«Bastarsi materialmente significa dimostrarsi un individuo completo.»[1]
Il saggio muove dall’analisi della separazione gerarchica dei ruoli sessuali come componente fondante le dinamiche della migrazione italiana di fine Ottocento verso il Brasile, per poi concentrarsi sulla condotta che rispetto a queste dinamiche e a questo contesto tenne la sua componente anarchica e, mettendone a nudo opportunità e contraddizioni, svelarne ulteriormente la natura.
Gli anarchici e le anarchiche, in effetti, parteciparono a questa migrazione transoceanica ritagliandosi una fetta significativa in termini di partecipazione prima, e di influenza culturale ma anche socio-politica sul nuovo paese poi (specie nello Stato di San Paolo, dove finirono per concentrarsi).
Furono infatti moltissimi i militanti che seguirono questa onda lunga di migranti[2] che in cerca di lavoro si dirigeva verso le promettenti piantagioni del caffè, ma essi alla fuga dalla miseria dell’Italia rurale di quegli anni aggiungevano la fuga dalla persecuzione poliziesca e l’ottimistica speranza di trovare al di là dell’Oceano una terra più accogliente rispetto al loro pensiero e, nei casi più ambiziosi, più fertile all’impianto del seme libertario. Accumunati dunque dal trinomio migrazione–lavoro–politica, questi migranti libertari vissero tuttavia esperienze molto differenti, che si amalgamarono uniformemente a quelle dei migranti “non politicizzati” fin dall’inizio dell’avventura, ossia già a partire dal momento del viaggio, quando stipati nelle stive dei vecchi piroscafi prima a vela poi a vapore, si trovavano a trascorrere stretti al loro fianco i 20 giorni (come minimo) della lungo ed estenuante viaggio in mare verso le Americhe.[3]
All’interno di questo universo l’ emigrazione femminile rappresenta un oggetto di studio particolarmente oscuro, insidioso e sfuggente per quell’aggravamento dell’effetto di “distorsione ottica” di molte fonti per la storia delle donne antifasciste – per dirlo con Elisa Signori –, che causato dalla sedimentata convinzione che quella del “viaggio” (e suoi derivati, dunque anche della migrazione) e quella del “lavoro” siano state nel corso della storia categorie tipicamente maschili, finisce per considerare questi eventi interessanti e degni di nota solo se riferiti alla vita di un uomo, mentre futili e trascurabili se appartenenti alla vita di una donna.[4] Allo stesso tempo, però, così come – vedremo – hanno messo in luce recenti studi, le donne rappresentano un oggetto di studio molto utile per comprendere la complessità dei meccanismi che sottendono ai processi migratori, e non solo perché ne sono a lungo state un aspetto celato. Nel caso della emigrazione transoceanica verso il Brasile, in particolare, emerge come la divisione sessuale dei ruoli sia stata una componente fondamentale delle politiche di reclutamento di manodopera bianca per le fazendas, ma anche un efficace sistema di difesa, conservazione oltre che garanzia di successo delle aspettative risposte nel progetto migratorio, adottato persino da movimenti progressisti del calibro di quello anarchico, a dispetto di lunghe e sedimentate tradizioni ideologiche.
Cercando allora di uscire dai rigidi schemi delle fonti “tradizionali”, indagando gli interstizi dei linguaggi convenzionali e integrando documenti di diversa natura, cercherò di fare chiarezza su alcuni casi di emigrazione femminile perché la loro analisi comparativa porta alla luce una realtà molto più articolata della popolazione e della storia dei migranti, e permette di individuare se la comunità anarchica vissuta al suo interno abbia costituito, come da propositi, una risorsa per le donne che vi aderirono – a diverso titolo e non tutte volontariamente –, un luogo privilegiato in cui poter in generale fuggire e combattere la cristallizzazione dei ruoli sessuali di cui si accusava la società tradizionale e in particolare cogliere tutte le occasioni di inclusione e parità sociale, di cui il lavoro rappresenta un punto cruciale. Mi rifarò dunque a quattro casi di migrazione, due più generali riguardanti migrazioni “collettive” e “artificiali”, quelle verso le fazendas del caffè e verso la colonia anarchica Cecilia, che mostrano interessanti correlazioni, e due casi individuali, migrazioni “spontanee” ossia vissute al di fuori dei canali migratori legati al reclutamento di forza lavoro.
1. Il destino delle donne nella migrazione familiare: Fazendas e Cecilia
L’abolizione della schiavitù (1888) è stata considerata da molti storici il detonatore della grande migrazione italiana ed europea verso il Brasile. Seppur il ragionamento sia più complesso e discutibile rispetto a questa apparente linearità, in effetti il venir meno del lavoro degli schiavi proprio nel periodo aureo delle esportazioni del caffè privò fazendeiros ed elite repubblicane di un elemento fondamentale per la loro ricchezza, la manodopera gratuita, e li costrinse a rapidi ed efficaci provvedimenti che andarono a coincidere fortunatamente con un momento di grande miseria del bracciantato italiano. Ma non fu solo una fortuita coincidenza tra domanda e offerta. La scelta di privilegiare, con sostegni concreti, il reclutamento di manodopera italiana aveva un significato più profondo, che sottese non solo alla necessità di nuove riserve di manodopera, ma anche alla necessità di una ridefinizione del mercato del lavoro da schiavo a libero e che si combinava ad un preciso progetto politico rispondente al coevo mutamento dell’assetto istituzionale del paese.
La proclamazione della Repubblica Federale brasiliana nel 1889 significava avviarsi alla costruzione della nazione e dei cittadini, e il primo passo in questa direzione fu realizzato attraverso il popolamento delle zone a bassa densità demografica e insieme la civilizzazione della popolazione autoctona, nel segno di una conversione della sua presunta natura “indolente”. Così, come spiega bene Antonia de Lourdes Colbari rifacendosi agli studi di Jair de Souza Ramos,[5] e non solo, «entrambi i propositi – popolamento e formazione del mercato del lavoro – erano legati da un’altra questione: la necessità di rigenerazione fisica del popolo e la riforma morale della società», che le autorità realizzarono attraverso «un calcolo razziale [che] orientava come si doveva procedere alla costituzione del tipo umano brasiliano»,[6] e che spiega la propensione per l’immigrato italiano. Tra i fattori determinanti del «calcolo razziale» del buon lavoratore e buon cittadino stavano infatti il colore bianco della pelle, il carattere mansueto e remissivo, la fede cristiana, la dedizione al lavoro e alla famiglia, ossia tutti quei caratteri che le elite agrarie e repubblicane attribuivano ad una presunta «identità razziale e culturale» italiana. Gli italiani, dunque, emigrando in Brasile avrebbero dovuto «costruire l’“ordine morale attraverso la fede cristiana, l’ordine civile attraverso la legge e l’ordine economico attraverso l’educazione al lavoro».[7] È per questi motivi che gli attraenti provvedimenti migratori varati dal governo brasiliano (come i sussidi per il viaggio – in questo caso si parla di migrazione “artificiale” – e la promessa della distribuzione di lotti di terreno una volta giunti in terra Brasiliana),[8] furono indirizzati prevalentemente proprio al ricco bacino della popolazione e manodopera italiana.
