone chiaramente. Modello euristico di riferimento è ancora la société féodale di Marc Bloch e, in particolare, l’‘impossibilità del salario’: il mancato finanziamento in moneta della politica e dello stato nell’Occidente altomedievale [Bloch 1939-1940]. Tenuta ferma la relazione transitiva fra terra, ricchezza e potere, esisterebbe una corrispondenza diretta fra ricchezza aristocratica, sfruttamento dei contadini e complessità economica. Uno stato è veramente forte solo se può basarsi su un sistema di tassazione fondiaria. Se, come in Occidente, avviene la ‘deriva verso la terra’, si può parlare soltanto di forza relativa: i sovrani furono deboli in termini assoluti – improponibile è il confronto con l’Oriente –, ma forti in termini relativi, a patto che mantenessero una base fondiaria consistente e molto maggiore rispetto agli altri soggetti politici. Gli aristocratici, più poveri rispetto ai loro predecessori del periodo romano, ebbero cogente necessità di gravitare attorno alle corti per ricavarne terra, ricchezza, potere; conseguentemente i contadini furono più autonomi e gli scambi più semplici e limitati, giacché prima del 1300 ad alimentare l’espansione economica fu essenzialmente il potere d’acquisto aristocratico.
In un sistema in equilibrio basato sulla ‘politica della terra’ non c’è, dunque, strutturale opposizione, ma coinvolgimento fra re ed élites. L’assunto è stato dimostrato dallo studio di Matthew Innes sulle società altomedievali della media valle del Reno [Innes 2000]. Fra gruppi eminenti e istituzioni politiche centralizzate sussiste, infatti, una somiglianza strutturale: «in termini economici i governanti agiscono innanzitutto come grandi proprietari» [Carocci, Collavini, 2012, 14]. Stando all’assioma, più terra ha il sovrano, più potere di attrazione gode, ma più ne concede, meno ha da darne. Il gioco è, pertanto, a potenziale somma-zero e ha un discreto tasso di rischio: se il potere centrale non ha la forza sufficiente per recuperare o, comunque, rinegoziare le concessioni fondiarie, e la forbice in termini di possesso fondiario con l’aristocrazia si fa troppo sottile, l’intero sistema può crollare, poiché essa è divenuta sufficientemente ricca e potente su base locale da potere convenientemente rinunciare al patronato regio. Pertanto, nei secoli altomedievali, al fine di mantenere un «equilibrio fra spesa e risorse» [Carocci, Collavini, 2012, 22], la prima restò bassa e conservò un elevato grado di elasticità. D’altro canto, il capitale materiale e simbolico a disposizione dei sovrani non costituiva un insieme finito e statico [Fiore 2006]. Le risorse messe in circolo, anzitutto la terra, potevano essere al bisogno accresciute, puntando sia sulla quantità, sia sulla qualità: accumulandone cioè di nuove, mediante conquista o confisca, o migliorando la base fondiaria preesistente.
Per attuare un’efficace ‘politica della terra’ era, dunque, necessario non sovraccaricare degli ingranaggi che potevano facilmente incepparsi: per costituire un autorevole e indispensabile centro erogatore di potere e prestigio, l’autorità politica doveva essere sempre in grado di offrire risorse sotto la veste di favori (beneficia) che ricompensavano i servizi resi alla res publica. A tal fine, mantenere la capacità di revocare e redistribuire concessioni di terra e cariche (honores) si rivelava un cruciale punto di forza. Ciò avvenne ad esempio in Toscana, regione dove il mondo pubblico e le sue regole conobbero un’eccezionale sopravvivenza fino all’ultimo scorcio del secolo XI. Fortunatamente per i sovrani occidentali, dopo il crollo dell’impero romano, le élites partirono da una base assai esigua. Si dà, però, la rilevante eccezione della Francia, dove il collasso, già avvenuto con il passaggio al secolo XI, fu, infatti, più precoce che altrove.
L’applicazione di questi meccanismi esplicativi deve, tuttavia, tener conto della loro solo apparente semplicità. Lo studio di una società, preludio o meno a un successivo tentativo di comparazione, non può esimersi dall’interrogarsi sul suo grado di polarizzazione e distribuzione della ricchezza. Tale fattore ha un grande peso. La domanda aristocratica può essere complessivamente alta sia in presenza di un elevato numero di medi possessori (come in Toscana), sia di un ristretto numero di grandi ricchi (come in Francia). Stando alle teorie di Wickham si danno allora due situazioni diversissime: nel primo caso il divario in ricchezza e potere fra corona e tessuto aristocratico è più ampio; più larghi saranno conseguentemente i margini di manovra dei governanti nel mettere in atto la ‘politica della terra’. Nel secondo caso maggiore è, invece, la forza di contrattazione politica dei gruppi eminenti [6].
