Laura Fontana, Fotografare la Shoah. Comprendere le immagini della distruzione degli ebrei. Torino: Einaudi, 2025. 442 pp.
Da quale prospettiva guardiamo il passato? Questa domanda costituisce il punto di partenza dell’analisi che Laura Fontana, storica della Shoah ed esperta di didattica, propone delle collezioni fotografiche relative alla storia dell’ebraismo europeo sotto il Terzo Reich, oggi conservate in archivi pubblici e privati, centri di ricerca e musei in Europa, Israele e Stati Uniti.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, esistono milioni di fotografie, databili tra il 1933 e il 1945, che attraverso singoli scatti, reportage ufficiali, e album privati documentano la Shoah da prospettive differenti: quella dei perpetratori nazisti (il corpus più consistente), quella delle vittime e, successivamente, quella degli alleati. Si tratta di immagini molto diverse tra loro: autorizzate e controllate dalla propaganda, o, al contrario, proibite e clandestine; foto di documentazione, foto-trofeo o foto-ricordo, scattate con finalità, mezzi e intenzioni eterogenee. Tutte restituiscono frammenti visivi complessi, difficili da interpretare se non li si osserva a partire dalla loro relazionalità.
Queste fotografie possono essere considerate fonti storiche? E se sì, in che modo? Si tratta di una questione metodologica fondamentale che rende l’indagine di Fontana densa e stratificata: non si limita alla ricostruzione dei fatti ma riflette sulla funzione dell’immagine come testimonianza e come dispositivo etico-politico. Osservando le foto con uno sguardo informato, l’autrice le studia a partire dalle testimonianze scritte, ma anche dai ricordi e dalle memorie lasciate dai sopravvissuti, che permettono di collegarle le une alle altre e di stabilire connessioni tra corpora differenti che si trovano fisicamente custoditi in luoghi geograficamente lontani tra di loro e hanno storie apparentemente indipendenti. In questo senso Fotografare la Shoah rappresenta un riferimento necessario per lo studio di patrimoni visivi eterogenei, frammentari e dispersi.
L’indagine è volta a ricostruire i contesti di produzione, circolazione e consumo delle immagini relative allo sterminio degli ebrei, molte delle quali erano frutto di iniziative private, come le foto-souvenir dei soldati e militari tedeschi. Tali immagini erano parte di compravendite e scambi e quindi sono immagini-oggetto entrate a pieno titolo nella cultura materiale nazista. In questa materialità sono conservate delle tracce (penso alla copertina dell’album di Kurt Franz in cui una parola è stata cancellata e due foto sono state rimosse – o quello di Koch: rulli sviluppati nel campo di concentramento e album assemblati e scritti dai detenuti) ed è dunque cruciale considerarle come fonti a partire dalla loro storia di vita: da dove vengono le immagini? Chi le ha scattate? Con quale proposito? A cosa servivano? Cosa lasciano fuori? E cosa accade una volta che gli autori di queste immagini muoiono, e le foto vengono ereditate e rimangono nei cassetti delle famiglie tedesche almeno fino agli anni Novanta?
Fontana ci chiede di cambiare continuamente punto di vista: per aggirare la fissità dell’immagine fotografica e restituirla al fluire del tempo occorre comprenderla nella sua dinamicità, perché le fotografie sono oggetti ambigui, svelano e nascondono sempre qualcosa, e anche nei “difetti di informazione”, nelle foto imprecise, opache, quelle dove pensiamo di vedere poco o nulla, restano delle possibilità di “fare luce” su aspetti che non erano stati osservati con la giusta attenzione o non erano stati compresi a sufficienza. Questa ricerca ci invita ad affinare lo sguardo per comprendere, ad esempio, in che modo i nazisti si sono serviti delle fotografie di propaganda come strumento per la costruzione dell’ideologia razziale, attraverso messinscene organizzate per gli scatti e usate per narrare artificiosamente la presunta superiorità ariana, o per rafforzare gli stereotipi che demonizzavano gli ebrei.
La nostra lettura delle foto può divergere notevolmente rispetto all’intenzione di chi le ha scattate e il rischio è quello di affidare la comprensione della Shoah soltanto a un’unica prospettiva. Fontana invece, attraverso un approccio scientifico, rende la narrazione polifonica perché una fotografia, afferma, non è in grado di mostrare interamente un fatto, al massimo può offrirci una rappresentazione parziale, fortemente soggettiva e condizionata del contesto (p. 296). Si rende necessario, dunque, uno spostamento dello sguardo: non più la foto singola come atto finale di un processo, ma l’evento fotografico nella sua complessità: cosa accade prima e dopo lo scatto? In che modo è stata prodotta l’inquadratura? Quali sono le scene preparatorie e le scene successive di ciò che è stato ritratto?