Gli «ingredienti culturali e morali» individuati venivano considerati costitutivi dell’essenza del cittadino italiano, e dunque non ne veniva richiesta conferma. Ma su uno di questi si poneva una particolare attenzione: “l’innato familismo”. Si tratta di un dato di non scarso rilievo per cogliere in profondità la reale natura di questa migrazione e che obbliga ad una riconsiderazione del fenomeno migratorio nel suo complesso a partire dall’analisi delle relazioni e dei ruoli di genere al suo interno. Una richiesta di valorizzazione della storia della emigrazione femminile e del suo rapporto con la componente maschile, in virtù della coesistenza e partecipazione reciproca alla cultura patriarcale italiana ottocentesca che si chiedeva di esportare e impiantare.
Fu sulla scorta di questo progetto geopolitico che nel 1886 i fazendeiros paolisti si unirono nella Sociedade Promotora de Imigração, e coordinati riuscire meglio a stimolare e affiancare il lavoro di attrazione dei migranti del governo. Una sinergia d’intenti in cui il governo si assumeva il costo del viaggio degli immigrati e la Sociedade Promotora il lavoro di propaganda, che svolgeva direttamente nei paesi di provenienza inviando suoi rappresentati a distribuire manifesti, opuscoli, libri e fotografie che informavano delle sovvenzioni governative e presentavano il Brasile come terra dalle mille opportunità, se non addirittura il vero paradiso terrestre. Fu proprio la Sociedade ad insistere sul reclutamento di famiglie bracciantili italiane, come mostra, uno per tutti, l’opuscolo edito a cura dello Stato di San Paolo e datato 1902, in cui è scritto:
«È specialmente per una certa classe d’immigrati, ossia per gli agricoltori con famiglia numerosa, che nessun paese del mondo può offrire i vantaggi che offre lo Stato di San Paolo. Molti immigrati con famiglia numerosa non possono trapiantarsi in altri paesi senza prima recarvisi soli, giacchè, le spese di viaggio essendo così rilevanti che superano i mezzi di cui dispongono, devono prima cercar di guadagnare nel nuovo paese quel tanto che loro permetta di far venire anche la famiglia. Questo non accade per i lavoratori che vogliono recarsi in S. Paolo. Essi non spendono nulla per il loro viaggio e per quello della loro famiglia, giacché è il governo dello Stato che pensa a pagarlo. Inoltre possono subito partire con tutta la loro famiglia, giacché non c’è immigrante agricoltore che appena arriva all’ Hospedaria (Albergo o ricovero degli immigrati) in S. Paolo non trovi subito collocamento con sussistenza garantita; ha solo l’imbarazzo della scelta del padrone, giacché generalmente accade che siano in più a volerlo. Le famiglie numerose sono poi quelle che più d’altra parte sono ricercate e quindi trovano con maggiore facilità da collocarsi perché danno maggior numero di braccia alla coltivazione del caffè nella quale possono lavorare uomini e donne fin dall’età di dodici anni.»[9]
La Sociedade Promotora, dunque, incoraggiava l’immigrazione di nuclei familiari piuttosto che di singoli per ottenere il miglior sistema produttivo disponibile sul mercato del lavoro immigrato.[10] Così facendo, infatti, essa si garantiva una manodopera stanziale, a scanso della dispersiva immigrazione temporanea (come quella diretta invece in Argentina),[11] serena rispetto alle ansie provocate dalla lontananza dai familiari, perché come scrisse il deputato dell’Assembléia Provincial de São Paulo Marthino Prado Júnior nel 1888 «è innegabile quanto influisca sul morale dell’immigrante il fatto di poter portare con se coloro che gli appartengono con il sangue e con il cuore»,[12] e per questo supposta anche più mansueta rispetto a velleità politiche, ma soprattutto una manodopera già perfettamente organizzata al suo interno grazie a quella preziosa suddivisione operata sulla base dell’appartenenza di genere che faceva della famiglia patriarcale una straordinaria macchina da lavoro, ricca com’era di braccia a buon mercato (quelle di donne e bambini) per fazendeiros e imprenditori, premurose e gratuite (quelle femminili) per le cure dello spazio domestico; proprio quello che si voleva trasferire e impiantare in Brasile.
L’operazione sortì gli effetti sperati, e così «dei 219.785 individui introdotti a San Paolo dalla Sociedade Promotora de Imigraçao, il 46% erano donne», l’esatta metà del cielo.[13] Ma non si tratta soltanto di testare una presenza, quanto di rileggere un fenomeno “migrazione e lavoro” nella sua giusta complessità, dunque portando alla luce anche il ruolo sommerso e scontato di una parte dei suoi protagonisti, le donne.
Una volta sbarcati i migranti sussidiati venivano condotti presso l’Hospedaria, dov’erano sottoposti a registrazione, visite mediche di accertamento e relativa igienizzazione, infine messi in contatto con i fazendeiros per gli accordi di lavoro. In fazenda la distribuzione dei compiti era immediata e sulla donna ricadeva la responsabilità di rendere possibile il sogno di «evoluzione sociale» dell’intera famiglia. La donna emigrata, infatti, – scrive Zuleika Alvim – oltre a lavorare nella piantagione insieme al marito, doveva prendersi cura del «piccolo appezzamento di terra riservato al colono immigrato, ove veniva tenuto un piccolo orto e l’allevamento di animali»,[14] un “lavoro sussidiario” considerato parte integrante del “lavoro domestico” che fruttava il 37% delle entrate del bilancio familiare,[15] valore corrispondente alle entrate al netto delle spese di sussistenza per la media delle famiglie impiegate nelle fazendas. Erano dunque i risparmi investibili nel futuro dell’intera famiglia, per l’acquisto di un terreno o il trasferimento in città.
