Un progetto ambizioso
Dopo la soppressione della Congregazione di carità istituita a Bologna come negli altri capoluoghi del Regno d’Italia nel 1807 [Bressan 2000] e il ripristino – per quanto possibile – del tessuto assistenziale cittadino prenapoleonico [Dal Pane 1969, Istituto per la Storia di Bologna 1986][1] e in attesa che esso cominciasse a funzionare, il governo provvisorio austriaco, per mitigare gli effetti di una dilagante miseria provocata dalla crisi del tessuto produttivo e dalle contribuzioni di guerra, adottò una serie di misure urgenti, ma di portata limitata. Nel maggio del 1814 fu ripristinata la facoltà di mendicare, che il governo del Dipartimento del Reno aveva proibita «senza somministrare sufficienti mezzi per la sussistenza dei poveri invalidi, e senza offrire competente lavoro a quelli che ne erano capaci»[2] e in quello dell’anno successivo fu disposta la distribuzione di minestra al prezzo politico di cinque centesimi la porzione, provvedimento che si intendeva provvisorio ma che, dato il succedersi di cattive annate agricole, fu periodicamente prorogato fino all’estate del 1817[3].
Il problema della pauperizzazione di vasti strati della popolazione e delle sue ricadute sulla morale e sull’ordine pubblico, problema cruciale per tutti gli stati italiani della Restaurazione[4] fu affrontato con una prospettiva di più ampio respiro dal governo pontificio restaurato a Bologna nel luglio del 1815. Nel dicembre del 1816 il legato Alessandro Lante Della Rovere annunciò la prossima apertura delle Case di Ricovero e di Industria, già esistenti in periodo napoleonico, ma rinnovate nella organizzazione e dotate di nuove, e – si sperava – robuste entrate derivanti da una tassa sulla esportazione del riso, dai contributi promessi dal governo centrale e, soprattutto, dalle offerte di «una nobiltà così ragguardevole, e cospicua, di possidenti così ben costituiti ne’ loro possedimenti, di commercianti così accreditati e poderosi, e di un popolo così sensibile e generoso qual è il bolognese» che, secondo l’ottimistica previsione del prelato, sarebbero affluite copiose. Nella Casa di Ricovero avrebbero trovato sostentamento i poveri inabili al lavoro, in quella di Industria quelli che, pur essendo in grado di esercitare una qualche attività, erano privi di lavoro. Dal momento in cui fossero entrati a regime i due istituti, sarebbe stato proibito l’accattonaggio, in tutte le sue forme. Pochi giorni dopo il Legato, sempre per alleviare la piaga della disoccupazione, avviò un consistente programma di lavori pubblici – restauro delle mura cittadine e di edifici governativi, costruzione o riattamento di strade comunali e provinciali – coordinati dalla Congregazione di pubblico sussidio e finanziati da una sovrattassa di 10 baiocchi ogni cento scudi di estimo, analoga, ma di minore entità, rispetto a quella già introdotta nelle Marche[5].
Per frenare la dilagante microcriminalità, le cui cause, secondo uno stereotipo retorico mai assente in quegli anni in ogni riflessione sui problemi e sui mali della società, venivano in genere ricondotte all’ozio, volontaria e perniciosa scelta di vita indotta dalla perversione dei costumi e dei valori introdotta dal ventennio francese, ma anche e soprattutto, nelle analisi più lucide, alla povertà e alla disoccupazione provocate dalla destrutturazione delle attività produttive tradizionali e dalla massacrante fiscalità napoleonica, furono prese diverse misure di carattere repressivo e preventivo. Furono ripubblicati i consueti bandi contro accattoni, oziosi e vagabondi[6] – sotto questo profilo si riscontra una assoluta continuità fra la politica dello Stato pontificio prima dell’arrivo dei francesi, quella del Regno d’Italia e quella della Restaurazione [Angelozzi, Casanova, 2008; 2010a; 2010b] – e si cercò di disciplinare l’attività dei facchini, che suscitava diffuso malcontento e provocava spesso seri problemi di ordine pubblico. A causa della scarsa professionalità necessaria per esercitare tale mestiere, dai connotati piuttosto incerti, e della mancanza di una qualche forma di organizzazione associativa della categoria, dopo l’abolizione delle corporazioni avvenuta durante il periodo francese, il numero dei facchini era cresciuto a dismisura, alimentato da una pletora di disoccupati che, con la scusa di offrire i propri servigi, esercitavano in realtà una forma di accattonaggio particolarmente aggressiva che sconfinava spesso nel taglieggiamento[7].