Fra i termini della triade di Wickham (ricchezza aristocratica, sfruttamento dei contadini, complessità economica) non persiste, poi, una relazione causale; piuttosto, un’interdipendenza. Al variare di uno dei tre fattori, mutano anche gli altri. Le leggi esposte dallo studioso inglese non pretendono di descrivere la realtà e spiegare semplicisticamente tutto, ancor più individuando motivazioni mono-causali. Devono essere intese come idealtipi weberiani: astrazioni utili per comprendere la variabilità delle situazioni regionali e operare delle comparazioni [7]. Così, per esempio, in Occidente Wickham ricostruisce dal secolo IX i fenomeni scalari di arricchimento dell’aristocrazia, ‘incasellamento dei contadini’, crescita economica. Rimarca la compresenza di un’altra variabile in azione, una progressiva espansione demografica, ma resta, tuttavia, cauto sulle possibili cause remote di questo intrecciato complesso di trasformazioni socio-economiche: suoi obiettivi sono individuare elementi di continuità e discontinuità, similitudine e differenza, e provare a seguire su larga scala dei processi di trasformazione.
Sulle radici della crescita economica europea, che conobbe piena fioritura nei secoli centrali del medioevo, il dibattito storiografico è stato nell’ultimo decennio molto acceso. Dopo l’uscita di Framing the Early Middle Ages, questo è stato sicuramente il nodo più contestato della ricostruzione. Solo pochi anni prima Michael McCormick aveva proposto un’altra rilettura complessiva del processo, di stampo decisamente più pirenniano, Origins of the European Economy. Communications and Commerce, A.D. 300-900, concentrandosi su fattori esogeni ai diversi tasselli in cui si era frammentato l’Occidente post-romano: il ruolo degli emporia e dei commerci marittimi su lunga distanza. Non mi soffermo sulla questione, recentemente sintetizzata e discussa da Giuseppe Petralia [Petralia 2015]. Ricordo soltanto come le divergenze fra i modelli, a ben vedere, non siano assolutamente inconciliabili.
Comune è il punto di partenza dei due storici: entrambi condividono il “paradigma fiscalista” che individua una cesura con il venire meno del sistema di tassazione romano. Forte è l’influenza della cosiddetta New Fiscal History, corrente storiografica fiorita nella seconda metà degli anni Novanta, il cui rapporto con una ‘grande narrazione’ medievale condivisa è stato da ultimo messo in luce da Sandro Carocci e Simone Collavini [8]. Per larghi tratti perfettamente parallelo e non incidente è, inoltre, il loro procedere nella ricostruzione, che fa parlare peraltro fonti diverse [9]. McCormick non si occupa delle strutture agrarie e non si serve delle ceramiche. Wickham, che trascura scientemente monete e reliquie, nel trattare di scambi e comunicazioni nel Mediterraneo, pur rivalutandone complessivamente il peso per il periodo altomedievale quale «efficace leva economica» [Petralia 2015, 11], riprende nel suo più ampio quadro i dati e gli spunti offerti dal primo.
Intendo qui indugiare, invece, un poco su un passaggio chiave della parabola storica sopra ripercorsa: il processo che Wickham ha definito, rielaborando un’espressione di Robert Fossier, ‘incasellamento dei contadini’ (Caging of the Peasantry) [10]. Dall’età carolingia si assiste alla graduale esclusione della gran parte degli uomini liberi dal mondo dell’assemblea e dell’esercito e dalla sfera pubblica, alimentata ancora dall’eredità di Roma. Ciò avvenne a vantaggio dei potentes: entro la cornice pubblica – e non in contrapposizione a essa – il dominio aristocratico si fece più forte, l’estrazione di risorse tramite il lavoro contadino crescente, il tessuto sociale maggiormente differenziato e caratterizzato da una moltiplicazione dei livelli di mediazione fra comunità dei liberi e autorità politica [11]. Testo di riferimento per apprezzare queste decisive mutazioni della struttura socio-economica è uno studio che non ha avuto grande eco nella medievistica italiana e meriterebbe maggiore attenzione: Puissants et misérables. Système social et monde paysan dans l’Europe des Francs (VIe-IXe siècles) di Jean-Pierre Devroey.