In questa condizione il ruolo della donna che migrava al seguito della famiglia era preordinato, del tutto subordinato ad essa e pesantemente gravato dalla somma di lavoro domestico e lavoro nella piantagione, l’uno gratuito l’altro compreso nel contratto familiare di cui lei era soltanto, anche se indispensabile, nome a fianco del vero intestatario, il marito. Le cose cambiavano nel caso di trasferimento in città, ma non sempre né facilmente nel segno dell’emancipazione. Il reclutamento femminile nelle fabbriche urbane rimase un ufficio «complementare dell’economia familiare»,[16] concepito come occupazione temporanea precedente il matrimonio o sussidiaria a un periodo di bisogno familiare. Suo compito più urgente diventava allora il mantenimento della coesione del nucleo familiare e della comunità d’origine, in una lotta quotidiana contro la dispersività del paese straniero e delle tentazioni individualiste della grande città.[17] Un sistema radicato ed efficace rispetto al quale, allora, nulla poté persino un progetto progressista di stampo anarchico come quello che in Brasile assunse le fattezze della Colonia Cecilia, che proprio di questo sistema si proponeva il sovvertitore.
Negli stessi anni, infatti, una serie di circostanze non del tutto chiare indirizzò verso il Sud America l’ambizioso progetto di società agricola cooperativa dell’agronomo pisano Giovanni Rossi (detto Cardias) che, già tentato dallo stesso ma senza successo in diverse località italiane (a Gavardo e Stagno Lombardo),[18] fu chiamata Colonia Cecilia.[19] Questa di Rossi è sicuramente l’esperienza di comune libertaria più studiata e più suggestiva, viste le controversie storiografiche che ha alimentato e l’aurea mitica che ha saputo lasciare dietro di sé sia in Italia che in Brasile. Visse, con alterne fortune, dall’aprile del 1890 allo stesso mese del 1894 sulla base del principio del “buon senso” e lo scopo di essere «un’opera […] che tenti con la efficacia seria dell’esperimento le vie segnate, fra l’empirismo e l’utopia, dell’umano destino».[20] In questo senso seppe anche sfruttare il bisogno di popolamento della giovane repubblica brasiliana e l’onda lunga del sogno americano dei braccianti italiani che, alimentata dai generosi sussidi governativi per il viaggio, non poco deve aver aiutato la spinta libertaria dei volontari anarchici. Retta sulla critica e sull’opposizione alle istituzioni borghesi e in particolare alla rigida e tradizionale concezione della famiglia precedentemente richiamata, la Colonia mostrò tuttavia nel giro di breve tempo tutta la difficoltà di trasporre le filantropiche teorie libertarie nella realtà della classe popolare italiana di fine Ottocento.
All’interno del suo sistema sociale si ritrovano infatti dinamiche molto simili a quelle della società tradizionale tanto criticata, e per quanto riguarda la “questione femminile” soprattutto (“libero amore” ed “emancipazione della donna” sono grandi temi del pensiero libertario) gli anarchici della Cecilia pur dichiarandosi teoricamente all’avanguardia si mostrarono nella concretezza della vita comunitaria decisamente conservatori, soggiacendo senza sforzi al rispetto del principio gerarchico della distribuzione dei ruoli su base sessuale.
Le donne della Cecilia, infatti, oltre a seguire i compagni «volontari dell’agricoltura» nel duro lavoro dei campi, avevano l’incarico di raccapezzarsi tra i pochi e poveri ingredienti disponibili per preparare la colazione del mattino, con «caffè e latte – un po’ lungo ma abbondante – […] polenta arrostita e […] pane di segale», il «minestrone [...] poco saporito» di mezzogiorno e la «polenta con insalata, con legumi e qualche rara volta con ragù di pollastro o di carne suina» della cena, di lavare piatti e panni per tutti, rassettare fino a tarda notte abitazioni “private” e parti comuni e ovviamente accudire la prole. Alcune non mancarono di impegnare i propri modesti gioielli di famiglia per comprare sementi e attrezzi per la comunità.[21] Preziose lavoratrici della terra e domestiche a costo zero, per i compagni le donne della Cecilia erano tuttavia sempre troppo poche[22] per ovviare ai nervosismi del celibato forzoso che aveva reso gli uomini «mezzo spiritati»,[23] e soprattutto troppo arretrate intellettualmente – «energicamente conservatrici e poco accessibili agli ideali di rinnovamento umano» scrive Rossi –,[24] e dunque un ostacolo alla vittoria sulla società borghese e alla piena realizzazione del sogno libertario. Emerge così una società che se da un lato, quello lavorativo, esalta e persino appesantisce i compiti femminili, dall’altro, quello della sfera decisionale e sociale, è fortemente discriminatoria, suddivisa com’era tra uomini come soggetto attivo e donne come soggetto passivo – compagne da amare, oggetto del desiderio maschile e della nefasta gelosia –, nonostante tutte le buone ma sin troppo teoriche intenzioni del pensiero libertario. Le eloquenti parole di Rossi poste ad epitaffio di questa esperienza comunitaria ci dicono molto al proposito:
«[quel] piccolo mondo anarchico era troppo piccolo e quindi troppo povero per assicurarci il pane bianco, la bottiglia di vino, il posto a teatro, il letto soffice, la compagna da amare; contrariamente alla retorica dei poeti, abbiamo preferito le rose della schiavitù alle spine della libertà».[25]
Manca completamente qualsiasi intenzione concreta di promuovere forme di partecipazione delle donne alla vita pubblica della colonia,[26] compreso il considerarle parte integrante della comune, e anche la propaganda sul libero o plurimo amore, seppur posta in prospettiva della liberazione sessuale della donna, è in realtà la cartina di tornasole della debolezza della stessa, perché propone una rivoluzione sessuale senza tener conto della situazione culturale in cui i coloni versavano e delle differenze di genere. Lo status sociale della donna, dunque, non mutava una volta che questa faceva ingresso nella Colonia, i suoi ruoli rimanevano gli stessi che essa ricopriva prima di entrarvi, lo stesso dicasi per gli spazi ad essa deputati, installata com’era «nella cucina e nel magazzino»[27] ed esclusa dalla vita decisionale, probabilmente[28] persino dal voto per i «referendum» che la comunità teneva alla “Casa do Amor” per deliberare sulle decisioni.[29] Su tutto prevale la sopravvivenza della comunità e dei suoi veri protagonisti, gli uomini, di cui le donne appaiono più come domestiche o trastullo che come vere compagne di vita.
