Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Dimenticare l’aquila calpestata. La Conquista e il passato precoloniale nel paesaggio urbano di Città del Messico

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Abstract

The paper examines the various forms in which the memory of the Spanish conquest  has been materialized and signified in the monuments of Mexico City, formerly the capital of both the Aztec empire and the Viceroyalty of New Spain. Looking at how the memory of the Conquest was settled in the “mnemonic landscape” of the city  can reveal the identity strategies of a country that, born on the ashes of a destructive event, has always been forced to make sense of its painful past in order to plan its own future.

Premessa

Chiunque abbia passeggiato per Città del Messico avrà notato come una straordinaria densità di monumenti, edifici storici e musei la rendano un vero e proprio museo diffuso, un palinsesto di luoghi della memoria stratificatisi nel corso dei secoli. L’intento di questo articolo è quello osservare le diverse forme in cui la memoria della conquista spagnola del Messico è stata nel corso del tempo materializzata e significata nel “paesaggio mnemonico” della megalopoli, già capitale del Vicereame coloniale della Nuova Spagna e prima ancora – con il nome di México-Tenochtitlan – capitale dell’impero azteco [1]. Uno sguardo alla sedimentazione monumentale della memoria della Conquista può infatti essere rivelatore in merito alle strategie identitarie di un paese che, nato sulle ceneri di un evento distruttivo, è sempre stato costretto a dar senso a quel doloroso passato per poter pensare il proprio futuro.

Memorie coloniali

Dato il suo devastante portato di distruzione politica, culturale e demografica, l’evento traumatico della Conquista ha costituito sin dal Cinquecento il principale snodo problematico di ogni narrazione del passato messicano, richiedendo, sia dal punto di vista strettamente storiografico che da quello della sua rappresentazione monumentale, uno sforzo, un supplemento di conferimento di senso che potesse rendere pensabile una distruzione, umana e culturale, di simile portata [2].

Nel corso della lunga età coloniale, avviatasi il 13 agosto 1521 con la definitiva sconfitta subita dall’esercito indigeno di Cuahtémoc nella piazza di Tlatelolco (città gemella dell’antica capitale e oggi quartiere di Città del Messico), la significazione della Conquista fu relativamente uniforme. Nonostante le voci parzialmente dissenzienti di missionari come Bartolomé de las Casas, nel mondo ispanico la devastazione causata dalla Conquista fu percepita come una sorta di fuoco purificatore che, per quanto doloroso, era stato necessario ad avviare il processo di civilizzazione e cristianizzazione delle popolazioni indigene. Dal punto di vista monumentale, la Conquista fu sostanzialmente assente nel paesaggio urbano della traza, il nuovo quartiere nato sulle macerie di templi e palazzi reali indigeni ben presto sostituiti da chiese come l’imponente Cattedrale e da edifici pubblici come il Palazzo del Viceré (oggi Palazzo Nazionale) i quali, rappresentando il radicamento delle istituzioni politiche e religiose ispaniche, materializzavano il risultato della colonizzazione più che la violenza che ne fu all’origine. Significativa fu l’erezione, nel 1540, al di sopra delle macerie dei templi aztechi rasi al suolo nella piazza di Tlatelolco, di una chiesa dedicata a quel Santiago Matamoros che, già protettore della Reconquista iberica, si era trasformato nel protettore della conquista delle terre americane; quando l’edificio fu rinnovato nel 1611, il santo vi fu raffigurato nella nuova veste di Mataindios (appellativo che in realtà non fu mai usato nell’età coloniale) mentre sconfigge guerrieri aztechi in un pregevole bassorilievo (fig. 1) di Miguel Mauricio, artista indigeno dal “grande e delicato ingegno” secondo la coeva testimonianza del francescano Juan de Torquemada [1977, 254] chiaramente finalizzata ad esaltare i frutti dell’opera missionaria e pedagogica suoi confratelli, che proprio nella piazza di Tlatelolco avevano fondato un collegio destinato all’educazione dei rampolli della nobiltà indigena. Il passato pagano doveva essere dimenticato e fu con questo fine che l’arcivescovo Alonso de Montúfar ordinò di seppellire una grande pietra sacrificale che giaceva abbandonata in un angolo del zócalo, la piazza centrale della città; secondo un resoconto del tempo, oltre che per cancellare la memoria degli antichi sacrifici, la scultura fu interrata perché si temeva che avesse un effetto pernicioso su quei neri che lì si riunivano a “giocare e a commettere altri atroci delitti” [Durán 1984, I, 100; López Luján 2008].