Nella repressione e prevenzione di ogni forma di devianza e microcriminalità più incisivo e organico fu l’intervento del successore di Lante, il cardinale Giuseppe Spina, che culminò con la erezione di un discolato, riproposizione in chiave più ambiziosa, e con un diverso regolamento, di una casa di correzione per minori istituita in età napoleonica. Nell’editto istitutivo emanato il 29 luglio 1822[8] – ma al progetto si era cominciato a lavorare tre anni prima – il Legato spiegava gli scopi dell’istituto e a quali categorie di persone esso era destinato: Case di Ricovero e di Industria, Congregazione di pubblico sussidio, proibizione di accattonaggio e vagabondaggio, e soprattutto Discolato, costituivano le diverse articolazioni di un progetto ambizioso che voleva coniugare misure assistenziali e caritative destinate ad alleviare la miseria di vasti strati della popolazione e misure repressive finalizzate a sradicare ogni comportamento anomico, soprattutto la scioperataggine, vista come l’origine prima di ogni forma di disordine morale e sociale e anticamera del delitto.
In definitiva, si trattava di mantenere, per quanto lo consentivano le risorse finanziarie dello Stato pontificio, l’efficienza dell’apparato amministrativo napoleonico, mitigandone però la durezza e adattandolo alla particolare fisionomia e alla tradizionale politica paternalistica dello Stato ecclesiastico, secondo il programma di lavoro enunciato da Lante nel dicembre del 1816.
Un programma che, riprendendo la particolare declinazione della politica del «disciplinamento sociale» attuata nello Stato pontificio in epoca prenapoleonica [Prodi 1982; 1994], rivisitata alla luce di un generico utopismo sociale assai diffuso in quegli anni, si allineava alla politica cautamente ma decisamente riformistica del Segretario di Stato Ercole Consalvi [Petrocchi 1941; Santoncini 1996; Regoli 2006], che infatti approvò pienamente, additandoli come modello da seguire in tutto lo stato, i provvedimenti presi da Lante e Spina.
Nella gestione di questa complessa e costosa macchina la polizia, riorganizzata da Consalvi nel 1816 attenendosi alle linee guida prefigurate dalla costituzione Post diuturnas di Pio VII del 1800, fortemente influenzata in materia di polizia dal modello introdotto dai francesi[9] [Bartoccini 1986; Londei 1987; Cajani 1997; Hughes 1994; Grantaliano 2011], era chiamata a ricoprire un ruolo di primo piano, svolgendo una serie di compiti che in antico regime erano stati affidati ad altri soggetti, in particolare ai parroci e al clero regolare. Alla polizia spettava non solo reprimere l’accattonaggio, ma anche accertare i requisiti di coloro che chiedevano di essere ammessi nella Casa di ricovero e di Industria o alle opere pubbliche, concedere la autorizzazione ad esercitare il mestiere di facchino, dare un primo ricovero ai bambini e ragazzi abbandonati, istruire le pratiche di avvio al Discolato per quelli dediti all’accattonaggio, a piccoli furti, alla occasionale prostituzione, o comunque a rischio, segnalare situazioni di grave disagio sociale, reprimere i comportamenti immorali e scandalosi, comminare precetti, conciliare i conflitti intrafamiliari fra moglie e marito e genitori e figli [Lucrezio Monticelli 2007; Bonacchi, Groppi, Pelaja 2008; Mori 2008].
Sugli apparati di polizia degli stati europei nel XIX secolo è stata prodotta negli ultimi decenni una consistente mole di contributi che ne hanno analizzato, anche in chiave comparatistica, la struttura organizzativa, le procedure e le competenze, la cultura e la strumentazione tecnico scientifica, concentrandosi, comprensibilmente, soprattutto sulla sua mission primaria, cioè sulle attività connesse alla conservazione dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione del crimine e al controllo e contenimento delle diverse forme di dissenso politico, sociale e culturale [Piasenza 1990; Emsley 1999 e 2007; Antonielli 2006, Berlière 2008; Denis 2008]. Minore attenzione è stata invece dedicata al ruolo «assistenziale» [Alessi 1992; Contini 1994], sempre peraltro strettamente connesso a quello repressivo e «disciplinante», affidato alla polizia nella prima metà del XIX secolo, nella fase di passaggio tra la carità di antico regime e il moderno welfare [Zamagni 2000] e poco è stata studiata l’azione di mediazione e conciliazione della microconflittualità sociale e familiare da essa svolta [Dupont-Bouchat, Pierre 2001; Phillips 2010] in collaborazione o al posto di altre agenzie cui nella società di antico regime era affidata tale funzione, in particolare la Chiesa e il patronage aristocratico [Angelozzi, Casanova 2003; 2008].