La donna immigrata all’interno di un contesto familiare o comunitario, anarchico o meno che fosse, contribuiva dunque con un doppio lavoro che non sempre aveva un riscontro economico ma che era indispensabile per l’equilibrio e la sopravvivenza, la crescita e l’affrancamento dalla condizione di migrante-straniero, del nucleo.[30] Queste esperienze investirono cioè sulla distribuzione dei ruoli e del lavoro in senso fortemente sessuato, riproducendo nel nuovo paese le tradizionali gerarchie originarie, rispondenti all’affermazione della concezione patriarcale della società. È dunque auspicabile pensare che in questi casi le donne emigrate si siano trovate a vivere strette in un sistema di cui più che parte attiva finivano per diventare un meccanismo passivo. E così la straordinaria opportunità di rottura e cambiamento contenuta nella scelta migratoria perdeva la sua forza propulsiva, ostacolata da una concezione del lavoro che rendeva la donna sempre due volte schiava e, nel caso specifico della Cecilia, da un coinvolgimento alla politica che nel migliore dei casi era una partecipazione fortemente limitata, nel peggiore una tacita imposizione del capofamiglia, che in quanto guida doveva essere seguito dagli altri membri. Tutti questi elementi consentirono il mantenimento dello stato di subordinazione della donna, della costruzione culturale del genere e quindi il suo impianto e radicamento nella terra di migrazione. A nulla valse l’avanguardia teorica carica di potenzialità eversiva del movimento libertario, che anzi mostrò in questo caso la sua intraducibilità nella realtà del periodo. Il movimento finì infatti per concentrarsi – almeno in questa fase – sulla critica alla famiglia monogamica borghese attraverso la prematura e fraintendibile proposizione dell’amore libero. Un messaggio di indubbia forza propagandistica e provocatoria, ma che distolse l’attenzione da quella che sarebbe stata la vera rivoluzione rispetto a questa istituzione: il riconoscimento della piena autodeterminazione di ciascuno dei suoi membri. Lungi dall’essere una logica acquisizione, l’affermazione della propria individualità e dei propri diritti fu anche per queste donne – migranti anarchiche – l’esito di una battaglia spesso dolorosa e solitaria, fatta di rinunce spesso non risarcite dalle conquiste raggiunte. Per loro l’anarchismo, come mostrano i due casi che seguono, divenne una risorsa perché spogliato della veste di artefice del cambiamento in virtù di quella di strumento.
2. Le dolorose occasioni della migrazione “spontanea”: Maria Gemma Mennocchi e Maria Teresa Carini
Non tutti gli immigrati che arrivavano a San Paolo passavano per l’Hospedaria, né tutti si destinavano alle fazendas o ai campi. Sussidiati o meno (migrazione “spontanea” in questo secondo caso) che fossero furono in molti a preferire come meta direttamente le città, sicuri della presenza di parenti o compagni già sul luogo da tempo su cui poter contare.[31] Nel caso degli anarchici poi, ma si può dire degli italiani in genere, la rete relazionale era così fitta e consolidata da permettere un ampio ventaglio di scelte su località e opportunità di lavoro.
Sotto questi auspici migrarono la lucchese Maria Gemma Mennocchi e la parmense Maria Teresa Carini; due donne con storie molto diverse, percorsi politici, sentimentali e professionali distanti, ma che trovano un punto di congiunzione nelle condizioni attraverso cui sono arrivate all’indipendenza economica e alla propria autodeterminazione.
Maria Gemma Mennocchi, detta Emma, è nata a Lucca il 9 dicembre 1867.[32] Il 12 aprile 1888, all’età di vent’anni e già orfana di padre, sposò Aurelio Ballerini,[33] di un anno più grande e di promettente carriera (al tempo era appena passato ad alunno delegato di 2° categoria di Pubblica Sicurezza e uno stipendio annuale di circa 960 lire).[34] Alle spalle della loro storia un figlio, nato nel dicembre del 1886 e iscritto all’anagrafe con i nomi Gino Luigi Felice Giovanni.[35] Un matrimonio probabilmente “riparatore”, forse concepito come unica speranza di riscattare sé stessa e prole da una vita di stenti. All’inizio del 1890 nasce il secondo figlio, Felice,[36] ma poco dopo il rapporto precipita e Ballerini, in seguito alla immorale condotta della moglie colpevole – secondo quanto riportato dalle carte di polizia – di aver «tradito più volte i suoi doveri coniugali», chiede la separazione «personale» che viene decretata con sentenza del Tribunale di Lucca il 30 giugno 1891.[37] Per gli anni successivi le fonti sono lacunose, ma si può scorgere il difficile percorso della separazione: lontana dai figli, affidati al marito, senza un tetto, vista la disposizione del Codice di procedura civile che prevedeva che in caso di separazione personale fosse la donna a lasciare la casa coniugale sin dalla domanda di separazione, e senza un lavoro, per cui non è da escludere l’ipotesi che almeno per un breve periodo di tempo abbia fatto ricorso alla prostituzione per sopravvivere, come una sola fonte ci racconta.[38] Donna audace, specie per i tempi, e di intelligenza curiosa, aveva frequentato il primo anno di corso delle scuole normali,[39] Maria Gemma Mennocchi non era donna da assegnare facilmente in un destino prestabilito.
