Isabella Lazzarini, L’ordine delle scritture. Il linguaggio documentario del potere nell’Italia tardomedievale. Roma: Viella, 2021. 396 pp.
Ad eccezione dell’ultimo saggio, gli undici studi riuniti in questo volume sono già apparsi in altre sedi. Complice la digitalizzazione di tante riviste, per tacere delle note ristrettezze cui fanno fronte università e ricerca, pubblicazioni di questo tipo sono ormai una rarità. Per la fortuna di molti, da professionisti degli archivi a semplici appassionati, l’ultimo libro di Isabella Lazzarini rappresenta una felice eccezione. Il motivo è semplice: il volume costituisce un importante punto di arrivo per l’a., come testimoniato dall’arco cronologico delle pubblicazioni raccoltevi (2001-2021), ma anche un punto di partenza per studiosi italiani come stranieri interessati alle intersezioni fra l’universo della cultura scritta e le modalità in cui società e politica si sono sviluppate nel tempo.
Il volume è organizzato in tre parti. La prima indaga le relazioni fra sistemi di carte e sistemi di potere, e in particolare i modi in cui la documentazione sostiene e allo stesso tempo riflette lo sviluppo degli stati italiani del tardo medioevo. Si pensi al perfezionamento del registro come strumento di governo o alla costruzione di reti e processi per la gestione di carte diplomatiche. La seconda è centrata sulle lettere: che forma prendevano, chi le scriveva, comprese le donne, e il tipo di cambiamenti mostrati dai loro contenuti, grafici come tematici. La terza e ultima parte riguarda l’organizzazione delle carte. Qui il discorso è duplice. Da una parte si studiano le tecniche e i dispositivi utilizzati da specialisti, in particolare segretari e cancellieri, per predisporre ma anche dare un senso alle scritture coeve (come inventari, liste e rimandi). Dall’altra si esaminano operazioni di segno simile condotte nei secoli successivi, come nel caso noto ai più, e certo agli archivisti, della creazione dei carteggi esteri come serie distinte dal resto della corrispondenza.
Tre temi dunque: la dimensione scritta del potere, la comunicazione epistolare e l’organizzazione delle carte. Ma il volume è tale che molti altri potrebbero essere individuati. Per cominciare, tutti i capitoli mostrano un’attenzione costante al mondo delle istituzioni, intese sia come uffici e apparati “pubblici” che come insiemi di regole, pratiche e usanze. Questa propensione è senza dubbio frutto della formazione dell’a., che da sempre si occupa di quella che un tempo, senza troppe esitazioni, si chiamava storia istituzionale; ma è anche una propensione dettata dall’ordinamento degli archivi al centro di questo lavoro (soprattutto Modena e Milano, senza perdere di vista serie relativamente diverse, come quelle di Venezia e Firenze). Esemplare il primo capitolo, che confronta principati e repubbliche attraverso le carte prodotte durante la nomina dei rispettivi officiali. Alla prospettiva amministrativa, se non addirittura “costituzionale”, il saggio unisce una riflessione più larga sullo strutturarsi dei meccanismi di scelta e sulle diverse priorità mostrate dai vari regimi. In altri capitoli la dimensione istituzionale passa in secondo piano ma non è mai assente, specie alla luce di quell’istituzione centrale che è la cancelleria rinascimentale.
Alla storia istituzionale si coniuga, senza mai offuscarla, la storia politica in senso lato. Anche qui i temi che si potrebbero individuare sono molti. In questo libro, la storia politica dello scritto è anzitutto una storia di relazioni politiche. Lo stesso capitolo sulla nomina degli ufficiali è sì un’indagine sull’uso della documentazione a fini politici, ma è anche uno studio dei rapporti fra autorità, clientele e gruppi di interesse. L’esempio più ovvio rimane il quarto saggio, che nel rivisitare il nesso fra diplomazia e scrittura mette in dubbio distinzioni arbitrarie fra “rapporti internazionali” e “politica interna”, a favore di uno studio totale delle relazioni politiche. In aggiunta, questo libro è anche una storia di linguaggi e culture politiche. Stavolta il capitolo più esemplare è il secondo. Nell’offrire una rassegna di come le fonti del tempo scrivono lo spazio, il saggio evidenzia l’assorbimento, non sempre lineare e tanto meno completo, di nomi e modi di pensare territori locali da parte di cancellerie atte a disegnare una geografia più vasta e articolata. Tra gli altri, il rapporto fra linguaggi e culture politiche figura fortemente anche nel quinto capitolo, dedicato all’autografia delle élites. In esso, la scelta di scrivere o perlomeno firmare lettere di mano propria è presentata non solo come una strategia per articolare gerarchie di potere ma anche come un’opportunità per esprimere idee condivise (dimestichezza, riserbo, ecc.).