Di un aspetto di tale attività di mediazione della conflittualità intrafamiliare, in particolare di quella fra genitori e figli, esercitata dalla polizia nella Bologna dei primi anni della Restaurazione, tratterò nelle pagine che seguono, dando conto di un primo sondaggio effettuato sul fondo di Polizia conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna, in particolare sulla rubrica 27 del titolo X intitolata Discoli [10]. Si tratta di un fondo documentario piuttosto ricco, anche se non del tutto omogeneo. Per il periodo 1816-1834, sul quale mi sono concentrato – in seguito la documentazione diviene più scarsa, per motivi che cercherò di spiegare più avanti – si tratta di oltre 4000 fascicoli, di assai diversa consistenza, il cui unico elemento comune è che contengono carteggi di polizia in qualche modo riguardanti minori, disposti in sommario ordine cronologico, senza ulteriori distinzioni tipologiche: ragazzi fuggiti di casa, abbandonati e senza un tetto e mezzi di sussitenza, trovati a mendicare o a prostituirsi, sospettati di piccoli furti o borseggi.
Il nucleo più consistente – oltre la metà del fondo – e anche quello formalmente più strutturato ed ordinato, è però costituito dalle pratiche riguardanti i cosiddetti «discoli di famiglia», ragazzi cioè di entrambi i sessi per i quali i genitori, o in loro assenza altri familiari, chiedono la reclusione nella Casa di correzione, o Discolato, istituita nel 1822. I fascicoli relativi sono in genere costituiti dall’esposto dei genitori, o altri familiari, che chiedono la reclusione di figli, nipoti, fratelli spiegandone i motivi, a volte in modo stereotipo e sommario, non di rado invece in termini molto circostanziati che ci restituiscono, con il sapore dell’autenticità, concreti spaccati di vita familiare; dalla verbalizzazione sommaria delle testimonianze raccolte dalla polizia per verificare le loro affermazioni; dal decreto con cui il Consesso, o Commissione, giudicante – ne parlerò – o più spesso il Legato, sentito il parere della Direzione provinciale di polizia, accoglie o respinge l’istanza di rinchiudimento. Nel caso l’istanza venga accolta in genere il fascicolo contiene anche le relazioni sul comportamento dei «discoli» che il funzionario di polizia distaccato presso la Casa di correzione – dalla sua istituzione fin quasi alla soppressione fu Ludovico Michelini, di cui avrò occasione di parlare in più occasioni – inviava mensilmente alla Direzione provinciale, e che venivano utilizzati per decidere se mettere fine alla reclusione oppure prolungarla. Quando il Consesso giudicante o il Legato, sempre sentito il parere della Direzione provinciale, decide che il discolo si è corretto e può essere dimesso, il fascicolo spesso riporta anche il resoconto delle ricerche fatte, sempre dalla polizia, per trovargli una collocazione abitativa e lavorativa affidabile e soddisfacente, qualora, per qualche motivo, non sia possibile riconsegnarlo ai genitori o a parenti.
Si tratta di una fonte che, per sua natura, solo con molta cautela, e solo in correlazione con altre, può essere utilizzata per ricavarne uno spaccato della società Bolognese nella prima metà dell’800: quelle registrate nelle carte di polizia della rubrica 27 sono situazioni «anomale», storie di sconfitta in cui si esprime una conflittualità fra genitori e figli che non riescono a trovare una composizione attraverso le «normali» negoziazioni familiari, o la tradizionale mediazione del parroco, degli amici e dei vicini e, in mancanza di alternative, devono rivolgersi alla polizia. Si tratta tuttavia di una fonte che può invece dirci molto sulle strategie retoriche utilizzate dai genitori per accusare, dai figli per difendersi ed accusare a loro volta, sul modo in cui gli uni e gli altri vivono e interpretano il proprio ruolo in un’epoca di profonde trasformazioni. Ma è anche una fonte che ci permette di ricavare qualche elemento ulteriore di informazione – come vedremo non del tutto scontato – sulla mentalità dei funzionari di polizia degli anni della Restaurazione e sul loro rapporto con la cultura, i modelli comportamentali e valoriali della società sul cui ordine e tranquillità sono chiamati a vegliare.
Le angustie dei genitori
Il 20 luglio 1822 Elisabetta Pasini «sconsolata genitrice […] non sapendo qual partito pigliarsi» con il figlio Bartolomeo di 15 anni che «ha preso mal piega», spende tutto quel poco che guadagna come manovale nelle bettole e passa notti intere fuori casa «senza portarsi ai propri focolari, nel mentre che pel suo non giungere, palpitano quelle viscere che lo concepirono» si rivolge alla Polizia perché «gli faccia una chiamata e una forte rampogna»[11]. Elisabetta è una donna sola – non ci spiega perché – e di donne sole, vedove in genere, ma anche legalmente separate o abbandonate dal marito [Palazzi 1997], sono poco più di un quinto delle 100/150 denunce, suppliche ed esposti che ogni anno, fra 1816 e 1834 – in seguito diminuiscono sensibilmente – vengono presentate alle autorità di polizia da genitori o parenti che chiedono di essere aiutati a risolvere problemi di ogni tipo con figli, nipoti, fratelli, pupilli che non riescono a gestire con le proprie sole risorse.