Proprio in quegli anni il noto anarchico romano Gigi Damiani[40] si aggirava «randagio, sempre a scopo di propaganda, in parecchie città d’Italia», tra cui Orbetello, Grosseto, Cecina, Carrara,[41] ossia intorno alla città dove viveva la Mennocchi, Lucca. È dunque possibile far risalire a questo periodo di impegno politico di Damiani e di smarrimento della Mennocchi – compreso tra 1891 e 1894 – la conoscenza tra i due. Nelle parole di questo celebre anarchico la donna potrebbe aver trovato una nuova speranza di vita, non quella posticcia offerta dalla dipendenza dal marito ma quella “autentica” della libertà e dell’affrancamento sociale cui aspirava e che l’anarchismo promette agli uomini che lo abbracciano; il “sol dell’avvenire” dopo il buio di una vita di stenti. Folgorata dal promettente ideale e dall’uomo che lo portava, la Mennocchi abbandonò la difficile vita di provincia per unirsi a Damiani e con lui iniziare una nuova vita. Il 28 settembre 1897[42] partirono insieme alla volta del Brasile, in cerca di lavoro[43] e in fuga dalla persecuzione antianarchica seguita alle leggi di Crispi del luglio 1894, che aveva duramente colpito Damiani. Ad accoglierli trovarono il calore della comunità anarchica italiana immigrata, che proprio in quel periodo stava riprendendo vigore dopo anni di dure repressioni. Damiani ne divenne uno dei maggiori protagonisti e la Mennocchi fu fedele e discreta compagna, eccezion fatta – pare – per il vezzo eccentrico di indossare abitualmente «giubbetto rosso e gonna nera, o viceversa, senza cappello».[44] Si mossero inizialmente all’interno dello stato di San Paolo, spostandosi in varie località, e poi lungo lo stato di Paraná, dove vissero tra 1902 e 1908, quindi di nuovo a San Paolo, più stabilmente nella città omonima.[45]
Risale al novembre del 1902 la prima notizia che accredita alla Mennocchi un impegno politico attivo, a questa data infatti la prefettura di Lucca fa risalire una conferenza anarchica tenuta dalla donna presso il «ritrovo detto Bar Internazionale» di Curitiba, [46] capitale dello stato di Paraná dove con il compagno e «altri settari, [… formava] uno dei più terribili gruppi anarchici».[47] Della sua pericolosa militanza anarchica le fonti poliziesche ricordano tuttavia solo questo episodio, oltre al modesto impegno nella «spendita di biglietti falsi e furti» – «reati comuni»[48] come scrivono le autorità – insieme al compagno. In effetti, dopo questo periodo iniziale, il suo impegno politico si dipana lungo binari lontani da quelli su cui le fonti sono solite concentrarsi. Distante dalle riflessioni teoriche del pensiero libertario e dalla ribalta della militanza politica, la Mennocchi fu una donna pragmatica e passionale, che visse e praticò l’anarchismo in una dimensione quotidiana, più modesta e “familiare”. Non teneva conferenze e impugnava la penna per intervenire sui periodici raramente e solo se lo riteneva assolutamente necessario (come fece per denunciare i casi di pedofilia che nel 1911 si stavano verificando in alcuni orfanotrofi religiosi di San Paolo, e nel 1919 per difendere Damiani dalle accuse di furto che gli mosse il governo brasiliano per espellerlo dal proprio territorio),[49] ma in occasione delle iniziative di raccolta fondi e propaganda (anticlericale e antimilitarista soprattutto) non risparmiava la sua manovalanza, spesso come membro – e talvolta portavoce – del Centro Feminino “Jovens Idealistas”, l’associazione femminile facente capo al gruppo “La Battaglia”.[50]
Da ciò emerge l’immagine di una persona che adotta l’anarchismo, nei termini di una affiliazione che diventa dedizione, come spesso accadeva per le donne. Maria Gemma Mennocchi nel raccogliere frutti e ideali dell’anarchismo in termini di opportunità di vita preparava le condizioni per il farsi dell’anarchismo stesso. Aderì al movimento e attraverso di esso approdò effettivamente ad una nuova vita, e alle occasioni della migrazione. Grazie all’anarchismo trovò la forza e la strada per abbandonare la «casa-città»[51] ed emigrare verso un nuovo paese-destino. Il risultato più eclatante di questo processo fu un nuovo e fruttuoso lavoro, come modista e addirittura proprietaria di una «negozio di mode».[52] Una adesione che, in linea con questo periodo storico di profondo dislivello tra i generi in termini di diritti e di partecipazione alla politica, finisce per vincolare fortemente la donna al compagno che a lei ha trasmesso e rappresenta l’ideale. La Mennocchi, infatti, si dedicò totalmente a Damiani, prendendosi cura della sua persona e provvedendo al suo mantenimento concreto, in modo da permettergli di proseguire il mestiere di scenografo e l’intensissima missione di militante.
Alla fine del 1919 Damiani venne espulso e ricondotto in Italia,[53] prontamente l’inseparabile compagna lo raggiunse a Roma.[54] Tra 1920 e 1921 la relazione tra i due si interruppe bruscamente e per la Mennocchi fu un momento molto difficile. Ritrovare un equilibrio a più di cinquant’anni di età e privata del suo amato “salvatore” la costrinse ad una nuova rinascita, che suggellò con una scelta autonoma e dolorosamente solitaria: mentre Damiani fissava la sua residenza a Roma e sposava la giovanissima Lidua Meloni (figlia di un compagno), la Mennocchi optò per una seconda vita, di nuovo in Brasile, dedita alla sua avviata professione di modista e ai suoi affetti. Le fonti a questo punto abbandonano l’immagine della Mennocchi compagna di Damiani e considerano la donna, svelando tutta la ricchezza del passato professionale e relazionale che aveva saputo mantenere e coltivare negli anni, sino ad allora oscurato dall’attivismo del compagno. A San Paolo visse circondandosi di nipoti, conterranei e soprattutto vicina al figlio secondogenito di cui nel 1906, dopo il suicidio del primogenito, era riuscita ad ottenere l’affidamento. I suoi contatti con la terra d'origine erano molto intensi e ritmati da frequenti spole tra Brasile e Italia (si contano almeno nove ritorni documentati nel corso della sua vita), ma se prima si trattava di viaggi solitari di “assestamento” o al seguito di Damiani e dei suoi interessi, dopo la separazione i suoi spostamenti erano motivati da visite ai parenti, lunghi soggiorni di salute (a Montecatini soprattutto) e incontri “di affari” (a Firenze e Milano) per l’aggiornamento della sua attività e l’espansione del suo negozio di mode di San Paolo; il tutto ad indicare un netto miglioramento delle proprie condizioni economiche e una maggior concentrazione su se stessa.
Per la Mennocchi, dunque, l’anarchismo è stato il mezzo attraverso cui arrivare ad una nuova vita. La scelta anarchica, infatti, l’ha portata in un nuovo paese dove, al prezzo di una coraggiosa separazione dal marito e una dolorosa rinuncia ai figli, ha potuto trovato un’occasione di lavoro che le ha permesso di raggiungere quell’indipendenza economica che difficilmente le sarebbe stata concessa in Italia, invisa com’era alle autorità e viste le condizioni economiche in cui versava il paese. Un passo fondamentale verso la completa autonomia, completato poi da una nuova separazione, questa volta forzata, che allontanandola dal compagno, e dal predominio delle sue occupazioni ed esigenze, la rese definitivamente protagonista della propria vita.
Maria Teresa Carini[55] è nata il 27 agosto 1863 a Fontanellato (Parma), terzogenita di Anacleto Carini e Virginia Pasquale. Trascorse l’adolescenza immersa nell’atmosfera della decadente aristocrazia provinciale dei signori Sanvitale di cui il padre amministrava i beni, e sottoposta alle severe cure della nonna, che la allenò alla remissività facendole passare giornate intere «a sgranare il rosario, lavorare a maglia per i poveri, ricamare e dipingere, […] a temere Dio e il Re, che in casa erano rappresentati dal padre prima e dal marito poi».[56] E infatti la riverenza cui era stata educata fece si che dopo la morte del padre, avvenuta il 31 dicembre 1889, i fratelli e i conti Sanvitale decidessero senza incontrare ostacoli di sposarla al clarinettista Guido Rocchi, che si sapeva provare per la giovane un sincero affetto. A ventisei anni Maria Teresa passò così, senza soluzione di continuità, dalla tutela paterna a quella maritale e dal remissivo ruolo di figlia a quello di moglie-ancella al seguito del marito musicista.
