Come nasce un canale televisivo in un museo
Lavorando in un’istituzione come la Fondazione Museo storico del Trentino, luogo di conservazione e di produzione culturale dedicati alla storia, alla memoria e alle comunità del territorio, sappiamo bene quanto sia stretto il legame che unisce la storia, l’audiovisivo e i musei. Nel nostro caso, l’audiovisivo è sia fonte della storia che studiamo quando facciamo ricerca sia strumento visivo delle storie che raccontiamo attraverso le mostre curate nei nostri spazi e attraverso i prodotti video realizzati per la televisione e il web. La peculiarità della nostra fondazione è che non solo produciamo documentari, serie a puntate e brevi clip, ma ci occupiamo anche del contenitore che li ospita, che risponde al nome di History Lab, un progetto che negli anni è stato canale televisivo, piattaforma internet, magazine multimediale, palinsesto YouTube. Questo contributo prova a ricostruirne la genesi e a tracciare l’evoluzione che ha avuto nel tempo, anche in concomitanza con cambiamenti mediali e tecnologici, a problematizzare modalità di lavoro nel fare divulgazione della storia e a proporre una tipologia di format.
Partiamo quindi dall’inizio. La nascita di History Lab, “accesa” ufficialmente il 17 ottobre 2011, avviene entro un cambiamento significativo nella storia della televisione italiana e allo stesso tempo ne rappresenta un unicum. Nel 2009 era iniziato infatti in Italia quel processo di transizione al digitale terrestre che porterà a un generale aumento dell’offerta di canali televisivi gratuiti e a una segmentazione della stessa per categorie/target di pubblico o interessi specifici. Tra gli altri, nascono nuovi canali di taglio culturale ed esplode un genere che nel mondo anglosassone aveva già trovato ampia fortuna: lo specialist factual, che propone contenuti specialistici (la scienza, l’arte, la storia appunto) in formule più accattivanti, moderne e dinamiche, considerate vicine alla reality television (Hill 2007; D’Amelio Bonelli 2020). In corrispondenza di un generalizzato risveglio della passione per le tematiche storiche e in linea con quanto fatto dagli altri servizi pubblici europei (Zanatta 2016, 67-68; Bisogno 2008), la Rai lancia il canale Rai Storia, che è vetrina dei suoi preziosi magazzini audiovisivi (le famose Teche Rai) e insieme spazio in cui la memoria e l’identità del paese entrano nella narrazione dominante di una rete tematica educational (Barra e Penati 2013). History Lab nasce in questa congiuntura, precisamente una volta conclusa la transizione nazionale al digitale terrestre, e va a occupare le frequenze al canale 602, visibile sul circuito regionale1. La peculiarità dell’operazione – come sottolineano anche i quotidiani locali che ne diedero notizia – è data sia dal fatto che si tratti del “primo [canale] in Italia, forse anche in Europa, interamente dedicato alla storia locale”2 sia dalla sua particolare conformazione produttiva: History Lab infatti era un esperimento fatto per lo più in house, con una piccola redazione di dipendenti del museo (due ricercatori, una persona formata nella comunicazione, un profilo più tecnico e organizzativo) e il supporto di professionisti del settore con esperienza di produzione televisiva e pedigree autoriale anche nazionale (tra gli altri Roberto Laurenzi, già produttore e autore Rai). Anche il primo video promozionale del canale sembra finalizzato a puntualizzare questa unicità:
History Lab un laboratorio di sperimentazione e ricerca dove le vicende individuali diventano Storia, il racconto di come eravamo e com’erano i nostri luoghi. Un progetto che trasforma ore e ore di filmati in racconto per il pubblico. (…) Oltre 1.000 ore di interviste: drammi, gioie, emozioni, raccontati dalla voce di chi ha vissuto il Novecento. Testimonianze preziose: attraverso la voce dei protagonisti il sapore del passato torna attuale. History Lab è anche una raccolta inedita di pellicole amatoriali, autentici reperti del quotidiano: l’emigrazione, il lavoro e il tempo libero restituiti dai Super8. Filmati d’epoca in esclusiva si alternano al racconto familiare per dare vita ai documentari di History Lab. Immagini che parlano, suoni che ritraggono (…). Le emozioni del ricordo: gli anni difficili di un mondo rurale che conosce il sapore amaro della povertà (…). Piccole e grandi vicende di un territorio, dalle sue peculiarità alla Grande Storia […]. Ma History Lab è anche sperimentazione (…) un laboratorio di idee dove la storia si fa attualità3.