Pochi sono gli esposti contro il proprio figlio presentati congiuntamente da entrambi i genitori mentre numerosi – anche in questo caso circa un quinto del totale – sono quelli di zii, nonni, fratelli, patrigni e matrigne o altri parenti che legalmente o di fatto esercitano, non sempre spontaneamente e volentieri, un ruolo tutoriale in sostituzione di genitori che sono morti o che, per i più svariati motivi, hanno abbandonato i figli o non possono o vogliono occuparsene.
Tuttavia nella maggior parte dei casi sono padri quelli che chiedono l’aiuto della polizia. E mentre le madri spesso – non sempre – esprimono dolore per il passo che sono costrette a fare, ma in genere non sentono il bisogno di giustificarsi, rivolgendosi con naturalezza alla polizia come al surrogato di una autorità paterna che non c’è, i padri quasi sempre esprimono sentimenti di rabbia, frustrazione, disagio che sono la spia di un penoso senso di inadeguatezza a svolgere il proprio ruolo. A volte lo fanno denunciando un conflitto interiore: «L’amore di padre in conflitto col proprio dovere» esordisce Gaetano Gibelli chiedendo provvedimenti di polizia per uno dei tre figli, Carlo di 16 anni[12]; oppure esprimendo apertamente vergogna per non essere stati capaci di educare la propria prole, come Giacomo Dosi che si è risolto a chiedere aiuto alle autorità «del più cupo rossore e della più intensa amarezza oppresso»[13]; o ancora confessando tutta la propria impotenza – «esauste tutte le risorse della paterna autorità» – come Filippo Onofri[14]; in qualche caso invece rivendicando stizzosamente che «la natura, la religione, le leggi civili tutelano la patria potestà», come Domenico Alvisi che giura che non vuole avere più nulla a che fare con il figlio Domenico[15].
Altri padri cercano invece di guadagnarsi l’indulgenza della polizia giustificando la propria debolezza col fatto che sono vedovi, come Domenico Fabbri o Luigi Fanti, entrambi rimasti da soli ad accudire il primo tre, il secondo quattro figli in tenera età; oppure che sono stati abbandonati, insieme ai figli, dalla moglie che è fuggita di casa per seguire «i suoi capricci», come Pietro Ordelaffi[16].
Ma i motivi più frequentemente addotti per spiegare il proprio fallimento di padre sono la miseria, la malattia, la disoccupazione oppure un lavoro che non lascia tempo per occuparsi della propria famiglia, la vecchiaia. Sono centinaia di vicende, spesso penose e tragiche, che confermano con forza come negli anni della Restaurazione l’autorità paterna, ancora sentita come valore sociale e giuridico fondante, sia però messa in discussione dalle nuove idee diffuse dalla rivoluzione prima e dal romanticismo poi [Cavina 2007] – ma il processo almeno per il patriziato e la nobiltà era cominciato prima [Giacomelli 1980] – e ancor più minata dalle conseguenze, devastanti per la tenuta delle relazioni familiari nei ceti più poveri, della crisi economica e della conseguente dilagante miseria che colpisce la società bolognese della prima metà del XIX secolo [Monti 2010].
L’indebolimento dell’autorità, e autorevolezza, del pater familias in tutti gli strati sociali [Cavallo 2002] è ulteriormente confermata dalla frequenza con cui le sue decisioni, o intenzioni, relative ai figli sono contestate, a volte con livorosa acrimonia o aperto disprezzo, e sovente con successo, da altri membri della famiglia e della parentela. Giovanni Zini, d’accordo con la moglie Geltrude, fa rinchiudere nel discolato il figlio Luigi di 19 anni per la sua «cattiveria e inobbedienza e continue minaccie», ma la figlia Teresa riesce ad ottenere la liberazione del fratello spalleggiata vigorosamente dal marito Luigi Fornasari, il quale presenta alla polizia un memoriale in cui sostiene che Giovanni è un povero imbecille che fa tutto quello che vuole la moglie il cui «crudo e inumano carattere» nei confronti dei figli «negando loro il pane», nonostante gli Zini non siano poveri, è noto a tutti[17]. Angelo Bianchi, che firma il suo esposto in modo molto stentato, sostiene che non voleva affatto che suo figlio Antonio finisse nel discolato; è stato ingannato dalla seconda moglie Anna che gli ha fatto firmare un foglio, di cui non ha capito niente, facendogli credere che era la supplica di ammissione di Antonio – che è «scemo di cervello» – nell’ospedale S. Orsola, mentre invece era una denuncia alla polizia[18].
Dalle carte di polizia emerge una crisi della figura paterna, e più in generale della famiglia tradizionale, che investe tutte le classi sociali sia pure con modalità parzialmente diverse.