Nonostante il tema cardine del libro sia «la messa a scrittura del mondo politico medievale», come indicato dal retro di copertina, quella ricostruita da questo lavoro è anche una storia sociale dello scritto. A tal riguardo, tutti i capitoli coniugano due livelli di analisi distinti ma tutto sommato complementari. Il primo è quello di una storia dei cambiamenti sociali in senso ampio – di un’analisi dello scritto come lente per comprendere dinamiche complesse. Il sesto saggio, ad esempio, utilizza la progressiva adozione della corsiva nella cancelleria mantovana per tracciare lo sviluppo di organizzazioni politiche e sociali sempre più efficienti e pervasive. L’altro livello è centrato sull’analisi dei protagonisti di quegli stessi cambiamenti, a partire da segretari e cancellieri, rendendolo insomma una storia di gruppi e persone – esperienze e interazioni. Restando a Mantova, è il caso delle trentanove donne identificate dall’a. come mittenti delle centinaia di lettere sopravvissute per il Trecento. Queste dimostrano non solo il ruolo delle donne nelle reti dinastiche del tempo, ma anche l’uso femminile della scrittura come strumento per mantenere legami personali e creare un’immagine propria, distinta da quella di figli e mariti.
Per finire, questo libro è anche una storia culturale dello scritto. Ancora una volta i piani sono due. Da una parte c’è un’attenzione diffusa al significato della scrittura nella cultura del tempo, espresso sia in forme grafiche (come appunto il corsivo) che in veri propri discorsi sulle scritture. Molti sono gli esempi che si potrebbero fare, ma basti segnalare che il volume apre con cinque pagine ricche di episodi e citazioni che ben mostrano valori e atteggiamenti condivisi nei confronti dello scritto. Dall’altra parte c’è un interesse verso il ruolo dello scritto nella trasformazione (oltre che trasmissione) di immagini, memorie e saperi – insomma nel modo in cui la documentazione del tempo contribuì non solo a registrare la realtà ma anche a rielaborarla. L’ultimo capitolo è senza dubbio il più rappresentativo in questo senso. Esso ricostruisce un network di carte legate alla pace di Lodi: dai trattati precedenti alle edizioni di Sei e Settecento, e da carte sciolte a manoscritti che raccolgono tutta una serie di documenti relativi. Così facendo, il saggio dimostra non solo che la presunta eccezionalità della pace di Lodi debba essere ridimensionata, ma che lo stesso archetipo spesso associato al trattato, quello delle relazioni fra legittimi stati sovrani, fu in realtà una costruzione postuma da parte di nazioni moderne in cerca di una propria identità e genealogia.
Gli intrecci tra scritture diverse, nonché spesso risalenti a periodi diversi, è anche la chiave interpretativa data dall’a. all’intero volume, come da titolo appunto: «l’ordine delle scritture». È un ordine che collega meri appunti a vere proprie edizioni di fonti, sterminati carteggi a raccolte manoscritte, passando per un’ampia gamma di meta-scritture: inventari, dossier, manuali e “scritture grigie”. A loro volta, le scritture sono legate a fenomeni articolati ma dalle logiche ben definite: la formazione di sistemi politici, il funzionamento di relazioni sociali, la creazione di modelli culturali. Trovare un ordine in questo mondo non è facile, alcuni diranno inutile o addirittura impossibile. Isabella Lazzarini lo sa bene e non lo nasconde. Molti sono i termini utilizzati per trasmettere un senso di complessità: «plurale», «molteplice», «disomogeneo», «polimorfo». È un peccato che una conclusione, anche breve, tesa a sintetizzare i collegamenti fra ordine delle scritture e ordine della realtà, per così dire, non sia stata inclusa. Ma forse si tratta di materiale per un altro libro, uno adatto al grande pubblico come alle classi universitarie e, perché no, anche alla traduzione in altre lingue. Possiamo solo auspicarci che un lavoro di questo tipo non sia lontano.