Una tarda ma notevole eccezione al “silenzio” monumentale sulla Conquista in età coloniale fu la statua equestre del sovrano spagnolo Carlo IV, nota con l’ironico nome di El Caballito, realizzata da Miguel Tolsá con ventisei tonnellate di bronzo e inaugurata nel dicembre del 1803 nel zócalo; uno degli zoccoli dell’imponente cavallo calpestava un’aquila e una faretra a simboleggiare la sconfitta inflitta all’impero azteco, rarissimo – se non unico – riferimento alla Conquista nel paesaggio monumentale dell’epoca (fig. 2).

Nonostante questa pomposa esibizione di potere, il dominio spagnolo sulle Americhe agli inizi del XIX secolo era tutt’altro che saldo. Già negli anni antecedenti lo scoppio dei primi moti indipendentisti del 1810, diverse componenti del mondo creolo novoispano si stavano impegnando in una rilettura del passato indigeno al fine di farne uno degli elementi distintivi di una storia patria capace di far da fondamento identitario alla nuova “comunità immaginata” del futuro Messico indipendente [3]. Celeberrimo, ad esempio, è il caso del gesuita Francisco Javier Clavigero, autore di una Storia antica del Messico, pubblicata nel 1780-81 a Cesena in seguito alla cacciata dei gesuiti dai domini spagnoli [Clavigero 1780-1781]. Fu in questa temperie di riscoperta e valorizzazione delle radici indigene del paese che già nel 1777 i Conti di Santiago di Calimaya avevano collocato alla base di un angolo del loro palazzo – oggi sede del Museo de la Ciudad de México – una testa di serpente azteca rinvenuta durante i lavori di costruzione dell’edificio (fig. 3). Ma fu nel 1790 che il passato preispanico riemerse prepotentemente davanti agli occhi degli abitanti della città, quando nel zócalo vennero accidentalmente ritrovate due maestose sculture azteche: la celeberrima pietra sacrificale oggi nota come Piedra del Sol (la stessa precedentemente fatta interrare da Montúfar; (fig. 4) e la Coatlicue (fig. 5), colossale raffigurazione della terrificante dea madre denominata “Colei dalla Gonna di Serpenti”, il cui collo è cinto da una collana di mani mozzate e cuori umani. Oggetto di un dotto studio da parte di Antonio de León y Gama [1792] (fig. 6) – la cui eco si diffuse ben oltre i confini novoispani come testimonia l’attenta lettura che a Bologna ne fece il Cardinale Giuseppe Mezzofanti nel 1814 [Laurencich Minelli 1991] – le due sculture ebbero destini molto diversi: la Piedra del Sol, percepita non più come contaminate memoria del passato pagano ma come “un apprezzabile monumento dell’antichità indiana” [León y Gama 1792, 11-12] fu affissa alla base di una delle torri della Cattedrale (fig. 7); la Coatlicue, probabilmente giudicata troppo terrificante, venne invece collocata nel patio della Reale e Pontificia Università, dove ben presto si decise però di rinterrarla, per non esporla allo sguardo della gioventù messicana. Dissotterrata su richiesta di Alexander Von Humboldt nel 1803, venne nuovamente sepolta poco dopo poiché si osservò che gli indigeni si prostravano davanti alla scultura, offrendole fiori e candele [4].

Il Messico insorge, il passato risorge

La paradossale pretesa di continuità con il glorioso passato imperiale sulla quale il Messico indipendente edificò la propria identità nazionale è esemplificata dalle parole scritte da Carlos María Bustamante per il discorso pronunciato da José María Morelos al Congresso di Chilpancingo, il 14 settembre 1813:

Geni di Moctehuzoma, di Cacamatzin, di Cuauhtimotzin, di Xicoténcatl e di Catzonzi, celebrate […], questo felice istante nel quale i vostri figli si sono riuniti per vendicare le prepotenze e gli oltraggi, e si son liberati dagli artigli della tirannia e del fanatismo che li avrebbero soggiogati per sempre! Al 13 agosto del 1521, succede il 14 settembre del 1813. In quel giorno furono strette le catene della nostra servitù a México-Tenochtitlan, oggi si rompono per sempre nel fortunato paese di Chilpancingo.