La soggezione degli individui all’autorità del gruppo dei parenti maschi, già indebolita nel Settecento nelle élites per il rifiuto degli obblighi imposti alle dame nei ménages «frigidi» – intaccati fin dai primissimi decenni dagli “adulteri” rituali e legalizzati con i cicisbei – era sfociata in tutta Europa nella diffusa pratica dei matrimoni clandestini. In Italia non era stato certamente facile ripristinare le gerarchie di età e i ruoli di genere dopo gli anni della dominazione francese, quando la rigidità delle barriere sociali era sembrata allentarsi e l’amore era entrato impetuosamente a far parte delle emozioni non solo lecite ma augurabili per una vita famigliare felice[19].
Lo stesso diritto alla felicità sembra guidare le scelte delle generazioni più giovani, a volte con esiti rovinosi [Bizzocchi 2001]. Che il padre autoritario fosse diventato nei romanzi ottocenteschi un eroe negativo è stato ampiamente dimostrato [Cavina 2007]: fu nel XIX secolo che l’ordine gerarchico patriarcale perse gradualmente il suo carattere monolitico, lasciando una vasta zona franca nei rapporti fra le generazioni fino alla riscoperta dell’onore militare e dell’amore di patria come basi di un nuovo ordine famigliare [Porciani 2006]. Se questo ben noto percorso dalla famiglia-corpo all’individualità e all’affermazione delle scelte affettive è segnalato da opere letterarie e da nuovi segni di appartenenza propri delle élites culturali e sociali, le trasformazioni toccarono anche i ceti medio-bassi e spesso in maniera traumatica e conflittuale, per il venir meno di un patto tra genitori e figli e fra mogli e mariti che fino alla fine del XVIII aveva sostanzialmente tenuto. Dalle carte di polizia, sembra che il tradizionale ordine famigliare sia una delle tante cose che la Restaurazione non riuscì a riprodurre e che solo i valori legati all’idea di nazione avrebbero potuto rifondare, anche se su basi diverse.
Certo la maggior parte delle situazioni di disagio familiare si colloca in un contesto di estrema miseria, di malattia e di emarginazione sociale, in cui il fattore economico prevale su quello culturale. Nel febbraio del 1824 il cardinal legato Spina chiede alla Direzione di polizia una relazione sulla disponibilità finanziaria dei parenti dei reclusi nel discolato, in teoria tenuti a pagarne il mantenimento: ne emerge un quadro di disoccupazione, mestieri precari e malpagati che è uno spaccato fedele della drammatica situazione sociale ed economica di Bologna in quegli anni quale si ricava da tutte le fonti ed è stata messa in luce dalla storiografia più recente. Arcangelo Alzani è un «semplice birozzarolo» e campa raccogliendo letame; Carlo Belli è un «facchino avventizio» e deve mantenere la moglie malata e tre figli piccoli; Eufrasia Buriani «è miserabile», ha un figlio in carcere, altri due piccoli da mantenere e vive facendo la venditrice ambulante di bicchieri in campagna, oppure chiedendo l’elemosina; Luigi Tarozzi era sensale di bestiame ma ora non trova più lavoro ed è «miserabile […] privo fino di comodo di dormire»; Paolo Fantazzini fa il cameriere e ha seguito il suo padrone a Roma da dove invia un quarto della sua paga alla moglie Rosalia che con quella, e con quanto guadagna facendo la lavandaia, deve mantenere sei figli piccoli[20]. In molti casi l’internamento nel discolato, più che la punizione per comportamenti devianti, appare l’unica soluzione possibile di una condizione di abbandono dei figli da parte dei genitori che senza dubbio è stata causata dalla miseria.
Tuttavia poco meno di un terzo delle situazioni di rapporto difficile fra genitori e figli riguardano membri dei ceti medio superiori – possidenti, commercianti, professionisti, nobili – o addirittura funzionari dello stato.
In realtà la presenza nei fascicoli di polizia di membri dei ceti superiori risulta nettamente sovradimensionata se commisurata alla sua consistenza percentuale rispetto alla popolazione bolognese, ma sarebbe una forzatura dedurne che la conflittualità fra genitori e figli fosse in essi più diffusa che in quelli popolari. Con qualche cautela – una prima analisi della fonte non consente affermazioni perentorie su questo punto – si può ipotizzare che in effetti dai primi il problema della qualità dei rapporti familiari e della educazione dei figli fosse avvertito con maggiore acutezza e consapevolezza. È sicuramente vero invece che per i ceti superiori, generalmente alfabetizzati, rivolgersi alla polizia era più facile: i ricorsi, le denunce e le suppliche dovevano essere scritte e firmate, quanto meno con una croce convalidata da due testimoni. Per analfabeti o semianalfabeti (diverse suppliche sono chiaramente scritte dall’interessato, ma con grafia incerta e infarcite di errori di ortografia, grammatica e sintassi), ancora in larga maggioranza fra gli strati popolari, la obbligatorietà di adire alla polizia attraverso lo strumento dell’esposto scritto, tassativamente prescritto in ogni caso, poteva rappresentare un ostacolo, magari solo psicologico. Non si deve tuttavia sopravvalutare questo fattore, perché sappiamo che da lungo tempo, in tutta Europa, anche gli analfabeti erano comunque in grado di far giungere la propria voce alle autorità politiche e religiose senza eccessivi problemi [Nubola, Würgler 2002]. Nella Bologna della Restaurazione non era difficile trovare qualcuno che fosse disposto a stendere una supplica o una denuncia per un modesto compenso, o anche gratis come sappiamo che facevano normalmente preti e religiosi.