Il 29 giugno 1890, in pieno giorno di São Pedro, i Rocchi sbarcano a Rio de Janeiro insieme alla compagnia di Arnaldo Conti, per un breve tour concertistico, ma quella che doveva essere una tappa di lavoro divenne la residenza definitiva della coppia. Considerata la situazione economica italiana e le opportunità locali, decisero infatti di rimanere per qualche tempo, che poi divenne tutta la vita. Entrambi non rividero più l’Italia. Dopo alcuni spostamenti all’interno dello stato di San Paolo (Santos, Iguape), intorno al 1895 decisero di stabilirsi nella capitale.[57] L’agio economico e il fermento socio-politico dell’ambiente della migrazione italiana paolista permisero alla Carini di approfondire la sua passione per la letteratura e la questione sociale, e così di riconoscere in quello che sino ad allora aveva vissuto solo come spinta interiore e una sorta di “slancio altruistico”, un valore condiviso e un riconoscimento pubblico. Rocchi non capiva le passioni della moglie – che considerava affettate “velleità” libertarie – e tantomeno sopportava il suo stile di vita, sempre circondata com’era da rivoluzionari, musicisti e letterati. Il matrimonio di interesse cedette così ai primi vagiti di indipendenza della moglie che, decisa a proseguire nelle certezze appena acquisite e nonostante il profondo affetto che provava per Rocchi, nel 1910 lasciò il marito mai amato.
Il febbrile attivismo si concentrò in realtà negli anni trascorsi a San Paolo, dove fu assidua alle riunioni operaie, alle sessioni di cultura popolare e alle azioni di protesta, tanto che alcuni le attribuiscono la maternità (insieme a Tecla Fabbri e Maria Lopes) del più celebre manifesto alle donne operaie, intitolato As Jovens costureiras de São Paulo e uscito il 28 luglio 1906 sul periodico libertario «a Terra livre», ma anche a conferenze, corsi e concerti della borghesia paulista. Fu in questi ambienti che conobbe e frequentò Adelino Tavares de Pinho, Edgard Leuenroth, Antonio Piccarolo, Badalassi, Enrico Ferri e lo storico Guglielmo Ferrero, marito di Gina Lombroso che al suo seguito tenne numerose conferenze sul tema del “femminismo” in diversi circoli socialisti di San Paolo. Dopo la separazione partì per Poços de Caldas (città del Minas Gerais), dove condusse un’esistenza modesta, vivendo dei pochi compensi ricevuti in cambio di lezioni di lavoro a maglia, italiano e francese, e conducendo una riservatissima militanza, fatta di intensi contatti epistolari con i compagni di San Paolo e dell’incessante lettura delle opere di Proudhon, Réclus, Kropotkine, Ada Negri e soprattutto Leopardi (il suo autore preferito), ai margini dei grandi eventi e circondata solo dai suoi amati gatti. Sparirono dunque con la separazione dal marito le condizioni stesse che parevano averla causata, indice che in realtà i contrasti riguardavano più l’incompatibilità tra due veri e propri approcci al mondo oltre un grave squilibrio in termini di rispetto reciproco a sfavore di lei, piuttosto che dissapori nella concretezza della gestione quotidiana della vita a due, e di pari passo emerse il vero progetto di vita della donna più diretto alla serenità interiore che alla ricchezza materiale, sino ad allora impedito da decisioni che altri prendevano al suo posto.
Arrivata in Brasile in seguito al lavoro del marito, e aggrappata ad un matrimonio imposto, questa donna ha dunque trasformato un accidente (la migrazione) in un’occasione rivoluzionaria per la sua esistenza, che le ha permesso di trovare vocazione politica e dimensione esistenziale, come probabilmente non le sarebbe stato possibile in Italia, dove invece era politicamente isolata all’interno di una famiglia conservatrice che decideva per lei.
Le esperienze esistenziali di queste due donne attraversano il nodo migrazione-lavoro-politica evidenziando ulteriormente come sia spesso difficile, se non addirittura, come qui, inopportuno, scindere il suddetto trinomio. Le loro biografie, poi, viste dall’alto mostrano punti di congiunzione che – come ho annunciato nella premessa del saggio – uniscono specificità che significano il comune esito in termini di raggiungimento della propria autodeterminazione.
L’opportunità di rinascere offerta dall’atto migratorio, ricordata come occasione mancata a conclusione dell’analisi dei casi di migrazione al seguito della famiglia-comunità, trova in questi ultimi due esempi un punto di forza su cui far leva. Qui fallisce il tentativo di assegnare un ruolo sociale e “professionale” (di madre e moglie alla Mennocchi, di sostenitrice e docile accompagnatrice alla Carini) tipico della culturale patriarcale del tempo, perché queste donne emigrate avvertono insostenibile la violenza di questa imposizione e riescono a ribellarsi ad essa, legittimate dal riconoscimento della loro subordinazione esistenziale da parte di un movimento collettivo guidato da uomini, che si batte contro le prevaricazioni. È nella fessura che si crea tra la spinta insostenibile del proprio sentire e il suo riconoscimento pubblico che si insinua il potenziale eversivo dell’adesione all’anarchismo consistente nel coraggio di rivendicare i propri diritti primari di libertà e uguaglianza. Un coraggio che si alimenta con quella costante tensione verso la completa autonomia della persona che ha come tappa principale il raggiungimento dell’indipendenza economica, e dunque la necessità di un lavoro retribuito e autonomo (anche rispetto alla famiglia), e che trova una straordinaria spinta propulsiva nell’atto migratorio, grande occasione di rinascere tagliando i ponti con un passato doloroso e involontariamente scomodo, per ricostruirsi una vita sulla base delle proprie scelte.
