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Che la paura, intesa in accezione politica e sociale, costituisca un fattore in grado di influire su processi e dinamiche della più disparata natura emerge come primo dato dai contributi raccolti in questo Dossier. Che si tratti di metus gallicum – come affrontato nel saggio di Tommaso Gnoli – o del potere della paura esercitato, ma anche subito, da nobiltà e aristocrazia nella Roma imperiale – come illustrato nel saggio di Uwe Walter –, o ancora, di ricerca di sicurezza di fronte a minacce esterne o prodotte dall’ambiente circostante, la mobilitazione politica della paura emerge come fattore passibile di orientare l’azione collettiva in misura per certi versi particolarmente incisiva e carica di conseguenze. Anche limitando l’osservazione sul clima di incertezza che negli ultimi anni si è affermato in Europa sulla scia di vecchi problemi e di nuove sfide, il ricorso alla metafora politica della paura – paura di perdere potere economico ed egemonia culturale su scala mondiale, paura di essere sopraffatti da flussi migratori incontrollabili – è osservabile nella prassi quotidiana di tutti i governi europei [Salvati 2015].
Un campo d’indagine particolarmente battuto dalla storiografia nel corso del XX secolo e soprattutto in tempi molto recenti è stato il tema della paura come fattore storico e politico. Molto è stato pubblicato da quando nel 1932 Georges Lefebvre, riflettendo sulla costruzione di uno spazio politico nel corso della Rivoluzione francese, aveva intravisto nella Grande Paura il primo stadio di una politicizzazione rivoluzionaria che poi si concretizzò attorno al tema del presunto complotto aristocratico [Lefebvre 1932]. Nel 1978, a distanza di quasi cinquant’anni dalla pubblicazione del libro di Lefebvre, usciva La peur en Occident, XIVe-XVIIIe siècles. Une cité assiégée di Jaen Delumeau. In questo lavoro lo storico francese focalizzava l’analisi sulle dinamiche sociali all’interno delle quali aveva preso forma il “corteo di paure” (eretici, bestemmiatori, satana, ebrei, sovversivi etc.,) senza rinunciare a dare un’interpretazione attorno ai motivi del radicamento della paura nelle coscienze collettive delle classi popolari e delle élites di potere, prime fra tutte il clero [Delumeau 1978]. Di recente Joanna Bourke ha proposto un inventario di casi di studio su percezioni e rappresentazioni della paura negli Stati Uniti e in Inghilterra tra ottocento e novecento ed è arrivata a parlare della paura come «a powerful driving force in the history of humanity» [Bourke 2005, XII].
Ora, senza entrare nel merito o demeriti specifici di questo studio, la questione interessante è un’altra. Bourke alla pari di molti altri esponenti della storia culturale delle emozioni assegna alla paura un carattere universale. La paura diventa nei processi di formazione della modernità un fattore storico e politico di coagulo tra differenti interessi e aspettative di gruppi sociali; essa acquisisce nelle trasformazioni strutturali della modernità una variabile infinita di significati culturali e può diventare uno strumento di fondazione e legittimazione del potere politico. In altre parole, per la storia culturale la paura è una forma elementare dell’organizzazione delle società moderne soprattutto per il fatto che essa rappresenterebbe nel discorso pubblico un elemento di negoziazione per determinare la fisionomia dei rapporti di potere [1]. In questo modo, tuttavia, la storia culturale della paura rischia di tornare sul suo punto di partenza, là dove la paura era concepita come emozione metastorica.
Come studiare la paura da una prospettiva storica interessata più a dimensioni politiche, sociali e culturali che non a introspezioni psicologiche o antropologiche, tendenti a enfatizzare la dimensione prepolitica di cui un’emozione quale la paura rientrerebbe ovviamente in maniera del tutto “naturale”?
In tempi recenti si è potuto osservare una sorta di emotional turn [2] in certa storiografia internazionale determinata a ricondurre le emozioni nell’alveo della storia. Emblematico a questo proposito ci pare un saggio di Ute Frevert, in cui la storica tedesca osservava che il rinnovato interesse da parte della storiografia e delle scienze sociali per il tema delle emozioni è accompagnato dal rifiuto di una prospettiva analitica tendente a ridurre i sentimenti, le passioni esclusivamente a “primary affects” immutabili nel tempo. Al contrario, precisava Frevert, le emozioni sono un soggetto dinamico, mostrano ambivalenze e costituiscono l’interfaccia dell’individuo tra interessi e influenze. Per tale ragione esse plasmano la moderna soggettività così come le interazioni sociali [Frevert 2009].