Certamente più importante è un altro fattore, la cui rilevanza si può cogliere soltanto collocandolo in una dinamica di lungo periodo: il mutamento cioè del rapporto fra ceti superiori e forze di polizia e in generale l’apparato della giustizia criminale, intervenuto in un arco temporale che si colloca fra le riforme lambertiniane e la fine degli anni ‘20 del XIX secolo, passando naturalmente attraverso la decisiva esperienza del ventennio francese. Inizialmente contrassegnato da ostilità e disprezzo esso virò gradualmente verso la fiducia e il rispetto [Antonielli 2002; Antonielli, Donati 2003; Angelozzi, Casanova 2003; 2008; 2010a]: gli odiati sbirri del XVII secolo agli occhi dei membri delle classi superiori divennero stimati funzionari dello stato ai quali ci si poteva rivolgere non solo per avere protezione contro gli attentati, alla proprietà e alla persona, delle “classi pericolose”, ma anche per risolvere i propri problemi famigliari con la ben riposta fiducia che, nel proprio caso, l’intervento sarebbe stato discreto e misurato per evitare ogni inutile scandalo e pubblicità. Il divorzio fra polizia e ceti superiori a Bologna – comunque non totale – maturerà solo negli anni delle tensioni risorgimentali. Presso i ceti popolari invece l’atteggiamento nei confronti della polizia non era affatto univoco, così come molto variegata era la loro fisionomia socio professionale: dalle fonti emerge comunque con chiarezza che presso gli strati più poveri ed emarginati erano piuttosto diffusi, anche se non generalizzati, sentimenti di ostilità, diffidenza e paura [Santoncini 1981; Hughes 1994].
Ma in sostanza, nei loro esposti, denunce, suppliche, di cosa accusano genitori, nonni, zii i propri figli e nipoti, e cosa chiedono alla polizia? Non è qui possibile costruire una casistica abbastanza articolata da render conto con sufficiente approssimazione della grande ricchezza quantitativa e tipologica della documentazione e mi limiterò perciò a qualche cenno puramente esemplificativo della varietà delle situazioni che da essa emergono. Il 29 giugno 1820 Luigi Trebbi chiede che la figlia Gertrude sia messa nel correzionale: la bambina – ha 11 anni – ha rubato in casa diversi bicchieri che ha scambiati con «giochini e frutta da mangiare»; durante la messa ha rubato ad un’altra ragazzina tre bajocchi che sono stati ritrovati sotto una zampa del tavolo di cucina; quando la si manda fuori casa per qualche incombenza «si svia con le compagne» e torna dopo ore. Per supportare la veridicità di tali accuse il padre adduce le dichiarazioni scritte di due sacerdoti che, dice con sussiego, «per ogni titolo e rapporto fanno fede»[21].
Il 12 aprile 1839 il Tribunale criminale di Bologna decreta l’esilio perpetuo – la pena è relativamente lieve perché le accuse non sono state pienamente provate – per Filippo Bortolotti che il padre ha accusato di aver tentato più volte di ucciderlo, di aver minacciato di morte i fratelli e aver preso a calci e pugni la madre, dichiarando che, finché Filippo sarà a piede libero, la propria vita e quella degli altri suoi famigliari sarà in costante pericolo. Al momento della condanna Filippo ha 24 anni e al fascicolo a lui intestato è acclusa la sua fedina penale dalla quale risulta che da quando ne aveva 15 è entrato ed uscito in continuazione dal discolato e dal carcere per furto, borseggio, aggressioni a mano armata, contravvenzione ad un precetto di alto rigore; arruolato nell’esercito pontificio è stato espulso con infamia, dopo aver scontato un anno di carcere militare per insubordinazione e per aver ferito un commilitone[22].