Tre aspetti possono essere qui isolati: la natura dell’operazione (un “laboratorio” dove si prova a fare la televisione: la parola “sperimentazione” viene ripetuta due volte nel promo); le modalità di divulgazione storica (non solo trasformando le vicende singole in racconto corale, ma rendendo anche “visibile” il patrimonio del museo fatto di interviste, filmati amatoriali, scritture popolari e soggettive); e infine, la missione divulgativa ovvero la funzione pubblica che la storia museale dovrebbe avere (parlare al presente offrendo un “racconto per il pubblico”).
Strategie di programmazione e costruzione del palinsesto
Gli studi culturali ci hanno insegnato che non si tratta semplicemente di creare il prodotto giusto, ma anche di proporlo nel momento e secondo le modalità più adeguate a raccogliere un certo (auspicabilmente buono!) successo. Non fa eccezione la televisione, che ha nel palinsesto lo spazio simbolico e operativo capace di raccontare il canale, la sua mission e la tipologia dei suoi contenuti (Barra 2022). Questo vale anche per History Lab che dopo un primo periodo di “anarchia controllata” è andato affinando le proprie regole di programmazione e le strategie di pianificazione editoriale. Nei primi mesi di vita del canale infatti, i materiali audiovisivi venivano preparati per la messa in onda secondo logiche di giustapposizione semi-casuale (internamente lo si chiamava “blob”, proprio perché ricordava la scansione a flusso del noto programma di Enrico Ghezzi)4: la finalità principale era di mostrare e valorizzare il patrimonio del museo (andavano in onda interviste di storia orale in versione quasi integrale, spezzoni di diversi minuti dai film di famiglia e altre pellicole in formato ridotto, musicati e contestualizzati con una breve didascalia, letture recitate di diari e lettere senza una mediazione di contesto). Dopo questo primo periodo “vetrina” in cui il pubblico ha di fatto familiarizzato con gli elementi costitutivi del canale (il logo, i diversi tipi di materiale, lo slogan di rete), è iniziata la programmazione regolare: ventiquattro ore al giorno, tutti i giorni della settimana, con due periodi l’anno in cui venivano inseriti in palinsesto i nuovi programmi promossi come “la nuova stagione di History Lab”, a cui si sono poi aggiunte novità anche in altri momenti del calendario televisivo per poter comunicare una certa dinamicità del canale. I contenuti prodotti avevano e hanno la forma della serialità, per lo più breve o media (tra le 4 e le 12 puntate) e di formato corto (la maggior parte dei programmi ha una durata tra i 12 e i 25 minuti). Entrano in palinsesto una quindicina di serie nuove all’anno a cui si aggiungono i documentari di registi locali o che trattano tematiche locali e altri contenuti non originali; con le prime produzioni originali (Il teatro siamo noi, Cronache di comunità e Ritagli di storia) si è iniziato anche a lavorare su uno stile divulgativo specifico per il mezzo televisivo. Nonostante l’altissimo livello di replica, il palinsesto settimanale seguiva alcune regole di programmazione vicine a quelle di altri canali tematici free o pay, sia in termini di calendarizzazione delle prime serate che di pianificazione editoriale dei contenuti organizzati sulla base di tassonomie – per lo più consolidate internamente, più raramente esplicitate al pubblico – di genere, formato o target. Ogni nuova stagione è annunciata da un promo che ne racconta le novità e ricorda l’appuntamento con i contenuti inediti nella fascia del prime time (è stato collocato negli anni tra le 20.30 e le 21, quindi in anticipo rispetto alla prima serata delle generaliste, con una cosiddetta “ribattuta” dello stesso contenuto nella medesima serata, il giorno successivo in day time e nel fine settimana). Sulla distanza questo