Uno dei grandi meriti della monografia, rielaborazione della tesi di dottorato discussa dall’a. nel 2010 presso l’Università degli Studi di Bologna, è quello di fornire una risposta convincente a due questioni che il dibattito storiografico non aveva ancora definitivamente sciolto: che cos’è il Perpendiculum? Con quale intento è stato scritto? L’a. ha, infatti, decifrato la raffinata «operazione tecnico-letteraria» (p. XVII) del vescovo Attone di Vercelli (924-960) presentando l’inedito e accurato ritratto di una fonte, il Polipticum quod appellatur Perpendiculum, che diviene centrale per lo studio della storia politica del Regno italico. Il testo è conservato in un unico codice prodotto dallo scriptorium della cattedrale di Vercelli e oggi custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana, volutamente steso in due redazioni: la prima è una versione ‘cifrata’, che ricorre alla tecnica della scinderatio (lo spostamento di parole e membri della frase) e a un lessico desueto; la seconda, arricchita di glosse interlineari e scolî marginali, ne rappresenta lo scioglimento.
Il volume è suddiviso in tre sezioni. Nella prima l’a. si preoccupa subito di rispondere alle domande cui si faceva riferimento: comprendere e contestualizzare l’opera. Dopo aver passato in rassegna le diverse posizioni storiografiche e studiato la tradizione e l’evidenza materiale del testo, confermandone la paternità attoniana, l’a. si dedica all’analisi della sua struttura interna (dispositio). Ambedue le stesure seguono i principî retorici enunciati da Isidoro di Siviglia e possono essere suddivise nelle quattro partes orationis: exordium, narratio, argumentatio, conclusio. Il Perpendiculum è, dunque, un’oratio volta a persuadere il lettore riguardo una quaestio civilis, un problema politico di attualità. Attone indica un filo a piombo (perpendiculum), una norma cui attenersi per dare ordine al chaos nel quale il Regno era sprofondato: il testo vuole essere la dimostrazione logico-dottrinale dell’errore insito in ogni usurpazione e, in particolare, nel ricorso a un re straniero. Secondo l’a. il trattato, composto tra la fine del 952 e i primi mesi del 960, ripercorre gli ultimi trent’anni della vita politica del Regno, tratteggiando le figure di un primo usurpatore, Ugo di Provenza (926-945); di un re presente, Berengario II, legittimo perché ha atteso la morte del suo predecessore Lotario (†950); di un possibile nuovo usurpatore, Ottone di Sassonia, la cui calata tanto preoccupa il vescovo vercellese.
Nella seconda sezione l’a. discute minutamente questo «‘modello generale dell’usurpazione’» (p. 67) e, seguendo ogni snodo del discorso attoniano (una versione interpretativa in italiano dell’intero testo è proposta in appendice alle pp. 267-289), mette in luce il grande potenziale informativo della fonte, ricca di riferimenti alle vicende politiche coeve. La terza e conclusiva sezione, partendo dall’analisi del lessico socio-politico, confronta un singolo aspetto dell’oratio, la ricostruzione delle strutture aristocratiche, con i frutti raccolti dalla ricerca negli ultimi cinquant’anni, durante intense stagioni storiografiche incentrate, con approccio differente, sul generale tema delle élites. L’a. giunge così a proporre una «visione sincronica delle aristocrazie italiche nei decenni centrali del secolo X» (p. XVIII); un quadro arricchito in appendice da schemi genealogici che illustrano reti parentali e politiche tenendo conto anche dei legami per via femminile.
In conclusione, grazie al volume possiamo finalmente fruire di una fonte che pare oggi tanto importante per lo studio del Regno italico poiché rappresenta, in stringente contrasto con l’Antapodosis di Liutprando di Cremona, un’isolata voce anti-ottoniana.