Gertrude, bambina un po’ «leggera di cervello» come la definisce l’ispettore di polizia Michelini, e Filippo, giovane criminale già incallito, rappresentano gli estremi di una ideale scala della difficoltà di rapporto fra genitori e figli nella Bologna della Restaurazione quale emerge dalle carte di polizia. In mezzo, una sterminata galleria di storie di ragazzi e ragazze di ogni età fuggiti di casa per arruolarsi nell’esercito, raggiungere mete lontane ed esotiche, inseguire amori proibiti, visitare luoghi santi o darsi al crimine e al vizio, o per un disagio che loro stessi, interrogati quando vengono ritrovati – quasi sempre – fanno fatica a descrivere, oppure descrivono con sorprendente capacità di introspezione. Ragazzi che si rifiutano di lavorare, o lavorano poco e male, oppure che marinano la scuola e trascurano gli studi e che già a dodici tredici anni passano il tempo all’osteria a bere e giocare e frequentano compagnie poco raccomandabili. Ragazze giovanissime ribelli ad ogni costrizione, sfacciate e senza inibizioni, che sembrano inevitabilmente avviate alla prostituzione. Ragazzi e ragazze disobbedienti, insolenti e capaci di rispondere ad un rimprovero con insulti, minacce e gesti violenti. Bambini di dieci anni già dediti ai piccoli furti e al borseggio, talvolta organizzati in piccole e temibili bande, oppure a un accattonaggio molesto e aggressivo.
Un campionario estremamente vario, alcuni elementi del quale, il vizio del gioco e del bere, la disobbedienza, la scioperataggine, sembrano sostanzialmente comuni a tutti gli strati sociali, così come i frequentissimi conflitti originati da motivi di interesse – spartizione di una eredità, divisione dei beni in seguito all’allontanamento dalla famiglia di uno dei membri, dispareri sulla gestione di una attività economica o lavorativa comune – anche se l’entità delle cifre e degli interessi contestati possono essere ovviamente molto diverse.
Per altri aspetti invece le cause del conflitto familiare appaiono più strettamente correlate alla collocazione socio professionale. Non stupisce che nel ceto operaio e artigiano l’accusa più frequente rivolta ai figli, soprattutto maschi, sia quella di non contribuire con i proventi del proprio lavoro a bilanci familiari spesso precari, di avere un comportamento prepotente e violento nei confronti dei genitori e dei fratelli, di rubare in casa, mentre nei confronti delle figlie femmine l’accusa è quasi sempre quella della sfrontatezza e scostumatezza nei rapporti con l’altro sesso.
Nei ceti medio alti invece provoca amarezza e disgusto soprattutto la svogliatezza nello studio dei figli maschi che vanificano importanti investimenti, economici e di prestigio, fatti sul loro futuro dai genitori.
Ormai anche per la nobiltà e non solo per il ceto medio, lo studio è la via obbligata per entrare nel mondo, sempre più appetito ed appetibile, delle professioni [Malatesta 2010; Angelozzi, Casanova 2010b].
Meno frequente è invece il caso di padri e madri di ceto sociale medio alto che cercano di contrastare le scelte affettive o matrimoniali dei figli, soprattutto, ma non solo, maschi. Quando lo fanno, raramente ricorrono all’argomento della mésaillance – anche se spesso traspare che è proprio quello che vogliono evitare – ma preferiscono ricorrere a quello della giovane età dei figli e della loro incapacità di fare scelte ponderate, della scarsa moralità e della cattiva fama delle compagne/i da loro scelti, della differenza di età e di inclinazioni. L’amore romantico ha attecchito anche nella Bologna della Restaurazione e si prova un certo ritegno a invocare ragioni di carattere economico e di rango sociale cui pochi decenni prima si faceva ricorso senza alcuna remora [Giacomelli 1980].
Meriterebbero poi più che un rapido cenno le accuse di irreligiosità, sempre più frequenti e enfatizzate negli anni Trenta e Quaranta del secolo, che spesso sembrano essere solo la spia più evidente di una complessiva discrasia culturale e valoriale, e di orientamenti politici, fra genitori e figli, acuita dagli avvenimenti del 1831 che segnarono uno spartiacque non solo politico, ma anche culturale [Berselli 2010; De Benedictis 2010]. Vincenzo Landi, cuoco, chiede che il figlio Pietro di 14 anni sia chiuso nel discolato, e si offre di pagarne il mantenimento, dicendo che «bestemmia quel tristarello, peggio d’un turco»[23]. Secondo il padre e diversi testimoni Giuseppe Lenzi «è un miscredente, che fa pompa della sua irreligione, bestemmia e maledice Dio, la Madonna e i santi, mette in ridicolo i sacramenti, i riti della chiesa e i sacerdoti, nega l’inferno, il paradiso e il purgatorio che dice essere invenzioni dei preti per loro guadagno e per dar timore alla gente». Non ci stupisce apprendere dal suo fascicolo che Giuseppe ha partecipato ai moti del 1831 e ha fatto parte della guardia civica[24]. Fra le accuse implacabili rivolte dal già ricordato conte Giacomo Tibertini al figlio Guido, accuse che rivelano un odio inestinguibile che Guido, a detta dei numerosi ufficiali di polizia che vengono coinvolti nella annosa vicenda, non ricambia, c’è quella di essersi fatto traviare dalle massime immorali della nonna e dello zio materno, liberi pensatori e liberali, che a loro volta accusano Giacomo di essere un meschino bigotto.