Pubblicata nel 2006, l’anno successivo all’uscita di Framing the Early Middle Ages, l’opera dello studioso belga non è una monografia di storia agraria incentrata sulla vita contadina, tematiche che hanno conosciuto in Italia un deciso calo di interesse nell’ultimo quarto di secolo, bensì una ricerca di più ampio respiro, attenta al dato archeologico e profondamente influenzata dalle teorie sociologiche e antropologiche. Devroey ha voluto presentare un’immagine d’insieme della società carolingia, scenario in cui prende forza l’‘incasellamento dei contadini’, riflettendo prima sui suoi schemi di organizzazione e rappresentazione per poi analizzarne singolarmente le componenti [12]: un mondo idealmente ordinato da un’autorità sovrana (dominus) e dai suoi agenti e ministri, che esercitava potestas perché vicaria di Cristo (Dominus), ricercava il consenso dei potentes, si attribuiva il compito di proteggere i pauperes, garantire pace, concordia e iustitia, e condurre tutti i sudditi alla salvezza.
Fu questo un tornante decisivo per la storia medievale occidentale, in cui la spesa dello Stato crebbe e aumentarono le risorse – anche umane – disponibili. Di ciò si avvantaggiarono notevolmente i gruppi eminenti della società, che giocavano un ruolo cruciale per l’esercito e l’amministrazione: la principale voce di spesa dei re alto e pieno medievali era «il trasferimento di risorse alle élites politiche (laiche ed ecclesiastiche), per garantirsene il sostegno. Per farlo si faceva ricorso alla terra (il bene più ambito), ma anche a cariche (per i laici), a immunità e cessioni di diritti pubblici (per le chiese)» [Carocci, Collavini 2012, 22]. A seguito delle trasformazioni di età carolingia, sul lungo termine fu difficile per i governanti mantenere un equilibrio fra spesa e risorse: la macchina statale divenne più pesante e sempre meno elastica. Le capacità di estrazione di surplus dalla terra erano crescenti, ma limitate dall’ideologia pubblica di concordia e iustitia su cui si fondava il consenso: non riuscivano ad adattarsi con efficacia e sistematicità ai mutati livelli di produttività. Il divario in ricchezza fra l’autorità legittima centralizzata e le élites tendeva a ridursi e le concessioni sovrane a farsi stabili ed ereditarie. Per altro verso, complessivamente la domanda, che non era alimentata dallo stato, ma dai consumi aristocratici, aumentava e il tessuto sociale assumeva un aspetto più stratificato.
In una ‘grande narrazione’ dell’alto medioevo occidentale posta entro una cornice pubblica e scandita dai processi di ‘deriva verso la terra’ (Shift to Land) e ‘incasellamento dei contadini’ (Caging of the Peasantry), una questione centrale resta, però, consapevolmente sullo sfondo. Poiché la sopravvivenza e la fortuna dello stato in Occidente – si deve anche al contributo di Wickham il ritorno a un utilizzo seppur cauto e consapevole della terminologia statale e pubblica [13] – si sarebbe giocata sulle capacità del sovrano di costituire un ineludibile polo di attrazione quale dispensatore di capitale simbolico, ma ancor più materiale, quanta e come fu gestita nelle diverse realtà la terra fiscale, la “benzina” della macchina statale in Occidente? E, per restare al titolo di una delle sintesi dello studioso inglese, fu questa un’eredità di Roma? Sta a dire, quando e come si formò la base fondiaria pubblica nei singoli organismi politico-territoriali che successero all’impero?
Opinione condivisa oggi da molti storici è che il fisco sarebbe caratterizzato da una dinamica fluida e magmatica di concessioni-confische impossibile da studiare e non sufficientemente documentata. L’assunto è tanto reciso quanto indimostrato. Pertanto, negli ultimissimi anni si è acceso interesse in Italia per questo tema, a lungo trascurato eppure cruciale: alcuni studiosi, in prima battuta Tiziana Lazzari, Vito Loré, Simone Collavini, si sono mossi con profitto in questa direzione [14]. Se analizzate con cura, le fonti consentono, infatti, di condurre su scala ridotta affondi fruttuosi e trovare risposte, profittando anche del dialogo con l’archeologia. La ricerca è ancora largamente da compiere. Il tentativo è scrivere, in molti casi ex novo, una storia del fisco in diverse regioni della Penisola, interrogandosi sulla sua consistenza e distribuzione e sulle sue modalità di gestione. Così facendo, sarà forse possibile mettere realmente alla prova una ‘grande narrazione’ condivisa che attribuisce alla terra, la res publica nella sua accezione più concreta, un ruolo tanto importante per la politica altomedievale in Occidente.
