Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Memorie vs memoriali: conflitti di attestazione e territori del trauma nel Rwanda del post-genocidio

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Abstract

Based on ethnographic research in post-genocide Rwanda, this article analyzes two different approaches to the Politics of Memory in Rwanda:  the “living memory” in the José Kagabo’s   experience and the “duty of memory “ in the official memorializations. The institutionalization of the rwandan memorial sites provides a narrative  of the massacres through the places,  showing  limits and contradictions about of a new national story telling .

Premessa

Mettere insieme memorie e memoriali connessi alla tragica esperienza del genocidio dei rwandesi tutsi del 1994 non è, a nostro avviso, un semplice gioco di parole quanto piuttosto un esercizio di analisi del politico nel momento in cui ci si riferisce ad un contesto «altamente politicizzato» [Thomson 2010] quale è il Rwanda del post genocidio. Per altro, già in altre occasioni abbiamo osservato quanto questo evento e le sue drammatiche conseguenze vadano comprese sia all’interno del paese riguardo a chi ha vissuto, subìto e perpetrato i massacri sia all’esterno per chi, a livello globale, ha assistito e lo ha interpretato [Fusaschi 2009; Buscaglia 2013, Hinton 2009, Ingelaere 2010]. La scena sociale e politica rwandese ha “sovrapposto” così i/le sopravvissuti/e, spesso sacrificati al gioco della politica quali testimoni diretti della tragedia [Fusaschi 2009; 2013, 2014,; Fusaschi, Pompeo 2015] ai cosiddetti “rientrati” [1]; agli ex esiliati o rifugiati Tutsi di lunga data, in provenienza dall’Uganda e dal Burundi, rientrati a formare le nuove élites dell’apparato statale al comando nel postgenocidio [Fusaschi 2015].

La complessità di una “società in ricomposizione” si presentava evidente già quando il Fronte patriottico rwandese di Paul Kagame, il futuro Presidente e l’uomo incarnazione del potere dell’ultimo ventennio, mise fine al genocidio nel luglio del ‘94 che lasciava sul terreno circa un milione di morti in cento giorni, molti dei quali si sarebbero potuti salvare se il genocidio fosse stato riconosciuto più rapidamente dalla comunità internazionale. All’interno del paese, peraltro, i/le sopravvissuti/e, poche migliaia, si sarebbero dovuti ri-confrontare con i colpevoli, in giustizia che apparve uno dei temi essenziali nella direzione di una difficile riconciliazione [Fusaschi 2015]. La giustizia però, agli occhi del nuovo potere di Kigali non sarebbe stata sufficiente per una riconciliazione che, invece, poteva realizzarsi solo rimuovendo l’apparato ideologico che aveva accompagnato la storia dei rwandesi sin dagli anni Cinquanta. Venne quindi operata una ricostruzione di un passato precoloniale pacificato [2] e di una divisione etnica imposta dai colonizzatori belgi che, di fatto, attraverso le manipolazioni retoriche dei due regimi che erano seguiti all’Indipendenza, avevano portato al conflitto delle due “fazioni politiche” incarnate nelle “due etnie” Hutu e Tutsi e sino al genocidio [Fusaschi 2000; 2009; Fusaschi, Pompeo 2014]. Fu eliminato qualsiasi riferimento etnico nella vita pubblica, a partire dalla menzione sulla carta d’identità, condannati il divisionismo e l’ideologia genocidaria attraverso una Legge sul genocidio del 1996 così come fu introdotta una politica sulla parità di genere molto apprezzata a livello internazionale, ma non priva di problemi sul piano interno [Buscaglia 2017] che annovera il piccolo paese come uno dei più impegnati sul fronte della parità uomo/donna. Questi principi si consolidarono ben presto in un neonazionalismo fondato su una narrazione che riscopriva la tradizione, quale soluzione alle divisioni imposte dalla storia, per ricostruire un’unità dei banyarwanda nel postgenocidio anche attraverso l’educazione, i campi di solidarietà, i media, i tribunali gacaca [Fusaschi 2015], una memoria “pubblica” con annessi memoriali. È in questo contesto di sconvolgimento generale che occorre «situare la politica della memoria collettiva ma anche le possibilità o le difficoltà di espressione di una memoria individuale o familiare» [Kagabo 2014, 10].