corpus promozionale consente di osservare l’evoluzione discorsiva della propria autorappresentazione come contenitore di storia, il ricorrere di alcune tematiche storiche (come le guerre mondiali e la storia dell’emigrazione trentina), la sempre rinnovata vocazione alla sperimentazione attraverso temi minori e modi freschi. History Lab lavora di fatto al bilanciamento tra programmi di divulgazione classica (core) e contenuti meno “ingessati” (outercore) dal punto di vista del linguaggio visuale o della narrazione, per intercettare anche pubblici più giovani sul canale YouTube dove vengono condivisi tutti i contenuti (la fascia tra i 18 e i 35 anni resta la più sfuggente). Il primo gruppo di programmi mantiene, per così dire, la promessa dello slogan di rete (Il racconto che fa la storia, poi modificato in Le vicende individuali diventano storia): sono i talk show da studio che mescolano storia e attualità, coinvolgendo storici e storiche locali ma anche altre figure professionali, i programmi su un tema storico specifico con interviste a esperti e testimoni (per citare alcuni titoli “parlanti”: Il primo anno. Trento 1919 o I forti del Trentino), gli adattamenti televisivi delle mostre curate dalla Fondazione (a partire dalla Grande guerra sul grande schermo, inaugurata a Le Gallerie nel 2014) e le serie che ne valorizzano archivi e collezioni (come Oggi si vola! sulle collezioni Caproni, Stuff sugli oggetti più particolari posseduti dal Museo, Io mi ricordo con le interviste di storia orale conservate presso la Cineteca). Il secondo gruppo comprende quei prodotti audiovisivi che negli anni si sono fatti portatori di un cambio di registro per contenuto o tono. Da una parte, l’allargamento a tematiche non immediatamente storiche ma piuttosto legate alle arti e alle tradizioni, sempre con un punto di vista territoriale, che portano al canale prestigio in termini simbolici, economici e di nuovi utenti. Abbiamo creato collaborazioni e stretto rapporti di coproduzione con la rete provinciale delle scuole musicali (per due stagioni del format Suonati), con i festival cinematografici locali dedicati a montagna, archeologia e culture del mondo, con soggetti attivi nelle arti performative dal vivo (durante il primo periodo della pandemia da Covid-19, il format Qui e ora ha mostrato a un pubblico generalista alcune performance artistiche in genere pensate e fruite da nicchie più ristrette, provando a renderle intellegibili a tutti e tutte). Dall’altra parte, ci siamo lungamente interrogati su come modulare il “tono di voce” del canale provando a renderlo ogni tanto più leggero, scanzonato e ironico, ma sempre nel rispetto dei temi trattati e nella precisione delle informazioni fornite. “Si può provare a ridere con la Storia?”, ci siamo chiesti insomma. Il coinvolgimento di un attore comico locale in due programmi molto diversi tra loro ha sembrato dare una risposta positiva alla nostra domanda. Che storia la storia (2019, 10 pt.) ha raccontato alcune figure storiche a cui sono dedicate le vie di Trento con la formula del quiz (senza premi): in giro per la città, una giornalista “interrogava” ignari passanti sul personaggio di puntata mentre un simpatico mimo suggeriva loro le risposte corrette. La storia in 5 mosse invece è un format didattico nato nella primavera del 2020 durante il lockdown dove un tema storico del programma scolastico (il Settecento, la rivoluzione francese, la Belle époque, la Grande guerra, il fascismo, la Seconda guerra mondiale, ecc.) viene sviluppato in cinque mosse, appunto, attraverso una spiegazione coinvolgente e ludica, senza essere banalizzante, e con un approccio scanzonato alle fonti iconografiche: l’attore che narra la storia interagisce con le fonti entrando letteralmente dentro a quadri, velivoli, immagini in movimento.