A passare in rassegna gli studi dell’ultimo decennio sembra che da una parte si sia consolidata la tendenza a considerare le emozioni come una dimensione costituente dell’agire sociale e, dall’altra parte, sembra che abbia preso definitivamente piede l’ipotesi di una storicità dei sentimenti [3]. Un chiaro indicatore del consolidarsi di questa prospettiva è la circolazione nel dibattito internazionale di categorie quali “emotional regime” (William Reddy), “emotional communities” (Barbara Rosenwein) oppure del concetto di “emotionology” di Peter S. Stearns [4].
William Reddy ha proposto di considerare le emozioni come il risultato dell’interazione e della negoziazione tra l’esperienza individuale e le espressioni linguistiche («emotives») di un dato contesto storico all’interno del costituirsi di una serie variabile di emotional regimes. Il concetto di emotional regime rimanda a quel «[…] set of normative emotions and the official rituals, practices, and emotives that express and inculcate them, a necessary underpinning of any stable political regime» [Reddy 2001]. Sotto questo profilo i saggi di Matthias Müller e Torben Möbius raccolti nel presente Dossier, incentrati rispettivamente sulle rappresentazioni del “nemico” sovietico in Germania federale e sull’uso strumentale della paura nel regime nazista, offrono casi di studio particolarmente suggestivi e stimolanti per riflessioni di più ampio respiro.
Muovendo da altri interessi la storica del Medioevo Barbara Rosenwein ha portato invece l’attenzione dell’indagine storica sul modo in cui esperienze individuali o di gruppo hanno prodotto rappresentazioni e condiviso norme emotive, concentrandosi su processi di formazione delle comunità di sentimento come comunità sociali. Secondo la studiosa americana qualunque gruppo sociale tende a riconoscersi in un medesimo sistema di emozioni, il quale sarebbe da considerarsi come il risultato di un’autorappresentazione valoriale del proprio essere comunità così come dalla valutazione che tali comunità fanno attorno ai sentimenti comuni e, per finire, dalle modalità di espressione emotiva che al loro interno vengono favorite, tollerate oppure rifiutate. Si tratta di un ragionamento, quello di Rosenwein, che non vuole essere circoscritto ad una specifica epoca storica, ma che potrebbe essere trasportato anche nel quadro politico della modernità [Rosenswein 2002] , così come in certa misura rende conto il saggio di Florian Schleking sul consumo di droghe nella Germania federale negli anni Settanta del XX secolo.
Pur nella differenza dei riferimenti teorici e di metodo la storia culturale delle emozioni sembra condividere almeno tre assunti centrali. In primo luogo, la premessa generale secondo la quale le emozioni dovrebbero essere considerate come dei genuini fenomeni sociali. Per questa corrente storiografica la paura, la fiducia, il pudore, la vergogna, la confidenza etc. sono delle costruzioni sociali e, dunque, la questione storiografica rilevante risiederebbe non tanto nel ruolo che lo spazio sociale avrebbe nel modellare i sentimenti, quanto, viceversa, sulla rilevanza dei sentimenti nella costruzione e costituzione del sociale; in secondo luogo, l’ipotesi secondo la quale i sentimenti non sarebbero antitetici alla razionalità, anzi, tra ragione e sentimenti esisterebbe un rapporto d’interazione; i sentimenti avrebbero una specifica connotazione razionale. Infine, la constatazione che ogni indagine storica dovrebbe partire dal presupposto di una “historische Vergänglichkeit” (Ute Frevert) dei sentimenti: i sentimenti hanno una contingenza, sono fugaci e instabili [5]. Questo significa che i sentimenti non solo cambiano nella biografia dell’individuo, ma sono anche soggetti a una continua trasformazione nel tempo storico: essi possono cioè perdere o acquistare significato e significanza culturale in relazione alle trasformazioni economiche, politiche e sociali in atto in una società.