Per restare quindi nell’oggetto di questo nostro articolo non possiamo non soffermarci sul fatto che negli ultimi venti anni quelle che possiamo definire come “politiche memoriali”, peraltro già molto criticate da alcuni autori/trici [Vidal 1999, De Lame 2010/ Vidal 2004; De Lame 2003 o 2004] abbiano caratterizzato l’azione dello Stato. Questa ha operato ri-costruzioni di storia e memorie, che sono divenute progressivamente un oggetto di appropriazione politica e di risignificazione in termini di “memoria pubblica” [Candau 1996].

Quali dispositivi messi in opera da alcuni interventi degli attori pubblici questa memoria pubblica ha inteso imporre e produrre ricordi comuni delle azioni genocidarie per cercare di “unificare” i membri della società intorno ad una storia comune. Il prodotto, o i prodotti, a cui queste politiche memoriali hanno dato luogo è stata una costruzione di una narrazione collettiva che è parte costitutiva del modo in cui l’azione del potere politico in Rwanda si è venuta a realizzare. Così le configurazioni narrative che ne sono seguite, talvolta, dimostrano più il modo in cui il potere si è rappresentato che non ciò che la memoria collettiva sia in realtà. Questa pertanto in quanto tale è, così, esclusivamente politica.

In questo nostro articolo, anche grazie ad un’esperienza di terreno pluriennale, metteremo brevemente in tensione gli elementi della “memoria viva” e quella della “memoria a lungo termine di eventi estremi” [Cappelletto 2003] e quelli della “memoria monumentalizzata” nella problematica contemporaneità del post genocidio rwandese [Fusaschi 2015]. In particolare il primo tema verrà riletto grazie ai dilemmi della «memoria inebetita e preposizionata» proposta dallo storico José Kagabo [2014]. Il secondo attraverso l’analisi del ruolo specifico delle iniziative di memorializzazione ufficiale a partire dall’istituzionalizzazione dei siti memoriali che al contempo forniscono una lettura dei massacri attraverso i luoghi, con tutte le contraddizioni di un processo di selezione e della costruzione di una story telling.

Una memoria pre-posizionata

Nell’agosto del 1994, José Kagabo, decise di tornare au pays natale per vedere chi fosse sopravvissuto della sua famiglia: una ricerca umanamente difficile e un viaggio le cui note rimangono anche come una delle prime testimonianze di uno studioso che, sin da subito, si ritroverà intrappolato «tra le ideologie e la storia reale» [Kagabo 2009, 58]. Stato d’animo che, per certi versi, lo accompagnerà fino alla morte, avvenuta nel 2015.

Così, l’uomo, José, sin da quel primo viaggio si ritroverà sempre comunque a pensare e a interrogarsi anche come lo storico Kagabo.

Nato nel 1949 ad Astrida [3] si formerà nel Groupe scolaire d’Astrida, insieme ai quadri dirigenti indigeni dell’epoca coloniale [Fusaschi 2000, 136]; nel 1962 il Rwanda fu dichiarato Indipendente, Astrida rinominata Butare: Kagabo realizzò così di essere in pericolo poiché tutsi. Solo nel 1973 lasciò il paese, fu arrestato alla frontiera con l’ex Zaire dove rimase in prigione per alcuni mesi, quando, riuscito a fuggire giungerà in Francia come esiliato, ottenendovi la cittadinanza e vivendoci sino al 1994.