Al periodo “vetrina” dei contenuti museali e alla lunga fase di consolidamento dell’attività audiovisiva, è seguito un terzo periodo, che sarà ripreso anche in seguito, in corrispondenza di un altro cambio tecnologico per la televisione italiana, ovvero il passaggio al digitale terrestre tv di seconda generazione che ha visto lo spegnimento definitivo da parte dell’editore di riferimento del canale 602. A febbraio 2022 è così iniziata una nuova vita per il brand History Lab che da canale televisivo acceso tutto il giorno è diventato progetto audiovisivo presente con label diversi su più piattaforme: History Lab Magazine (un magazine online che si occupa di comunicazione della storia e ha superato le venti uscite), History Lab Live (un palinsesto di 6/8 ore sulle frequenze provinciali del canale 12), History Lab on demand (l’archiviazione di tutti i contenuti originali in un canale YouTube che conta 10.500 iscritti), History Lab podcast (l’ultimo nato che ha all’attivo due serie podcast: La macchia nera e Lo sfascio. Settembre ’43). Tra tutte queste derivazioni, il magazine è sicuramente lo strumento più impegnativo, dal momento che richiede la presenza di una redazione di 7/8 persone che discutono dei temi e, a turno, scrivono i pezzi, fanno le interviste, impaginano il numero, ecc5.
I format audiovisivi di History Lab
I format originali realizzati dal 2011 sotto l’etichetta “History Lab” sono stati quasi 90. Un numero che se da una parte restituisce solo parzialmente il lavoro svolto – molti di questi prodotti hanno infatti vissuto più stagioni televisive (si vedano i numeri riportati più sotto) – dall’altra rende però l’idea della varietà di proposte che possono essere accorpate in una tipologia, per quanto porosa e non esaustiva (è evidente che diverse produzioni si collocano al confine tra un tipo e l’altro).
Un primo discrimine per tentare una tipologia della nostra offerta audiovisiva è il contenuto: abbiamo realizzato programmi che potremmo definire genericamente “di storia”, format che riguardano “il territorio” e altri che si collocano “tra storia e attualità”. I primi sono variazioni, più o meno elaborate, delle classiche “lezioni di storia”. Le più semplici dal punto di vista tecnico – ma seguitissime sul canale YouTube – sono state realizzate nel periodo di isolamento legato alla pandemia di Covid-19: un ricercatore o una ricercatrice, in un setting molto spartano con una telecamera fissa e le slide proiettate sullo sfondo, spiegava un argomento storico, un periodo o un grande avvenimento sviluppandolo in una quarantina di minuti (la variante light prevedeva un focus di circa venti minuti ed era girata in uno dei nostri spazi espositivi). Altre lezioni presentano un livello superiore di cura produttiva e sono caratterizzate dalla presenza di immagini di copertura, schede e parole chiave in grafica, piccole clip di approfondimento.
I format che raccontano il territorio assolvono, appunto, alla funzione “territoriale” della Fondazione. Appartengono a questa categoria, per esempio, i Lab (2012-in corso, 74 pt.): primo programma in assoluto realizzato dalla redazione interna, racconta di associazioni, musei, realtà che in Trentino si occupano di storia e memoria, e più recentemente anche di convegni e iniziative di divulgazione storica che si tengono sempre in provincia. Alcuni altri format sono stati invece pensati per mostrare e narrare le tracce del passato inscritte nel paesaggio, come la serie Nel parco (2021, 7 pt.) che ha raccontato le diverse comunità che lo vivono attraverso le professioni e le economie legate alla montagna, o le due stagioni de Le vie della pietra (2019-2021, 15 pt.), viaggio in due stagioni, attraverso i paesaggi minerari del Trentino letti come fonte della storia e come oggetto della geografia umana6.
Terzo filone di contenuto riguarda poi quei programmi che legano storia e attualità, trattando argomenti più in generale culturali. Un buon esempio in questo senso sono le già citate produzioni realizzate in collaborazione con altre realtà locali, come i festival cinematografici (Visioni con Trento Film Festival, 20 pt., e Sguardi con RAM Film Festival, 12 pt.), museali (la serie in sei puntate Il castello ha raccontato il lavoro quotidiano di una delle più antiche istituzioni italiane dedicate alla storia militare, il Museo storico italiano della guerra a Rovereto) o quegli enti che si rivolgono alla Fondazione per sviluppare un prodotto in occasione di anniversari o ricorrenze particolari (i cento anni della Società di Studi Trentini di Scienze Storiche sono stati raccontati nella serie Tra le pagine della storia, 2020, 5 pt.).