Nell’ambito del nuovo discorso patriottico la Conquista veniva quindi descritta come una manifestazione di tirannia e fanatismo, la cui crudeltà era paragonata a quella della recente repressione realista dei primi moti insurrezionali; più spesso, però, essa veniva del tutto cancellata dalla storia patria insieme alla lunga esperienza coloniale, ridotta a trascurabile interregno tra il passato preispanico e il nuovo Stato nazionale. A fare le spese di questa rilettura del passato fu ben presto la statua equestre di Carlo IV, coperta da una tenda blu mentre si pianificava di fonderla per farne cannoni o monete; salvata per volere di Carlos Alamán, la statua fu spostata nel 1822 all’Università, nello stesso patio dove era sepolta la Coatlicue; nel 1824 il patio fu finalmente aperto al pubblico, ma solo dopo l’asportazione dell’aquila schiacciata dagli zoccoli del cavallo, cosa che non fu possibile fare con la faretra al fine di non minare la stabilità della scultura. Mentre la memoria della Conquista veniva così letteralmente cancellata a colpi di scalpello, quella del passato precoloniale diveniva via via più accettabile: nello stesso anno, infatti, la Coatlicue fu nuovamente dissotterrata su richiesta di William Bullock che ne fece una copia da esporre, insieme a una replica in gesso della Piedra del Sol e ad altri monumenti aztechi, alla mostra Ancient and Modern Mexico, tenutasi alla Egyptian Hall di Piccadilly, a Londra (fig. 8); la scultura fu quindi collocata in un angolo del patio che condivideva con El Caballito, come si può osservare in un dipinto dell’italiano Pietro Gualdi (fig. 9).

L’esposizione della Coatlicue indica che i tempi erano ormai maturi per la fondazione di un museo, tanto che nel 1825 fu fondato, nello stesso edificio dell’Università, il Museo Nacional Mexicano, dove vennero esposti i reperti archeologici derivanti dalle diverse spedizioni di ricerca organizzate nel vasto territorio della Repubblica; nel 1865 il museo fu spostato nella vicina Casa de Moneda (fig. 10) per volere dell’Imperatore Massimiliano d’Asburgo, il cui genuino interesse per il passato nazionale era anche finalizzato a guadagnarsi il benvolere di una popolazione diffidente nei confronti del monarca imposto dai francesi. Alcuni anni prima, nel 1852, il monumento a Carlo IV era stato nuovamente spostato all’incrocio tra l’Avenida Bucareli e il Paseo de la Reforma, il nuovo grande asse viario della città; una solida cancellata lo proteggeva dai temuti assalti della popolazione cittadina (fig. 11).

La riesumazione fisica e simbolica di un passato ingiustamente cancellato dalla Conquista proseguì per tutto il XIX secolo, raggiungendo il suo culmine durante i trentacinque anni (1876-1911) di presidenza di Porfirio Díaz, quando tale tendenza convisse paradossalmente con il dichiarato anelito europeista e modernista delle élite messicane. Nel corso degli anni ’80 dell’800, Díaz decise di convertire il Paseo de la Reforma in un vero e proprio asse monumentale punteggiato da decine di sculture che sintetizzassero la storia del paese [Martínez Assad 2005] (fig. 12). Nel 1877, su proposta del ministro Vicente Riva Palacio, si decise quindi di erigervi una statua di Cauhtémoc, il sovrano indigeno sconfitto da Cortés a Tlatelolco. Cosí recitava, con un linguaggio denso di anacronismi, il relativo decreto del 23 agosto 1877:

Volendo abbellire il Paseo de la Reforma con monumenti degni della cultura di questa città e la cui vista ricordi l’eroismo con cui la nazione ha lottato contro la conquista del XVI secolo, per l’indipendenza e oggi per la riforma, si dispone che nella rotonda situata ad ovest di quella occupata dalla statua di Colombo si eriga un monumento votivo a Cuautimotzin e agli altri comandanti che si distinsero nella difesa della patria, nella seguente rotonda un altro a Hidalgo e agli altri eroi dell’Indipendenza e nulla successiva un monumento a Juárez e agli altri condottieri della Riforma e della seconda indipendenza.