Il Kagabo dell’agosto ’94, con in tasca un passaporto francese ma anche uno rwandese, cercherà di capire il suo statuto di «testimone indiretto» della tragedia nei confronti di una «memoria inebetita», espressione a lui molto cara in seguito [Kagabo 1999]. Infatti, la questione della memoria che ancora non si poneva come primaria lasciava il posto all’analisi del capire cosa e come si era potuti arrivare là, tralasciando un certo approccio pietistico umanitario che banalizzava per riflettere sul ruolo del testimone attraversato da lacerazioni personali in ambito famigliare e lavorativo. Voleva analizzare il suo ruolo e i livelli della testimonianza nonché i modi della validità della stessa, senza cercare in alcun modo di fare una «teoria del testimone» [1999, 71]. Di fronte a realtà dolorose aveva «paura di sapere ciò che viene in effetti raccontato con una precisione assolutamente insopportabile» [Fusaschi 2009, 62], per calarsi come testis in una situazione «imbarazzante ed imbarazzata» [Kagabo 1999, 74] sentendo il dovere, di organizzare la propria memoria ma anche, e soprattutto, quello di farsi carico della responsabilità, come un mediatore, delle memorie degli altri, i «sommersi», i «testimoni integrali», per dirla con Primo Levi, i non tornati per raccontare, o i ritornati muti [Levi 2007, 64]. Era quindi un intermediario «pre-posizionato» [Kagabo 2014, 6], non per scelta ma per nascita e suo malgrado, anche delle differenti categorie di attori del postgenocidio tanto come storico [Bloch 1969] quanto nel suo ruolo politico di Senatore e di esperto nella Commissione di inchiesta cittadina per la verità sull’implicazione della Francia nel genocidio, all’interno di quella nuova ideologia accennata sopra. Il ‘94 aveva cambiato profondamente anche le condizioni della “sua” scrittura, mettendo profondamente in discussione la sua identità. Chi era? Un Uomo? Un Vincitore? Un Senatore? Lo Storico? Un Rwandese? Un Tutsi? Un Esiliato? Un Francese? Una Vittima? Un Testimone? Un Vinto? Un volontario del Soccorso Popolare? Un politico? Chi?

Non a caso le retoriche e le forti implicazioni ideologiche di quella congiuntura, uomo/storico/politico, avevano messo in crisi il suo presente imprigionandolo, a partire da una completa ridefinizione del suo “essere nel mondo”, come protagonista di un anti-mondo, dalle risonanze apocalittiche di demartiniana memoria. La testimonianza di Kagabo ha dissolto le stesse retoriche della testimonianza per restituire una sensibilità dell’uomo e un’interrogazione dello storico, lontano da “patti compassionevoli”. La sua responsabilità di intermediario, volente o nolente, lo aveva portato a cercare le parole per far nascere alcuni testi in francese, fatto in sé problematico, perché questo significava non rivolgersi primariamente alla sua gente, ai banyarwanda che, invece, gli avevano chiesto esplicitamente di tradurre le sue “note” nella lingua materna e rispetto a cui ripeteva di non esservi mai stato «in alcun modo capace» [Kagabo 1999, 77].

Le sue parole appesantivano il valore di una memoria personale che, pur non coinvolgendolo negli atti genocidari, lo interrogavano sulle modalità e sulle conseguenze, come terzo certo, ma anche in termini di una validità di fonte storica che lui stesso diceva di «non poter impiegare senza violare le regole del mestiere» [75]. Kagabo, al crocevia tra più esperienze e diversi universi linguistici e culturali confessò che: «noi non abbiamo ancora le parole per farvi sentire ciò che noi sentiamo di quel genocidio. Il ruolo del testimone è amputato» [4] [78]. Eppure, per tutto il tempo che gli è rimasto di vivere nel post genocidio Kagabo, nelle sue molteplici vesti, e in una postura che lui stesso apertamente dichiarava essere quella dei “piccoli passi” con fatica aveva voluto investirsi personalmente nel processo di una difficilissima riconciliazione, attraverso progetti concreti, magari piccoli ma reali, ma non riuscendo però a farlo nella sua regione natale perché la memoria dei massacri, le immagini dell’orrore glielo avevano sempre impedito.