In Oriente: Goldilocks Parameters
Sposto, in chiusura, lo sguardo a Oriente. Nel 2016, anno dell’uscita di Medieval Europe, è stata data alle stampe la nuova monografia di John Haldon, The Empire That Would Not Die. The Paradox of Eastern Roman Survival. 640-740. Lo studioso inglese, a distanza di più di vent’anni dal suo precedente volume Byzantium in Seventh Century. The Transformation of a Culture, torna a riflettere su uno dei principali passaggi della parabola storica altomedievale: le ragioni della sopravvivenza a Costantinopoli dell’impero romano e delle sue peculiari capacità di resilienza e adattamento. Haldon considera le società e gli organismi politici dei sistemi complessi adattivi. Si pone perciò alla ricerca degli elementi dinamici, della giusta combinazione di condizioni che rese possibile la sopravvivenza dello stato, della società, della cultura e religione romana in Oriente. Prendendo in prestito un’espressione tratta dal racconto per bambini The Three Bears, divenuta comune a molte scienze – sociali e naturali –, egli vuole individuare the Goldilocks principle: i peculiari parametri che rendono un fenomeno possibile [15]. Mette così in luce un intrico di cinque fattori, le cui radici sono già rintracciabili nel periodo antecedente al secolo che vide l’impero bizantino fronteggiare l’avanzata araba. Sottoposto a pressioni esterne, lo stato romano si trasformò secondo una delle possibili linee di evoluzione, non scontata né predicibile.
Per Haldon si rivelò fondamentale la capacità dell’impero di dare vita a un sistema ideologico coerente, di raggiungere un’ottima integrazione del tessuto sociale con lo stato: nelle masse e nell’esercito, nella capitale e in campagna, forte era la solidarietà ideologica nella chiesa imperiale. Gli imperatori promossero una potente ideologia centralizzante, una “teologia politica” che sacralizzò lo stato: quale vicario di Cristo, compito del sovrano era stabilire il dominio del Cristianesimo ortodosso nel mondo, di prevalere sui nemici e guidare il popolo alla salvezza in vista del giudizio finale. In una società fortemente differenziata, dove pochi avevano accesso alle risorse prodotte dai molti, l’autorità si fece portatrice di un messaggio filantropico, di assistenza verso i poveri. La drammatica disparità in termini socio-economici fra le élites coinvolte nella macchina statale e la popolazione rurale ordinaria, che rischiava di minare il consenso nello stato, fu superata grazie a una miscela variabile di forza fisica, vincoli ideologici, legami clientelari.
Decisivo per la sopravvivenza dell’impero fu, in particolare, lo stretto rapporto di collaborazione e coesione allacciato con i gruppi eminenti in Anatolia, regione che rivestì grandissima importanza geografico-strategica. Le montagne del Tauro e dell’Anti-Tauro rappresentarono una barriera invalicabile per gli Arabi, climaticamente e geograficamente loro ostile. Per i segmenti eminenti e il popolo non c’era alternativa conveniente all’impero romano. Troppo grandi erano gli interessi acquisiti con lo stato: esso doveva quindi sopravvivere. L’impero fu, inoltre, abile a riorganizzare velocemente il proprio sistema militare e fiscale per rispondere alla sfavorevole congiuntura climatica globale e alle esigenze di un organismo politico-economico più piccolo, per alcuni aspetti regionalizzato eppure generalmente centralistico: doveva a un tempo strenuamente resistere in Anatolia e provvedere ai fabbisogni di Costantinopoli, immenso spazio pubblico di ostentazione del potere imperiale. Con la contrazione delle grandi reti commerciali emerse, insomma, una struttura più flessibile e resiliente, che possedeva ancora notevoli capacità organizzative e riuscì a conservare il sistema di tassazione romano, anche se un poco semplificato.
La ricostruzione proposta dallo storico inglese ben si adatta alla generale cornice di Wickham, che ha largamente utilizzato le precedenti ricerche di Haldon e può essere parimenti ricondotto alla cosiddetta ‘Birmingham School’ [Prigent 2014]. Ambedue seguono il “paradigma fiscalista” e prestano grande attenzione all’eredità di Roma: osservano quanti si muovono nella sfera pubblica e quali risorse, materiali e culturali-sociali, sono accessibili in quest’ambito; studiano i gruppi dominanti, il loro rapporto con il potere centrale e la maniera con cui essi investono e consumano ricchezza. Entrambi risentono, poi, dell’influsso di Peregrine Horden e Nicholas Purcell circa l’importanza, nel mondo post-romano, del costante ‘rumore di fondo’ mediterraneo (ciò vale anche per McCormick): il sostrato di reti localizzate, semiautonome, ma interconnesse e sovrapposte che, collegando regioni vicine del Mediterraneo, consentì di mantenere il fondamentale asse fra Costantinopoli e la Sicilia, nuova riserva di grano per l’impero dopo la perdita dell’Egitto [16].