Un altro criterio per guardare ai format del nostro progetto audiovisivo riguarda la loro struttura. A partire dalla forma che viene meno elaborata in post-produzione: le “testimonianze”, ovvero interviste anche piuttosto lunghe – si va dai dieci minuti alla mezz’ora circa – in cui una persona racconta una propria esperienza o la storia della propria vita, in cui vi è un lavoro minimo di montaggio e pochi interventi grafici: sono state prodotte per esempio quasi 70 puntate di Io mi ricordo, che mette al centro il singolo e i suoi ricordi personali di eventi storici; anche in questo caso abbiamo versioni produttivamente più elaborate come i sei video-racconti di Pioniere. Donne prime della rivoluzione (2018, 6 pt.), dove intervistata e intervistatrice dialogano in una stanza della casa con alcuni inserti di contestualizzazione storica da studio.
Le “lezioni di storia” con un/a esperto/a protagonista di puntata fanno categoria a sé anche in termini di struttura: in questo caso la funzione didattica è prioritaria e determina lo stile del programma che deve approfondire un argomento storico ed essere fruibile a geometrie variabili (insegnanti per spunti di metodo e ricapitolazione, classe per studio individuale o visione collettiva). Un esempio in tal senso è la serie educativa Accadde quel giorno (2020-in corso, 33 pt.) che parte da un giorno preciso della storia scolastica per raccontarne antefatti, tratti salienti conseguenze (dal giorno in cui Roosevelt diventa presidente degli Stati Uniti a quello in cui le donne conquistano il diritto di voto in Italia). La location è minimale e poco invasiva (una poltrona, un tavolino e una biblioteca proiettata come sfondo fisso), il parlato dell’educatore/trice è chiaro e ben scandito, ricco di immagini direttamente collegate a ciò di cui si sta parlando, diviso in capitoli e ampiamente provvisto di schede e citazioni (in modo molto simile ai manuali di storia).
Ci sono poi i “talk show” di genere storico con interviste (di cui almeno una con competenze storiche) moderati da un conduttore o una conduttrice che pone le domande e crea i necessari raccordi per rendere il dialogo il più scorrevole e meno accademico possibile. In questo caso, è previsto l’allestimento di uno studio (le location sono più curate rispetto a una lezione di storia filmata e definiscono lo stile stesso del programma) e un maggior intervento in fase di post-produzione (per esempio il montaggio dell’intervista è molto più serrato che nelle testimonianze e nelle lezioni).
Aumentando di complessità, troviamo i “servizi di carattere giornalistico” che raccontano una realtà attraverso gli occhi e le domande di un conduttore o conduttrice che si reca sul posto, fa interviste, si muove nei luoghi della storia secondo modalità che ricordano lo stile delle inchieste televisive. Liminali ai servizi sono infine i “documentari” e le “serie documentaristiche” in cui si racconta una ricerca o un argomento attraverso un mix di strumenti: interviste, narrazioni, documenti storici come materiali fotografici, audio, filmati.
Un possibile asse di definizione dei programmi riguarda anche i modi in cui un format prende forma internamente al Museo: il materiale per dare avvio a un programma può originarsi da una ricerca in fieri, da una mostra allestita, da un archivio da valorizzare o da un settore di lavoro, da campagne di interviste realizzate sul territorio e da attività di documentazione delle sue trasformazioni.
La sfida dei linguaggi, tra audiovisivo e magazine
Da quando è iniziato il lavoro di divulgazione della storia attraverso l’audiovisivo la sfida è stata sempre quella di soddisfare tre requisiti che sono propri della public history (Cauvin 2022).