Politiche della memoria e memoriali

La reinvenzione di una nazione per tutti i banyarwanda nella rilettura della storia e dei suoi simboli si è realizzata, quindi, come processo di ri-semantizzazione politica generale anche attraverso la definizione e istituzionalizzazione della politica della memoria. Una prima fase di indigenizzazione del vocabolario dei crimini di massa si è avuta con il concetto di jenoside [Fusaschi 2009], cui ha fatto seguito anche l’acquisizione del leitmotiv del “dovere di memoria” già della Shoah. Questo imperativo, assunto a principio generale del nuovo Stato, ha trovato definizione istituzionale già nel 1996 con la creazione, della Commission pour le memorial du génocide et des massacres, ridenominata dal 2007 National Commission for the Fight Against Genocide con l’obiettivo di gestire e coordinare un vasto sforzo di recupero dei luoghi e delle testimonianze, collegato all’esperienza di giustizia riconciliativa dei tribunali Gacaca e nel quadro di una più ampia pedagogia anti-etnicista. Il lavoro della commissione si è dedicato sin dall’inizio alla ricostruzione di una specifica geografia dei massacri con una definizione cartografica del genocidio cui ha corrisposto la scelta di preservare alcuni siti attribuendovi carattere di memoriali ufficiali. Così i sei principali a carattere nazionale: Nyamata, Murambi, Nyarabuie, Ntarama e Bisesero insieme come testimonianza concreta e tragica “evidenza dei fatti”, cui si è poi aggiunto Gisozi, sito museale e sacrario sorto in un luogo estraneo ai massacri ma simbolicamente significativo, nei pressi della Capitale. Questo orientamento a “fermare il tempo” intorno ad alcune scene del crimine ha rappresentato un elemento di continuità rispetto ad una pratica ricorrente già nelle ultime fasi del genocidio. Le visite sui luoghi della carneficina degli operatori internazionali e giornalisti, accompagnando l’avanzata e la pacificazione dell’FPR, vennero a costituire una precisa strategia comunicativa non priva di ambivalenza e problematicità [Réra 2014]. Se da un lato questo quadro contribuì al riconoscimento del genocidio, alla costruzione di una doxa internazionale del conflitto ed uno storytelling del nuovo regime [Pottier 2002], dall’altro, nella riproposizione che si voleva “naturalistica” delle scenografie dell’orrore, con i corpi insepolti e l’onnipresenza dei segni della morte violenta, pose la questione del senso e valore di quella stessa rappresentazione. A partire da quella logica della “constatazione obiettiva”- a metà strada tra intervento umanitario e procedura della giustizia internazionale – si è così giunti ad attribuire significato e valore emblematico ai siti memoriali, come dispositivo collegato al più ampio disegno delle politiche del post-genocidio, per farne i luoghi del nuovo rituale civico della memoria [Kanimba Misago 2007; Gakwenzire 2009]. Il governo insieme alle associazioni Ibuka e Avega, ha proceduto all’istituzionalizzazione di un periodo di lutto nazionale che con il tempo ha assunto carattere di sistematicità tanto sul piano locale quanto nella diaspora: nell’elaborazione progressiva di una nuova cerimonialità, le liturgie commemorative hanno esteso la loro durata dall’originario periodo di aprile fino ad investire più mesi, attraverso un programma ufficiale curato nei dettagli – nelle ritualità come nei simboli – trovando i suoi momenti più significativi nelle cerimonie presso i sei memoriali nazionali.