Un cammino verso l’autodeterminazione che queste donne pagarono ad un prezzo altissimo ma indispensabile, ossia la rottura di legami affettivi e familiari che, anche se molto cari, impedivano il rispetto del naturale sviluppo delle personalità femminili coinvolte. Lo studio di Natalie Zemon Davis intitolato Woman on the Margins[58] – come già nel 1999 coglie Maura Palazzi –[59] mette in luce questo aspetto: le tre donne del XVII secolo descritte nel volume hanno vite diversissime ma ugualmente straordinarie per il loro sesso e accomunate dalla separazione, volontaria o meno, dagli uomini della loro vita. Per le assai più modeste Mennocchi e Carini, analogamente, mantenere un rapporto sentimentale costruito sui canoni del loro secolo costava più del sacrificio affettivo o materiale, e impediva quel lauto risarcimento in termini di libertà e miglioramento di vita che spesso riguardava non solo se stesse ma anche quei cari che si era state costrette a lasciare (si pensi al caso della Mennocchi che lascia due figli per poi tornare, dopo otto anni, a prendere il secondogenito e offrirgli una vita migliore a San Paolo).
E così si può dire che queste donne hanno annullato, anche se solo per il breve spazio temporale della loro esistenza, la condanna dell’anarchismo a ideale utopistico. Senza l’ambizione di cambiare il mondo, esse si avvalsero dell’ideale per dare nuovo corso alla propria vita e compiere una “piccola” rivoluzione. Facendo affidamento solo su se stesse e partendo dal proprio sacrificio, si sottrassero fisicamente ai legami familiari e alle sue imposizioni, si spogliarono degli affetti e con essi del controllo maschile, e così facendo spezzarono regole e vizi della famiglia come istituzione.
Note
[1] S. de Beauvoir, L’età forte, Torino, Einaudi, 1995 [ed. orig. La force de l’âge, Paris, Gallimard, 1960], 317.
[2] A proposito del rapporto migrazione politica–migrazione di lavoro e dell’influenza dell’anarchismo italiano in Sud America cfr. E. Ragionieri, Il movimento socialista in Italia (1850-1922), Milano, Teti, 1976, 63.
[3] A proposito dell’effetto di annullamento delle diversità sui piroscafi cfr. Z. Gattai, Città di Roma, Milano, Sperling & Kupfer, 2006 [1° ed. 2000], 21.
[4] A proposito del viaggio e del lavoro come categorie esclusivamente maschili cfr. D. Corsi, Introduzione, in: Ead. (ed.), Altrove: viaggi di donne dall'antichità al Novecento, Roma, Viella, 2006 [1° ed. 1999], 30ss. e A. Arru, D.L. Caglioti, F. Ramella (eds.), Donne e uomini migranti. Storie e geografie tra breve e lunga distanza, Roma, Donzelli, 2008, XXI.
[5] Cfr. J.S. Ramos, O Ponto da Mistura: Raça, Imigração e Nação num Debate da Década de 20, Dissertação de Mestrado, Rio de Janeiro, Museu Nacional, 1994.
[6] A. Colbari, O Legado dos Imigrantes Italianos para a Cultura Brasileira, «Revista Brasileira de História», 17/34 (1997), http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0102-01881997000200003.
[7] J.S. Ramos, O Ponto da Mistura, cit. in A. Colbari, O Legado dos Imigrantes Italianos para a Cultura Brasileira.
[8] Z. Ciuffoletti, M. Degl'Innocenti, L'emigrazione nella storia d'Italia, 1868-1975: storia e documenti. Vol. I, Firenze, Vallecchi, 1978, 222-223; Memorial do Imigrante/Museu da Imigração, Imigração Italiana no Estado de São Paulo, 4° edição, Série Resumos, n.1, São Paulo, Memorial do Imigrante, 2006, 7.
[9] Lo Stato di San Paolo (Brasile) agli emigranti. Pubblicazione a cura del Ministero d’Agricoltura, Commercio e Lavori Pubblici, São Paulo, Scuola tipografica Salesiana, 1902, 142.
[10] Sulla questione cfr. inoltre C. Vangelista, Genere, etnia e lavoro: l’immigrazione italiana a São Paulo dal 1880 al 1930, «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 12 (1990), 353-371, A. Trento, Argentina e Brasile come paesi di emigrazione nella pubblicistica italiana (1860-1920), «Novos Cadernos», 1 (1987), 124 e A. Trento, Là dov’è la raccolta del caffè. L’emigrazione italiana in Brasile: 1875-1940, Padova, Antenore, 1984, 74.
[11] P. Petrone, L’influenza dell’immigrazione italiana sulle origini dell’industrializzazione brasiliana, in: Euroamericani. Vol.III: La popolazione di origine italiana in Brasile, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1987, 340.
[12] ibid.
[13] A. Trento, Là dov’è la raccolta del caffè, cit., 95.
[14] Z. Alvim, Lavoro femminile ed economia domestica nelle fazendas italiane di S. Paolo all’inizio del secolo, «Studi Emigrazione/Migration Studies», 20/70 (1983), 238.
[15] Ivi, 244. Al proposito tra i testi citati da Alvim sono di particolare interesse F. Peviani, L’attuale problema Italo – Brasiliano, Roma, SASI, 1922 e i racconti di viaggio di G. Lombroso Ferrero, Nell’America meridionale. Brasile, Uruguay, Argentina. Note e impressioni, Milano, Treves, 1908, 47-57.
[16] C. Vangelista, Genere, etnia e lavoro, 368.
[17] Cfr. Ivi, 370.
[18] Cfr. M. Zane, Il «socialismo utopico» di Giovanni Rossi. Un anarchico a Gavardo, «Bresciaoggi», 26 gennaio1988, 10 e L. Betri, Cittadella e Cecilia: due esperimenti di colonia agricola socialista, Milano, Edizioni del Gallo, 1971.
[19] La Colonia Cecilia prende il nome dalla protagonista femminile del romanzo utopico-propagandistico di G. Rossi, Un Comune Socialista, pubblicato in cinque edizioni tra 1875 e 1891, e consultabile on line, nell’edizione del 1878, http://www.braidense.it/dire/comune.pdf. Sulla colonia Cecilia la bibliografia è molto ampia, cito uno per tutti I. Felici, A verdadeira história da Colônia Cecilia de Giovanni Rossi, «Cadernos AEL», 5/8-9 (1988), 9-68, http://www.ifch.uni-camp.br/ael/website-ael_publicacoes/cad-8/Artigo-1-p09.pdf, da cui è tratta la notizia del numero di edizioni pubblicate.
[20] Cardias, citato in M. Zane, Il «socialismo utopico» di Giovanni Rossi. Un anarchico a Gavardo, «Bresciaoggi», 26 gennaio1988, 10.
[21] Sui compiti delle donne all’interno della Cecilia non ci sono molte notizie. Rimando, oltre al testo di Rossi, alla lettera di Maria Lacerda de Moura inviata da Ilha do Governador (Rio de Janeiro) all’anarchico Rodolfo Felipe, datata 16.05.1942 e pubblicata in F. Correia, Mulheres libertárias: um roteiro, in: A.A. Prado (ed.), Libertários no Brasil. Memória, lutas, cultura, São Paulo, Brasiliense, 1986, 38-40.