Magicamente eliminate tanto la Conquista come l’età coloniale, il sovrano indigeno Cuauhtémoc diveniva così il capostipite di una fittizia genealogia patriottica che univa epoca preispanica, Indipendenza e Riforma. La statua, realizzata da Miguel Noreña, fu inaugurata il 21 agosto del 1887 (fig. 13). Nello stesso anno fu inaugurata la Galleria dei Monoliti del Museo Nazionale (fig. 14) dove, insieme alla Coatlicue e ad altre sculture azteche, troneggiava la mole della Piedra del Sol, rimossa due anni prima dalla torre della Cattedrale; in occasione dell’inaugurazione, Porfirio Díaz si fece ritrarre in una celebre foto davanti alla scultura divenuta ormai immagine iconica del passato azteco (fig. 15).

Il furore monumentale del Messico ottocentesco si manifestava ormai senza freni: nel 1888, lo scultore Jesús F. Contreras fu incaricato di realizzare dei bassorilievi bronzei con ritratti di alcuni imperatori aztechi per decorare la facciata del padiglione messicano all’Esposizione Universale di Parigi del 1889, concepito da Antonio Peñafiel in stile “neo-preispanico” [Tenorio Trillo 1996] (fig. 16). Al loro ritorno in patria, i tre bassorilievi bronzei vennero collocati nel Jardín de la Triple Alianza, dove sono ancora oggi (fig. 17). Per lo stesso padiglione parigino erano state commissionate anche delle statue dei due imperatori aztechi Itzcóatl e Ahuítzotl, opere dello scultore Alejandro Casarín. Mai giunte a Parigi, nel 1890 furono collocate all’inizio del Paseo de la Reforma (fig. 12) ma, dato lo scarso apprezzamento della popolazione, nel 1901 furono spostate prima al Canal de la Viga e poi sulla via Insurgentes Norte (fig. 18) dove, per via del colore assunto a causa della forte ossidazione dovuta all’alto contenuto di rame nella lega metallica, sono oggi note come gli “indios verdes”, nome passato anche alla locale stazione della metropolitana.

Negli anni finali del Porfiriato il paesaggio urbano di città del Messico continuò ad arricchirsi di monumenti europeizzanti, spesso “conditi” di elementi che alludevano alle glorie del passato preispanico. Un esempio di tale commistione tra riesumazione del passato e spinta modernizzatrice è il Palacio de Bellas Artes, realizzato nel 1904 dall’italiano Adamo Boari, nelle cui decorazioni interne si osserva una sintesi di motivi preispanici e stili artistici art decó e art nouveau; pochi anni prima, Boari aveva proposto a Porfirio Díaz il progetto, mai realizzato, di un basamento piramidale costituito da una commistione di elementi indigeni e classici, coronato da una statua equestre del presidente. Per festeggiare i cent’anni dell’Indipendenza del paese nel 1910, oltre a finanziare ingenti scavi archeologici sia in città che nella vicina Teotihuacan, Porfirio Díaz organizzò una parata nella quale impersonatori di guerrieri e imperatori aztechi (fig. 19, fig. 20), tra i quali l’immancabile Cuauhtémoc, sfilarono sullo sfondo del nuovo mirabolante paesaggio urbano della capitale, dove la Conquista continuava ad essere sostanzialmente assente.