Territori del trauma e memoriali municipali

Abbandonando per un momento le politiche memoriali come campo di tensioni, il confronto con i vissuti e le narrazioni ci consegna l’immagine del Rwanda come territorio del trauma. La prima difficoltà “etnografica” è quella della rappresentabilità della violenza genocidaria attraverso i suoi luoghi reali: il genocidio, come progetto di distruzione totale, per definizione è ovunque e dappertutto. Nel caso rwandese ovvero di uno sterminio a bassissimo contenuto tecnologico, perlopiù attraverso il machete, la violenza più estrema si è davvero insinuata in ogni relazione sociale a partire dal vicinato, fino ad investire i legami familiari, con le brutalità tra consanguinei e in una miriade di episodi inumani, dallo stupro etnico fino all’aggressione distruttrice del vivente, su bambini, madri partorienti e feti. Sul piano dello spazio la disseminazione è stata la modalità prevalente dell’atto genocidario; l’infinitamente piccolo e vicino è anche lo spazio della paura, del pericolo e infine dell’atto sanguinario: la scena del crimine si è quindi “atomizzata” in centinaia di migliaia di scenari perlopiù totalmente anonimi, una moltitudine di spazi in sé spesso relativamente insignificanti o volutamente “triviali” – come nel caso esemplare dell’uso ricorrente delle latrine – coerenti con la logica spersonalizzante della distruzione degli inyenzi, gli scarafaggi (i rwandesi tutsi), così come l’idea del “lavorare insieme” per ripulire che animava i massacratori. Nella stessa logica, quella della “evacuazione”, le esecuzioni di massa lungo le strade, per i numerosi posti di blocco degli interhamwe che chiudevano ogni via di fuga, con l’utilizzo dei fiumi o dei canali come discarica, come nel caso del fiume Nyabarongo, rinominato Akagera, in cui migliaia di cadaveri vennero gettati per “rispedirli in Etiopia”, verso il lago Vittoria, da dove, secondo l’ideologia dell’estremismo hutu, i tutsi sarebbero venuti. Per rappresentare in senso stretto i “luoghi del genocidio” dovremmo propriamente fare riferimento ad una moltitudine di spazi nella movimentata e complessa orografia del “Paese delle mille colline”, in cui anche il più ordinario scenario di vita si è potuto trasformare nel teatro degli atti più sanguinari. Accanto a questa descrizione reale degli atti genocidari, con la loro inevitabile frammentazione di casi e luoghi, per comprenderne il presente dobbiamo in qualche modo confrontarci con la sua nuova geografia memoriale assumendo il dato della sua costruzione, ossia come risultato di negoziazioni articolate da recuperare all’osservazione etnografica. Come afferma Pat Caplan in Rwanda:

non esiste un solo modo o un modo “giusto” di commemorare la morte nel genocidio o di creare monumenti pubblici che insieme svolgano questo compito e cerchino di evitare il suo ripetersi. La loro creazione è contestata e negoziata in diversi modi, non ultimo nelle esigenze potenzialmente confliggenti della famiglia e dei parenti contrapposte a quelle dello Stato e del suo regime. [Caplan 2007, 22]

In una società sopravvissuta alla violenza genocidaria, la linea di tensione più forte appare essere quella tra la dimensione pubblica e quella sfera privata e familiare, che costituisce l’area di introiezione dell’oltraggio subito o perpetrato: è lo spazio del silenzio e del sospetto, dell’oblio e del ricordo. La produzione di memoriali e di commemorazioni, anche nella loro ufficialità, chiama comunque sempre in causa questa frontiera incerta, convocando i drammi individuali sulla scena pubblica per inscriverli in una cornice, una codificazione ed una finalità sociale. La definizione di questo ambito testimoniale ufficiale e di una memoria che si vuole collettiva, seppur non immune da unanimismi di maniera, non si traduce infatti nell’attribuire alle commemorazioni stesso scopo e senso: anche a parità di copione cerimoniale, le interpretazioni variano in funzione degli attori locali, presentando una relativa eterogeneità di intenzioni e sottotesti, secondo specifiche caratterizzazioni. Il tratto comune, è quello di una liturgia commemorativa di cui il primo momento è rappresentato dalla ricerca dei cadaveri dispersi, con la loro esumazione, cui fa seguito una vera propria riconsacrazione nel quadro delle cerimonie pubbliche del genocidio che simbolicamente riattualizzano il lutto e “danno pace” e adeguata sepoltura alle povere vittime già disperse, nel concreto assegnandogli elementi di riconoscibilità, ovvero spesso un nome, ma certamente almeno un luogo. Queste pratiche nel tempo hanno portato all’individuazione delle fosse comuni, creando memoriali locali che nella maggior parte dei casi hanno semplicemente dato degna e comune sepoltura alle vittime del circondario [Pompeo 2009; 2014]. Una dimensione questa che in analogia con modelli europei potremmo dire “municipale” nella gestione della commemorazione, tanto nella ritualità come nella manutenzione dei monumenti. Questa commemorazione “municipale” del genocidio disegna una seconda geografia memoriale, relativamente contrapposta alla prima, di carattere nazionale; localizza l’atto criminale spesso in relazione diretta con la pratica dei gacaca, ovvero con quelle pratiche di giustizia riconciliativa che realizzano una negoziazione nella collettività di vicinato, mediando con la società, per restituire spazio al riemergere traumatico delle memorie familiari. A Kibungo, nostro luogo di elezione etnografica, la localizzazione del memoriale non aveva tenuto conto dei luoghi dei massacri, individuando un autonomo spazio funerario e commemorativo in un’area strategica, lungo la direttrice di uscita dalla cittadina che si voleva destinare altrimenti: su quel terreno insisteva, infatti, il progetto governativo, che i rescapé giudicavano oltraggioso, di un grande distributore di benzina, come parte di un più ampio progetto di rifacimento e riallestimento delle strade provinciali, vero e proprio simbolo del dinamismo del nuovo Rwanda. Aldilà dei tratti episodici, la pratica etnografica restituisce il carattere non accidentale della produzione degli spazi della memoria come processo in cui si realizza una composizione di richiami simbolici e interessi nazionali e locali.