[22] Cfr. G. Rossi "Cardias", Cecilia, comunità anarchica sperimentale. Un episodio d’amore nella colonia “Cecilia”, Pisa, BFS, 24ss. e «L’Eco del Popolo», 22 maggio 1892.
[23] G. Rossi "Cardias", Cecilia, comunità anarchica sperimentale, cit., 28.
[24] Ivi, 42.
[25] Ivi, 78.
[26] Al proposito cfr. H. Grossman, Family life or free love? A Study on Brazil's «Cecilia», 1890-1894, «Arquivos do centro cultural português», 25/28 (1990), 403-420.
[27] G. Rossi "Cardias", Cecilia, comunità anarchica sperimentale, cit., 40.
[28] Non abbiamo dati certi in proposito ma visto che già la precedente esperienza comunitaria di Rossi escludeva le donne dal diritto di voto e che questa esperienza è stata considerata punto di partenza e riferimento per quelle a venire, è assai probabile che sia stata mantenuta una certa uniformità statutaria. Cfr. R. Gosi, Il socialismo utopistico: Giovanni Rossi e la colonia anarchica Cecilia, Milano, Moizzi, 1977.
[29] Casa dove i coloni tenevano le assemblee, cfr. S. M. Pazello Valente, A presença rebelde na cidade sorriso: contribuição ao estudo do anarquismo em Curitiba, 1890-1920, dissertação (Maestrado em História), Universidade de Campinas, dezembro, 1992, 96.
[30] Trovo riscontro e conferma a questa lettura nello studio sul lavoro femminile nelle fazendas e nei campi di C. Vangelista, Genere, etnia e lavoro, cit., 369.
[31] Memorial do Imigrante/Museu da Imigração, Imigração Italiana no Estado de São Paulo, cit., 17.
[32] Cenno biografico della Prefettura di Lucca, al giorno 15 aprile anno 1903, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[33] Copia estratta dal Registro degli Atti di Matrimonio dell’anno 1888 al N.132 Parte I.°, rilasciato in carta libera dal Comune di Lucca per uso di liquidazione pensione, datato 20 marzo 1928, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Ministero dell’Interno P.S., fascicolo personale, versamento 1959 busta 207, Ballerini Aurelio.
[34] Estratto dai ruoli di Matricola del Personale dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza compilato dal Ministero dell’Interno in data 20 dicembre 1928 e Certificato della Cancelleria della Corte d’Appello di Firenze, datato 22 giugno 1925, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Ministero dell’Interno P.S., fascicolo personale, versamento 1959 busta 207, Ballerini Aurelio.
[35] Copia estratta dal Registro degli Atti di Matrimonio dell’anno 1888 al N.132 Parte I.°, rilasciato in carta libera dal Comune di Lucca per uso di liquidazione pensione, datato 20 marzo 1928, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Ministero dell’Interno P.S., fascicolo personale, versamento 1959 busta 207, Ballerini Aurelio.
[36] Comunicazione della R. Prefettura di Lucca al Ministero dell’Interno Direzione Generale della P.S. Div A.G.R., datato 8 novembre 1941, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 292, Ballerini Felice.
[37] Cenno biografico della Prefettura di Lucca, al giorno 15 aprile anno 1903, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[38] Ibid.
[39] Ibid.
[40] Su Gigi Damiani cfr. U. Fedeli, Gigi Damiani. Note biografiche. Il suo posto nell’anarchismo, Cesena, L’Antistato, 1954; I. Felici, Damiani Luigi, in Dizionario biografico degli anarchici italiani. Vol.I, Pisa, BFS, 2003, 481-482.
[41] Cenno biografico della Prefettura di Roma a giorno 20 maggio 1894, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 1601, fascicolo 1, Damiani Luigi detto Gigi.
[42] Annotazione al cenno biografico, datato 28 settembre 1898, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 1601, fascicolo 1, Damiani Luigi detto Gigi e I. Felici, Damiani Luigi, cit., 481.
[43] Annotazione al cenno biografico, datato 28 settembre 1898 in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario politico entrale, busta 1601, fascicolo 1, Damiani Luigi detto Gigi.
[44] Cenno biografico della Prefettura di Lucca, al giorno 15 aprile anno 1903, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[45] I. Felici, Damiani Luigi, cit., 481-482.
[46] Cenno biografico della Prefettura di Lucca, al giorno 15 aprile anno 1903, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[47] Riservata del R.° incaricato di Affari Serra al Ministero dell’Interno, datata Petropolis 2 gennaio 1907, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[48] Cenno biografico della Prefettura di Lucca, al giorno 15 aprile anno 1903, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[49] Emma Ballerini [Maria Gemma Mennocchi] Socia della Associazione Femminile, Dall’associazione femminile, «La Battaglia», a.II [2° ed.], n.298, 22 marzo 1911 e Emma Ballerini [alias Maria Gemma Mennocchi], Em defesado companheiro Gigi Damiani, «A Plebe», a.III, n. 41, 30 ottobre 1919.
[50] Associazione anarchica femminile di San Paolo.
[51] Cfr. D. Corsi, Introduzione, cit., 19.
[52] Riservata della R. Prefettura di Lucca al Ministero dell’Interno Direz. Gen. della P.S. Servizio schedario, datato 8 ottobre 1930, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[53] Riservata della Prefettura di Genova al Ministro dell’Interno Direzione Generale della P.S., datata 11.11.1919, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 1601, fascicolo 1, Damiani Luigi detto Gigi.
[54] Riservata della Prefettura di Lucca al Ministero dell’Interno – Divisione Generale di Pubblica Sicurezza Servizio schedario – Roma, datata 2 gennaio 1920, in Archivio Centrale dello Stato di Roma, Casellario Politico Centrale, busta 3231, Mennocchi Maria Gemma.
[55] Le informazioni biografiche su Maria Teresa Carini sono tratte, salvo specifica, da A. Candido, Teresina etc., Rio de Janeiro, Paz e Terra, 1980.
[56] Ivi, 14.
[57] Ivi, 17-18.
[58] N. Z. Davis, Woman on the Margins. Three Seventeenth-Century Lives, Cambridge, ML, Harvard University Press, 1995 [tr. it. Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1996].
[59] M. Palazzi, Le molte migrazioni delle donne. Cambiamenti di stato civile e partenze per lavoro in Italia fra Otto e Novecento, in: D. Corsi (ed.), Altrove, cit., 79