La Rivoluzione e l’identità nazionale meticcia

Nonostante la pompa delle celebrazioni porfiriane, nello stesso 1910 la rivoluzione mise fine al regime di Díaz dando inizio all’avventura del Messico che si immaginava proiettato verso un avvenire di giustizia e sviluppo; ciononostante, il discorso nazionalista sul passato e sulla Conquista rimase per molti versi analogo a quello pre-rivoluzionario, essendo ancora incentrato sulla “riemersione di un passato glorioso” celebrato sia attraverso omaggi alle sue vestigia più iconiche che mediante la rielaborazione di elementi preispanici in monumenti stilisticamente moderni. Tale continuità è magnificamente rappresentata dalla foto del 1917 in cui il presidente Venustiano Carranza si fece ritrarre davanti alla Piedra del Sol (fig. 21), in modo sostanzialmente identico a quanto aveva fatto anni prima Porfirio Díaz. Tra i monumenti più pregevoli dell’epoca, vale la pena ricordare i poco noti bassorilievi posti nel 1928 a decorazione della nuova stazione dei pompieri, nei quali motivi dell’iconografia preispanica relativi ai temi del “Fuoco” e “Acqua” furono reinterpretati in chiave art déco (fig. 22).

In realtà, però, la Rivoluzione apportò elementi innovativi anche sul piano della rilettura del passato e della Conquista. Una nuova ideologia nazionale – elaborata principalmente dal ministro dell’educazione José Vasconcelos e dall’antropologo Manuel Gamio – fece infatti del meticcio il nuovo protagonista della Repubblica Messicana, lanciata verso un’agognata modernizzazione industriale di stampo socialista. La componente indigena del paese, pur erede delle grandi civiltà del passato, doveva ora essere assimilata alla nuova comunità messicana, che si immaginava come meticcia e moderna. In questo nuovo quadro concettuale la Conquista venne quindi risignificata come momento di incontro e meticciaggio tra indigeni e bianchi: un incontro sì doloroso e tragico, ma necessario alla formazione della nuova “razza cosmica” destinata a un fulgido avvenire. Nelle parole di Vasconcelos: «Il trionfo di noi latinoamericani sarà quello di essere la razza definitiva, la razza sintesi, la razza cosmica fatta del genio e del sangue di tutti i popoli insieme e quindi in grado di raggiungere una genuina fratellanza e di formulare una visione del mondo veramente universale» [Vasconcelos 1925]. Se il fondamento indigeno della nuova “razza” venne celebrato con monumenti pubblici come il monumento a La Raza del 1940 (fig. 23), le migliori espressioni pubbliche della nuova ideologia nazionale vennero realizzate, su esplicito invito di Vasconcelos, dal celeberrimo gruppo di artisti tra i quali spiccavano Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, i cui murales abbellirono molti dei principali edifici della città. Nelle loro opere, accanto alle notevoli reinterpretazioni della figura ormai iconica di Cuauhtémoc ad opera di Siqueiros (fig. 24) e alle idealizzate rappresentazioni del passato indigeno dipinte da Rivera nel Palazzo Nazionale, emerge il nuovo tema della Conquista come atto di nascita di una nazione. Di straordinaria potenza è il dipinto realizzato da Orozco nel Colegio de San Ildefonso (fig. 25): Hernán Cortés e la sua concubina/interprete indigena Malinche si stringono la mano, mentre il conquistatore, che allunga un braccio a protezione della compagna, calpesta il corpo di un indigeno riverso a terra; i monumentali corpi nudi dei due protagonisti costituiscono una sorta di famiglia primigenia della patria, una coppia originaria dalla quale è scaturita la stirpe meticcia del Messico.

Un’analoga rappresentazione di questo paradossale connubio tra violenza e generazione si riscontra nell’opera realizzata nel 1963 da Jorge González Camarena (fig. 26) all’interno del Castillo de Chapultepec, edificio coloniale e già residenza dell’Imperatore Massimiliano, ora trasformato nel Museo Nacional de Historia. Nel celeberrimo dipinto, significativamente denominato Fusión de dos culturas, un cavaliere spagnolo e un guerriero-aquila azteco si avvinghiano in una sorta di abbraccio mortale.