Nella modernità la paura sembrerebbe configurarsi come un sentimento politicamente produttivo in grado di alimentare in relazione ad un immaginario della minaccia differenti configurazioni discorsive nello spazio simbolico della solidarietà sociale, appunto una questione di identità [Galli 2010]. Basterebbe rileggere con attenzione il “Der Streit” (1908) di Georg Simmel per rendersi conto che il conflitto rappresenta una risorsa importante per la coesione sociale di gruppi, società, ma anche per le relazioni sociali tra individui [Simmel 1992]. Per Simmel il conflitto è fondamentalmente unità, o meglio, la forma di una relazione nella quale le tensioni introdotte da possibili elementi dissociativi alla fine funzionano in modo associativo. Nelle democrazie contemporanee il nesso tra consenso e la drammatizzazione dell’insicurezza è costitutivo. Anche rispetto a questioni apparentemente irrilevanti, come nel caso affrontato da Jan Höltje sulla sicurezza stradale in una cittadina del Nord-Reno Vestfalia, questo aspetto emerge in tutta evidenza. La «fabbrica della paura», come giustamente la chiama Luigi Ferrajoli [2010], rientra tra le strategie di comunicazione di marketing politico maggiormente utilizzate. Per altri, come nel caso di Carlo Ginzburg, il mondo contemporaneo assomiglia per molti versi a quello descritto da Hobbes nel suo Leviatano, insicurezza e paura rischiano di produrre nuove teologie politiche [Ginzburg 2015]. Il sociologo Heinz Bude [2015] vede la contemporaneità segnata profondamente dal principio della società della paura, e accanto al suo nome si potrebbero aggiungere quelli di altri storici, sociologi, filosofi e scienziati sociali in genere che negli ultimi anni si sono occupati del fenomeno della paura.
Sul piano dell’indagine storica restano aperti, però, una serie di questioni di metodo e interpretazione di grande importanza. In primo luogo, la storia culturale delle emozioni, come già si è osservato, appare ancora titubante, e forse ha anche i suoi buoni motivi, nel dare una connotazione concettuale chiara al sostantivo “paura”. Il campo semantico di questo concetto è molto ampio e la categoria di paura è spesso usata come sinonimo di minaccia, rischio, panico, insicurezza, termini che, tanto per restare nell’ambito del politico e sociale, hanno anche essi un fortissimo impatto nel determinare storicamente forme di inclusione ed esclusione, negoziando i confini tra il sé e l’altro.
Tanto per restare nel campo della costruzione del sociale: in termini di processi di mobilitazione e emozionalizzazione di gruppo in che misura ad esempio nelle società premoderne la paura esercita una influenza fondamentale sull’agire sociale? La modernità porta con sé anche delle specificità su questo terreno? Infine, di grande importanza per lo studio dei sentimenti in genere è l’assegnazione di una specifica euristica alla categoria paura. Come cogliere empiricamente i sentimenti, quali fonti studiare? Come scrivere una storia della paura in una prospettiva di lungo periodo? Sono sufficienti le espressioni iconografiche, linguistiche e testuali, l’insieme di configurazioni discorsive presenti in una determinata epoca?
Resta aperta, infine, la questione che ruota attorno alle specificità temporali delle dimensioni culturale, politica e sociale della paura. Esistono delle differenze tra età antica, premoderna e moderna? I saggi raccolti in questo Dossier vogliono cercare di offrire una risposta, seppur certamente parziale e nient’affatto esaustiva, ai quesiti sollevati.
Bibliografia
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Note
1. Su questa scia cfr. anche lo studio, pur se sviluppato da una prospettiva filosofico politica, di Corey 2004
2. In generale per una visione complessiva di questo nuovo trend si rimanda a Hitzer 2011 Verheyen 2010; Weber 2008; Saxer 2007; Ferente 2009; Petri 2012; Deluermoz et al. 2013
3. Per una messa a punto di questo indirizzo si veda Plamper 2012; da segnalare ora il lavoro molto critico di Schnell 2015.
4. Reddy 2009; Rosenwein 2002; Stearns 1985, 813-86. Si veda anche l’interessante intervista a Palmer 2010.
5. In riferimento ai sentimenti di onore, vergogna, empatia e compassione si veda Frevert 2013.