La memoria e la politica dell’emozione morale

Abbiamo visitato molte volte Gisozi, il sito memoriale nazionale di Kigali che accoglie le spoglie di circa 250 mila persone; la prima nel 2003, quando insieme a due amici sopravvissuti la sera raggiungemmo la collina e il sito allora in costruzione: nel silenzio assoluto e col sopraggiungere del tramonto, perdemmo le parole davanti a grandi fosse ancora aperte, giganteschi sarcofagi di cemento armato con migliaia di bare; sulla destra una struttura poliedrica su più piani, con le vetrate e quell’immagine che avremmo ritrovato costantemente negli altri memoriali, centinaia di teschi ed ossa lunghe in un’accumulazione ordinata. Da allora quello che in apparenza era un gigantesco sacrario ha assunto i caratteri di un dispositivo memoriale complesso; oggi il sito ospita una struttura museale su tre livelli: la discesa agli inferi comincia in basso dopo l’ingresso, percorrendo un itinerario multimediale dalle premesse storiche fino agli avvenimenti del ’94. Quindi si arriva alla parte centrale del percorso, in uno spazio di riflessione delimitato da quattro vetrate colorate realizzate da un artista israeliano, dal quale si accede agli spazi più evocativi, in cui sono esposti quegli oggetti quotidiani che la violenza genocidaria ha completamente “risignificato” nei codici dell’assenza: vecchie fotografie delle vittime, carte di identità, indumenti raccolti sui luoghi dei massacri, armi, ossa. Una disposizione che non si limita a documentare, ma propone una museografia concettuale ed un’estetica che gioca “per sottrazione” con materiali ordinari per restituire la straordinaria violenza dell’evento genocidario, in una scena post-apocalittica come si trattasse di tracce di umanità sopravvissute al cataclisma. Al piano superiore un terzo spazio razionalizza un itinerario comparativo nei genocidi e un “centro educativo” incentrato sulle testimonianze di vittime giovanissime per le scuole. Gisozi è stato costruito dal 2000 in una località che non è stata teatro di violenze, ma che nel toponimo tradizionale di “luogo di sepoltura dei re” recupererebbe un legame con la regalità sacra rwandese identificata con il corpo della nazione. Qui si svolgono le commemorazioni nazionali, con il discorso annuale del Presidente Kagame, di cui a livello popolare si commentano singoli passaggi e sottintesi linguistici. Sostenuto economicamente da un cartello internazionale, in ragione di una serie di visite dello stesso Kagame e dei suoi ministri allo Yad Vascem e ad altri memoriali della Shoah, ha visto affidato il suo allestimento al britannico Aegis trust, che lo ha curato seguendo modelli, standards e per alcuni anche stereotipi, internazionali [Pompeo 2009; Coquio 2007].