Condivisa è, infine, la volontà di adottare un punto di vista ampio e olistico, capace di tenere assieme storia istituzionale, economica, sociale e culturale, senza però rinunciare alla complessità e all’acume analitico. Nel fornire il proprio contributo a una nuova ‘grande narrazione’, sia Wickham, sia Haldon si sforzano di costruire modelli astratti dal valore euristico per rileggere la molteplicità dei fattori in gioco e comparare la variabilità dei singoli casi di studio. Così afferma Haldon nella sua ultima fatica: «one of the aims of my own work has been to rehistoricize the story, but without losing sight of the larger picture» [Haldon 2016, 8]. Per citare un bel passo di Santo Mazzarino, «ogni studioso di storia sa che le principali difficoltà della disciplina storica consistono, appunto, nella continua esigenza di conciliare analisi e sintesi, ricerca specialistica e intuizione unitaria» [Mazzarino 1970, 20-21]. Come nella favola di Goldilocks, il segreto sta nel trovare la giusta via e misura fra gli estremi.
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Note
1. Sul forte impatto storiografico di Framing the Early Middle Ages e il concetto di ‘grande narrazione’ cfr. Fiore 2015.
2. Wickham 2017. L’assemblea è utilizzata come utile spia per la comparazione dei sistemi politici altomedievali in Occidente. La pratica politica di base collettiva non sarebbe un elemento precipuamente germanico, ma comune anche ad altre società non romane di più semplice strutturazione.
3. Sul tema della formalizzazione e costruzione rituale delle assemblee pubbliche (Inszenierung), riferimento obbligato è Althoff 1997.
4. Cfr. Wickham 2015. I comuni cittadini hanno costituito la principale ‘grande narrazione’ della storiografia italiana.
5. Il dibattito sulla mutation féodale, a lungo sopito, è stato riaperto da Bisson 2009.
6. La variabile è stata già rimarcata da Petralia 2015, 14. Sui meccanismi di funzionamento della cornice pubblica toscana, la marca di Tuscia, e le caratteristiche del suo tessuto aristocratico mi permetto di rimandare a Tomei 2017.
7. Sulla necessità di considerare anche la société féodale un idealtipo weberiano cfr. Wickham 2000, 34-37.
8. Carocci, Collavini 2012. Base teorica di riferimento sono le ricerche di Richard Bonney e Mark Ormrod, che rielaborano modelli e categorie di Joseph Schumpeter.
9. Per un tentativo di conciliazione fra i due modelli cfr. Wickham 2008. Sulla diversa attitudine di McCormick e Wickham di fronte alla numismatica e all’archeologia cfr. Petralia 2015, 11.
10. L’espressione prende le mosse dalla nozione di encellulement. Cfr. Fossier 1987.
11. Cfr. Cammarosano 1998, 97-134, 151-163; Innes 2000; Bougard, Bührer-Thierry, Le Jan 2013.
12. L’opera costituisce la rielaborazione in forma di monografia accademica di Devroey 2003. La ricezione dei due volumi nella storiografia italiana è stata molto limitata; non così in quella anglosassone. Nella sua recensione per Early Medieval Europe, Marios Costambeys ne ha consigliato una lettura parallela a Wickham e McCormick, auspicando un confronto delle tesi dello studioso belga, incentrate sul settore nord-occidentale del continente europeo, con il caso italiano, e in particolare con la Toscana. Cfr. Costambeys 2011.
13. Wickham 2009, 56-62. Un apporto decisivo è giunto dalla riflessione sul tema della Staatlichkeit. Cfr. Airlie, Pohl, Reimitz 2006; Goetz 2007, 219-272; Pohl, Weser 2009.
14. Lazzari 2012; Lazzari 2017a; Lazzari 2017b; Loré 2013; Loré 2017a; Loré 2017b; Collavini i.c.s; Collavini, Tomei i.c.s. Sulla supposta fluidità del fisco cfr. West 2013, 62-63.
15. L’espressione the Goldilocks principle è giunta alle scienze storiche con la mediazione della Big History. Cfr. Spier 2010, 36-40, 216.
16. Horden, Purcell 2000. Sull’influenza di quest’opera – in Italia non ancora tradotta –, il suo rapporto con i modelli di McCormick e Wickham, e l’importanza della Sicilia nel quadro economico e commerciale del Mediterraneo altomedievale cfr. Petralia 2015.