Il primo: trovare modalità nuove per comunicare la storia, adeguando le ricerche storiche, i materiali d’archivio e il patrimonio dell’istituzione al linguaggio televisivo e ora anche al linguaggio web. Abbiamo visto come i canali tematici, in particolare quelli storici, siano stati una fonte d’ispirazione e studio per costruire non solo i primi blocchi di contenuto ma anche per strutturare il palinsesto e cogliere strategie di creazione e sviluppo dei contenuti. In modo simile, quando è nato History Lab Magazine, abbiamo fatto un lavoro di scouting e riflessione per capire che forma avrebbe dovuto assumere, che contenuti sviluppare e a quale pubblico fare riferimento: il primo numero, al pari del primo periodo di accensione del canale, è stato pensato come una sorta di “biglietto da visita”. Si intitolava “History Influencer”, e lungi dal voler essere un’arrogante auto-definizione intendeva piuttosto chiarire l’area di interesse di questo nuovo prodotto culturale: teso quindi a raccontare i diversi, nuovi modi di divulgare la storia, guardando a temi in grado di tracciare un filo rosso tra passato e attualità, tra storia e comunicazione. Per funzionare, ci siamo detti, questo prodotto culturale doveva avere una veste accattivante e curata, ovvero doveva essere un organo di informazione storica credibile e autorevole ma doveva anche prestare attenzione all’aspetto estetico e stilistico che ci sembrava meno pregnante per altre testate di divulgazione scientifica: un prodotto che affiancasse alla curatela dei contenuti, un’attenzione alla veste grafica e uno stile giornalistico. In altre parole, l’idea è di parlare di comunicazione della storia innovativa, cercando allo stesso tempo di fare comunicazione della storia innovativa. Questo obiettivo candida di fatto History Lab Magazine a essere un laboratorio di public history.
E qui veniamo alla seconda sfida, visibile sia in ambito televisivo che sulla piattaforma: abituare chi fa ricerca, dentro e fuori l’istituzione, a un tipo di lavoro completamente diverso rispetto alla scrittura di un libro o di un articolo scientifico, in termini di tempistiche, stile della narrazione, uso delle fonti. Questo è forse l’aspetto più complesso e stimolante: alla difficoltà iniziale di far superare la diffidenza verso la televisione e il magazine come strumenti adeguati per fare storia, si è subito reso necessario far capire a storici e storiche coinvolte nelle produzioni che non basta “interpretare sé stessi” per andare in televisione come non basta “tagliare il tal saggio già scritto” per essere pubblicati nel magazine. Entrambi hanno le loro regole, le loro “norme redazionali” diremo. A partire dalla necessità di fare sintesi: i tempi televisivi non corrispondono allo spazio della pagina scritta – con incisi, note, riferimenti minuziosi – ma i concetti della storia in televisione possono comunque restare intatti. Un’informazione o un’interpretazione possono essere semplificati nella forma, senza essere banalizzati nella sostanza. Come sa bene chi insegna storia a scuola; e qui sta un’altra buona norma: la chiarezza. Nell’aula scolastica e in televisione prevalgono forme di discorso frontale, asimmetrico, dove c’è chi parla e chi (prevalentemente) ascolta, con una sostanziale differenza nei modi: la chiarezza a scuola è fatta di un tornare sugli stessi concetti più volte ma con parole diverse, riprendere i fili del discorso per aiutare la classe a capire, accompagnarla nell’apprendimento; anche in televisione è necessaria chiarezza ma questa non può prescindere dalla sintesi di cui si è detto. Per cui la storia in televisione deve essere, appunto, una storia: non un discorso a braccio per approssimazioni e aggiustamenti ma una narrazione con una precisa e riconoscibile struttura. A dispetto di un luogo comune diffuso, in televisione nulla (o quasi) è improvvisato: lo sforzo di sintetizzare e dare chiarezza ai contenuti necessita di una sceneggiatura e ha un obiettivo, quello di informare intrattenendo (non a caso ormai il termine più in voga per definire questi contenuti è edutainment). E questo è possibile soltanto aggiungendo una nota emotiva, creando curiosità, empatia, riconoscimento, o viceversa avversione: un particolare (uno solo, non un catalogo di particolari) così potente da essere ricordato, personaggi che diano un volto agli eventi narrati, riferimenti espliciti o allusioni all’attualità, una storia minore e dimenticata, un repertorio di immagini di buona risoluzione, sono tutti elementi che contribuiscono a dare colore a una storia e che andranno a costituire l’intelaiatura del racconto televisivo. Nella consapevolezza che in pochi minuti, o in poche battute (5.000 nel caso dei pezzi scritti del magazine), non si può dire tutto ma se si vuole si riesce a dire tanto, senz’altro il giusto per agganciare chi guarda e chi legge. C’è un altro aspetto che vale la pena ricordare: il linguaggio audiovisivo della storia chiede a storici e storiche di non fare mai da soli, ma di lavorare con altri professionisti a progetti dall’autorialità condivisa. Per realizzare i programmi televisivi come pure per garantire le 8/10 uscite annuali di History Lab Magazine, registrato come testata giornalistica, è sempre necessario l’intervento di più professionalità: per l’appunto storiche, grafiche e giornalistiche.