Gli altri siti memoriali hanno una storia diversa, perché la violenza genocidaria ha anche trovato dei luoghi in cui si è manifestata con straordinaria efferatezza e modalità simbolicamente rilevanti, in particolare in quegli spazi pubblici tradizionalmente risparmiati, perché sacralizzati, come le scuole e le chiese; questi, nel segno di una «rottura antropologica» profonda [Coquio 2009; Réra 2014] nel ‘94 nel clima apocalittico dell’agire genocidario sono divenuti scenario e oggetto di profanazione e oltraggio. Nyamata, come peraltro le molte altre chiese cattoliche, tra cui Ntarama e Nyarabuye, restano memoriali che propongono immagine ed esperienza dell’oltraggio assoluto di simboli e corpi, restituendo concretezza all’immaginario mediato, e lo fanno attraverso il contatto fisico-sensoriale con la violenza e l’uccisione di massa. Nella dimensione etnografica, nella relazione con i sopravvissuti abbiamo condiviso momenti di straordinaria tensione emotiva che ha messo continuamente alla prova le reciproche economie del pudore. Visitarli insieme ai rescapé. è sempre un’esperienza intensamente dolorosa, negli sguardi e nella pesantezza dell’incedere, nell’evocazione della morte violenta e nelle rimemorazioni dei nostri accompagnatori, anche se – o, si direbbe, proprio perché – in fondo ci trovavamo di fronte all’evidenza di migliaia di resti anonimi ordinatamente disposti.

Questa dinamica costituisce una specificità dei grandi siti rwandesi, laddove si è determinata una “ri-messa in scena” ed un ritorno sui “luoghi del crimine”, in un dispositivo memoriale che conserva una tremenda forza originaria [Assayag 2007]. Sperimentando l’immersione nei luoghi della violenza estrema e il coinvolgimento per identificazione con le vittime, si riproduce lo spaesamento emotivo del confronto con il senso di morte alla massima potenza, ossia con l’iperrealtà dell’atto genocidario. Molti autori [5] hanno sottolineato i limiti di questi approcci, «to sensing the genocide» [Guyer 2009] quale specifica pedagogia «shock and awe» [Meierhenrich 2009] o realizzazione di un’immagine come una «aestetics of disconfort» [Edmondson 2009], costruita attraverso l’orrore. I memoriali propongono un état des lieux che si vuole impietoso e sovente decontestualizzato, perché tutto risolto nell’esigenza di supporto, o meglio di movente, a una mobilitazione politica della morale, del senso di giustizia e delle sue pratiche; una complessità che chiama in causa potenzialità e limiti della rappresentazione della violenza estrema[Didi-Huberman 1995, 2006, 2013].

Così la creazione della simbologia “dell’accumulazione delle ossa”, come i corpi calcinati di Murambi, sono divenuti anche degli emblemi contradditori che lasciano paradossalmente la ferita aperta di quella «memoria inebetita» consegnataci da Kagabo [1999]. Riproponendo l’anonimato della morte di massa si viola poi anche quel diritto alla giusta sepoltura come domanda di restituzione della dignità di persona che viene dai sopravvissuti e rimane perlopiù inascoltata. In questi termini queste stesse ossa come “icona trans-storica della morte” sono diventate la testimonianza della tragedia ma anche l’elemento che non permette di elaborarne pienamente il lutto e forse “le memorie”.

La Premessa e il primo paragrafo sono stati scritti da Michela Fusaschi, il quarto e quinto da Francesco Pompeo e il terzo insieme.


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Note

1. Gli ordinary rwandans o gens du peuple, cioè i rwandofoni, per lo più paesani Tutsi che vivevano fuori dal paese prima del ’94, a seguito delle diverse azioni genocidarie nei loro confronti dagli anni Sessanta – e i rifugiati hutu in Congo – alcuni genocidari, fuoriusciti nel ’94 e ritornati dal ’98.

2. Questa posizione è oggetto di critiche, cfr. a titolo di esempio Pottier 2002.

3. In onore della regina di Astrid Sophie Lovisa Thyra Bernadotte, consorte del re Leopoldo III, vittima di un incidente stradale nel 1935.

4. Corsivo mio.

5. Becker, Debary 2012; Caplan 2007; Brandstetter 2010.