Dagli anni ’60 ad oggi, mentre scavi archeologici hanno portato alla luce imponenti evidenze del passato preispanico destinate a convertirsi – come nel caso del Templo Mayor scoperto nei pressi della Cattedrale – in elementi chiave del nuovo paesaggio urbano, molti monumenti che celebrano il passato preispanico e l’incontro coloniale hanno punteggiato le strade cittadine. Tra questi, vale la pena menzionare, a dire il vero più per ragioni ideologiche che per valori estetici, gruppi monumentali come El descubrimiento de Tenochtitlan di Carlos Marquina (1960), il monumento ad Alonso García Bravo (1961) che, come recita l’iscrizione, «aiutato dall’ingegno, dall’esperienza e dalla saggezza di due aztechi […] realizzò la prima traza dell’attuale Città del Messico», la lapide posta a commemorare il luogo dove per la prima volta Cortés incontrò il sovrano indigeno Moctezuma e il Monumento al Meticciaggio (1982) (fig. 27), commissionato dal Presidente José López Portillo e raffigurante Cortés e la Malinche affiancati rispettivamente da un leone e da un’aquila, così come da un’armatura spagnola e da uno scudo piumato azteco; davanti a ai due, il loro figlio meticcio punta il dito verso il fulgido futuro. Incontro politico, collaborazione intellettuale, meticciaggio biologico e culturale sono quindi le cifre attraverso le quali questi monumenti narrano la Conquista, del tutto spogliata della sua dimensione più violenta e disturbante.

Alcuni tra i più grandi progetti urbanistici e museali furono affidati alla metà degli anni ’60 a Pedro Ramírez Vázquez. Nel 1964 il celebre architetto realizzò nel parco di Chapultepec il nuovo Museo di Antropologia, vero e proprio tempio civile del Messico contemporaneo. Il centro fisico e simbolico del piano terreno dello straordinario edificio, dedicato all’esibizione di oggetti archeologici delle diverse regioni messicane, è costituto dalla Sala Mexica al cui centro spicca la Piedra del Sol e, poco distante, la Coatlicue, ancora affiancate dopo secoli di continuo girovagare per la città (fig. 28). Al piano superiore, le sale che espongono abiti e materiali etnografici rappresentativi delle attuali popolazioni indigene messicane sono organizzate secondo lo stesso ordine regionale di quelle al piano inferiore, suggerendo così una diretta continuità culturale. Si ha quasi la sensazione che manchi un piano intermedio: la Conquista e l’intera età coloniale, del tutto assenti, sono infatti sacrificate a un discorso nazionalista fondato su una continuità con il passato che non ammette cesure di sorta.

Nel 1965 venne poi portata a termine la musealizzazione della piazza di Tlatelolco dove Ramírez Vázquez costruì una serie di edifici attorno alla piazza dove, ai piedi della chiesa coloniale di Santiago, gli scavi archeologici avevano portato alla luce i resti degli antichi templi aztechi (fig. 29). Gli allora avveniristici edifici che circondano la piazza, ribattezzata Piazza delle Tre Culture, rappresentavano quindi il frutto dello scontro/incontro tra indigeni ed europei avvenuto in quello stesso luogo oltre quattro secoli prima. Le parole della lapide posta a ricordo dell’antica battaglia (fig. 30) sono senza dubbio la migliore esemplificazione dell’ideologia nazionalistica messicana materializzata nel nuovo progetto architettonico: «Il 13 agosto del 1521, eroicamente difesa da Cuauhtémoc, cadde Tlatelolco nelle mani di Hernán Cortés. Non fu trionfo né sconfitta, fu la dolorosa nascita del popolo meticcio che è il Messico di oggi». Sebbene la si qualifichi come dolorosa, la violenza della Conquista veniva messa in secondo piano dal suo potere generativo. Per somma ironia della storia, il 2 ottobre del 1968 in quella stessa piazza centinaia di studenti vennero uccisi nel tristemente celebre “massacro di Tlatelolco” mostrando agli occhi del mondo la crisi del progetto nazionale messicano [5]; la forzosa presa di coscienza di tale crisi è esemplificata dal fatto che la Torre di Tlatelolco, eretta da Pedro Ramírez Vázquez come materializzazione della modernità raggiunta dal Messico, ospita oggi il memoriale dedicato alle vittime del massacro del ’68.