Infine la terza sfida: coinvolgere un pubblico ampio, non solo come audience ma come attivatore del discorso audiovisivo. Prima ancora dell’accensione del canale, per esempio, erano stati organizzati alcuni incontri – chiamati Cantieri: a metà strada tra il brainstorming di idee, il lancio dell’iniziativa e la call aperta per future collaborazioni – che hanno coinvolto attori istituzionali locali, professionisti del video e della cultura, docenti e appassionati di storia, privati cittadini e cittadine. La volontà era di pensare contenuti che potessero coinvolgere i target di riferimento già in fase realizzativa, sia attivando partnership sul territorio sia facendo partecipare i potenziali fruitori e fruitrici alle produzioni. Il canale ha coltivato questa sua vocazione di storia “dal basso” attraverso le interviste realizzate fin dall’inizio per la divulgazione (e non come campagna di storia orale) e attraverso alcune attività didattiche finalizzate alla produzione video. Rientra nella prima categoria la già citata serie Pioniere, che non a caso scardina la metodologia più classica dell’intervista di storia orale (l’intervistata davanti alla telecamera e l’intervistatrice dietro) per garantire una resa televisiva più dinamica e meno appiattita sulla sola testimone; un esempio di didattica applicata al video è invece il longevo format Storie in scatola (2013-in corso, 64 pt.) dove le puntate trasmesse sono solo l’ultima tappa di un percorso didattico in cui ragazzi e ragazze della scuola primaria imparano cosa sono le fonti storiche, ne reperiscono una appartenente alla propria famiglia e la raccontano davanti alla telecamera, mentre il resto della classe affianca la troupe nella gestione dello studio televisivo.
Un lavoro di coinvolgimento simile è avvenuto anche per il magazine: il numero uscito a giugno 2024, dal titolo Che scoop!, è il frutto di una collaborazione con gli studenti e le studentesse del corso di Laurea in Scienze storiche e orientalistiche dell’Università di Bologna, ai quali abbiamo raccontato il lavoro di redazione e lanciato la sfida di confezionare un numero insieme, discutendo in classe il taglio editoriale, l’argomento di ogni pezzo, restituendo feedback e consigli7.
L’esperienza di History Lab ha consentito allo staff della Fondazione di continuare a interrogarsi su alcuni temi chiave nella riflessione contemporanea sulla public history, come il rapporto tra eventi storici e rappresentazione mediale, l’utilità del video nella didattica della storia, la funzione di intrattenimento che le esperienze multipiattaforma chiedono di assolvere e il tono di voce ancora austero che la storia porta con sé.
Bibliografia
- Barra, Luca. 2022. La programmazione televisiva: palinsesto e on demand. Roma-Bari: Laterza.
- Barra, Luca e Cecilia Penati. 2013. “«Catch-up» con gli archivi. Digitale terrestre e patrimonio Rai.” In Storie e cultura della televisione italiana, a cura di Aldo Grasso, 438-448. Milano: Mondadori.
- Bisogno, Anna. 2008. La storia in tv. Immagini e memoria collettiva. Roma: Carocci.
- Cauvin, Thomas. 2022. Public History: A Textbook of Practice. London: Routledge.
- D’Amelio Bonelli, Simone. 2020. “History Channel: la forza del brand e l’ibridazione dei generi”. In La storia pubblica. Memoria, fonti audiovisive e archivi digitali, a cura di Aldo Grasso, 119-121. Milano: Vita e Pensiero.
- Hill, Annette. 2007. Restyling Factual TV: Audience and News, Documentary and Reality Genres. London: Routledge.
- Zanatta, Sara. 2016. Tutto fa Storia. Analisi di un genere televisivo. Roma: Carocci.