Collocare le immagini all’interno di eventi e contesti specifici consente di far emergere elementi altrimenti silenti, e di interrogare le fotografie non soltanto per ciò che esplicitamente mostrano, ma anche per ciò che, volontariamente o involontariamente, occultano. I diversi nuclei oggetto di indagine sono dunque costituiti da fotografie “problematiche”, visioni difficili da tenere insieme, che si distaccano dall’iconicità delle immagini che abbiamo conosciuto attraverso la grande narrazione pubblica della Shoah, quelle utilizzate nei libri per le scuole a scopo illustrativo, e nei documentari per la televisione, quasi sempre prodotte dai perpetratori.
Durante la presentazione del volume, avvenuta presso l’Istituto Parri di Bologna, il 24 febbraio 2025, l’autrice ha raccontato che la ricostruzione della Shoah, al pari di ogni altro evento storico, non è un mosaico in cui le tessere si incastrano perfettamente, in modo coerente. Talvolta le fotografie che affiorano in modo improvviso e inaspettato da archivi, cassetti di case private, mercatini dell’antiquariato, aste online, scompaginano le interpretazioni consolidate, inserendosi come tasselli di conoscenza inattesi e capaci di disturbare l’ordine narrativo e la comprensione degli eventi così come li avevamo interpretati fino a quel momento. È il caso, ad esempio, di quelle immagini venute alla luce di recente, attraverso un progetto internazionale di digitalizzazione intitolato #LastSeen (“Visti per l’ultima volta”, 2021), una raccolta “dal basso” di fotografie che mostrano le deportazioni degli ebrei (ma anche dei sinti, dei rom e dei disabili) verso i centri di assassinio, i campi di internamento, i ghetti, come parte integrante della quotidianità del regime. Queste immagini vernacolari sovvertono l’idea di un occultamento dei crimini, mostrando la dimensione pubblica delle atrocità compiute alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti nel cuore delle città tedesche.
Imparare a leggere le immagini rende sconvolgenti non soltanto le fotografie che rappresentano direttamente la violenza, ma anche quelle che testimoniano l’asimmetria radicale tra chi fotografava e chi veniva fotografato, rimandando costantemente all’atto stesso del controllo, della sorveglianza e della persecuzione. È impossibile attribuire senso a queste immagini senza adottare quello che Georges Didi-Huberman ha definito uno “sguardo politico”: uno sguardo posizionato, consapevole, responsabile, che interpella anche noi osservatori contemporanei, i quali abbiamo il privilegio di poter guardare da una distanza di sicurezza.
Fontana scrive che il nazismo ha saputo mentire con le immagini e attraverso le immagini. Questa ricerca che si muove dentro e oltre la superficie visibile, a partire da fatti e contesti specifici, ci conduce verso questioni contemporanee e universali, centrali per l’interpretazione delle immagini del passato nel presente: quali immagini mancano? Quali non sono (ancora) venute alla luce? Si pensi, ad esempio, alle fotografie delle popolazioni locali, strappate alla censura e all’oblio, non ufficiali né iconiche, scattate dai cittadini comuni in maniera clandestina, sulle quali la ricerca potrà cimentarsi in futuro. Possiamo inoltre domandarci se e quali fotografie abbiano ancora la capacità di sconvolgerci, poiché, come suggerisce l’autrice, una foto non è solo quello che vi è ritratto in essa, è molto di più, a condizione di volerlo cercare.
Questo libro dedicato alle immagini del passato parla in modo diretto e urgente al presente, perché guardare e comprendere le fotografie scattate durante e dopo la Shoah significa ripensare radicalmente il nostro rapporto con la visibilità della violenza estrema. La memoria è un territorio conteso ed oggi nuovamente minacciato: da un lato, per la scomparsa degli ultimi sopravvissuti; dall’altro per il riemergere di un ordine globale nuovamente segnato da politiche segregazioniste e genocide, oggi sotto lo sguardo mediatico di tutti. Comprendere le immagini della distruzione degli ebrei alla luce del genocidio in corso contro il popolo palestinese diventa allora un monito potente e necessario. Affinché la memoria non si riduca a mero materiale d’archivio, è indispensabile continuare a interrogarci su ciò che vediamo, sul ruolo delle immagini e sulla prospettiva che scegliamo per guardare – e capire – il presente.

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