Prima di concludere, è necessario ricordare l’ultima “cavalcata” di El Caballito, la statua equestre di Carlo IV che nel 1979 fu nuovamente spostata dal Paseo de la Reforma e collocata nella Piazza Manuél Tolsá, dove ancora oggi si trova, tra il Palacio de Minería e la sede del Museo Nacional de Arte (fig. 31); al suo posto, l’incrocio tra il Paseo de la Reforma e Avenida Bucareli è occupato, sin dal 1992, dal cosiddetto “Caballito di Sebastián” (fig. 32), opera ipermoderna che, con la sua forma a testa di cavallo, ricorda la vecchia presenza del suo illustre e inquieto predecessore.

Questa pur breve “passeggiata” per il centro storico di Città del Messico ci ha fatto incrociare le talvolta movimentate biografie culturali di monumenti che, nel loro transitare tra diversi contesti spaziali e discorsivi, hanno subito un continuo processo di risignificazione. Nonostante la varietà dei contesti storico-culturali, è evidente che nella maggior parte dei casi il museo diffuso della capitale messicana ha veicolato una concezione della Conquista nella quale si è privilegiato l’aspetto della continuità rispetto a quello della cesura o della distruzione. Che fosse percepita come fuoco purificatore, come nascita dolorosa o come fusione tra culture, la Conquista è comunque sempre stata pensata come un episodio generativo dal quale sono scaturite identità culturali che ricercavano nel passato la legittimazione del loro presente. Ma, è bene sottolinearlo, i monumenti non sono semplici riflessi delle idee o delle politiche della memoria elaborate da ristretti gruppi di intellettuali: nel momento in cui tali idee si materializzano e si sedimentano nel paesaggio monumentale di una città, facendo così da sfondo alle pratiche quotidiane dei suoi abitanti, i monumenti diventano veri e propri attori sociali che contribuiscono, in modo talvolta non lineare e contradditorio, alla quotidiana incorporazione di nozioni di passato sulle quali gli individui fondano i loro progetti per il futuro: la memoria è al tempo stesso uno sguardo sul passato e una speranza per il futuro.

È per questa funzione prospettiva – e non solo retrospettiva – del ricordo [6] che anche la memoria di un evento lontano come la Conquista del Messico non può essere neutra, inerte. Ancora oggi, nonostante il proliferare di studi accademici sulle sue devastanti conseguenze demografiche e culturali, nessuna delle principali componenti politico-sociali messicane ha interesse a porre al centro delle proprie politiche della memoria la dimensione distruttiva della Conquista. Se lo Stato messicano continua sostanzialmente a replicare il vecchio discorso nazionalista fondato sulla celebrazione dei fasti del passato, anche i molti movimenti indigeni che a quello Stato si oppongono fanno delle società precoloniali il fondamento delle loro rivendicazioni nativiste. In entrambi i casi, l’elaborazione di genealogie più o meno fittizie che enfatizzano l’elemento della continuità fa sì che la Conquista costituisca ancora una frattura problematica, irrisolta, spesso sospinta oltre i limiti dell’oblio. E di questo oblio non c’è miglior rappresentazione di quell’aquila scalpellata via dagli zoccoli del cavallo di Carlo IV e che, come un vero e proprio “vuoto di memoria”, lo ha virtualmente seguito nel suo instancabile girovagare per le vie della capitale messicana.


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Bibliografia

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Note

1. Sulla México Tenochtitlan precoloniale si veda Rojas 1986; sulla trasformazione dell’antica capitale azteca nella metropoli novoispana nel corso del XVI secolo si veda invece l’eccellente Mundy 2015.

2. Per una panoramica sul dibattito storiografico relativo alla conquista e alla distruzione delle Indie si veda Domenici 2016.

3. L’uso del passato preispanico in chiave nazionalista nel Messico del XIX secolo è tema ampiamente studiato; si vedano almeno Lafaye 1974; Brading 1984, 1985; Florescano 1987; Anderson 1996; Earle 2007, Matos 2010; per un’analisi incentrata specificamente sugli aspetti monumentali si veda Brading 2001.

4. Sulla biografia culturale della Piedra del Sol e della Coatlicue si vedano Matos 1992, 1998, 2010; López Luján 2008.

5. Per una lucida e celebre analisi dello scollamento tra il “Messico immaginario” del progetto nazionalistico e la realtà sociale del “Messico profondo” si veda Bonfil Batalla 1987.

6. Su questo si veda Assmann 1997.