Alla polizia spesso genitori e parenti chiedono solo di impartire a figli, nipoti e fratelli avviati su una brutta china una «acre ammonizione» che li spaventi e li riporti sulla retta via, ma altrettanto spesso, negli anni ’20 e nei primi anni ’30 la richiesta esplicita è quella di rinchiuderli nel discolato fino a che si siano «emendati e corretti» e, negli anni successivi, di costringerli all’arruolamento forzato nell’esercito pontificio. Numerose, e trasversali a tutti gli strati sociali, sono anche le suppliche di genitori che chiedono alla polizia di intervenire per costringere i propri figli a sloggiare di casa – in genere, ma non sempre, si tratta di figli maschi fra i 18 e i 25 anni, ma non mancano casi di trentenni e quarantenni, sposati e con figli, che pretendono di vivere con i genitori e a loro spese – mettendo fine a convivenze ormai intollerabili.
La risposta della polizia
Innanzi tutto si deve segnalare un dato, per qualche verso sorprendente, ma che emerge con chiarezza dalla fonte. La polizia fino ai primi anni ’30, nonostante – occorre ricordarlo – il suo organico non superi le 50 unità [Hughes 1994], risponde alle centinaia di richieste che le vengono rivolte da genitori e parenti, anche quando riguardano questioni veramente irrilevanti, sempre con grande prontezza ed efficienza, da qualunque parte esse provengano, senza alcuna discriminazione, tranne – come abbiamo visto – per un maggior tatto e discrezione nel caso di persone appartenenti ai ceti superiori. Fra l’esposto o la denuncia di genitori e parenti e l’adozione di misure da parte della polizia, di norma passano pochi giorni. L’impressione che emerge complessivamente dalle carte – non solo quelle riguardanti conflitti intrafamiliari – è quella di una capacità di lavoro e di capillare controllo su tutti i segmenti della società, che contraddice, almeno per Bologna, l’immagine stereotipa di una polizia pontificia non paragonabile, sul piano dell’efficienza, a quella del ventennio francese o anche a quella di altri stati italiani[25]. Segni di chiaro deterioramento del suo funzionamento si notano solo dalla fine degli anni ‘30.
Non scontato è anche il modo in cui i funzionari di polizia si atteggiano di fronte al conflitto genitori figli. In linea teorica l’assunto di partenza è che la parola di un padre o di una madre vale più di quella del figlio e, in caso di dispareri, quella del padre più di quella della madre. Maria Pellegrina Palmieri accusa il figlio Felice di averla offesa e percossa più di una volta, ma non è in grado di addurre prove conclusive per sostenere le sue accuse. Tuttavia Giovanni Martinelli, il sottodirettore di polizia di Porretta dove Pellegrina abita, decide comunque di precettare Felice «dovendosi a fronte della mancanza di prove, e della negativa del figlio prestare fede alla madre» che non può dire il falso contro il figlio «cosa alla quale natura repugna, e l’intensità dell’amore materno non da luogo a supporre»[26]. Sempre Martinelli, divenuto commissario a Bologna, a proposito del contrasto fra i coniugi Apollonia e Luigi Aldrovandi – lei chiede che il figlio Raffaele di 13 anni sia messo nel discolato, Luigi ritiene la misura eccessiva – sentenzia «io sono del parere che la volontà del padre debba prevalere a quella della madre»[27].
In pratica tuttavia lo stereotipo favorevole all’autorità genitoriale e paterna viene bilanciato da un altro stereotipo secondo il quale, quando si tratta di dinamiche familiari, è molto difficile distinguere il torto dalla ragione e si deve essere molto prudenti nel pronunciare giudizi [Casanova 2007]. Le affermazioni e accuse di padri, madri, nonni e ancor più quelle di zii e fratelli, anche quando si riferiscono a fatti di lieve entità e comportano al massimo un rimprovero o qualche giorno di guardina, non vengono mai accettate per oro colato, ma verificate, certo non sempre con la massima accuratezza, ma comunque in ogni caso, raccogliendo informazioni estragiudiziali e almeno due testimonianze, sommarie, ma regolarmente verbalizzate e firmate. Un particolare peso viene naturalmente attribuito alle attestazioni dei parroci, quasi sempre presenti nei fascicoli degli anni ’20, meno in quelli del periodo successivo, ma non è raro il caso che le conclusioni cui perviene la polizia non coincidano con il loro punto di vista.
In genere le informazioni assunte confermano le accuse dei genitori ma è tutt’altro che raro che la polizia si faccia invece un’idea molto diversa di come stanno le cose e arrivi a prendere più o meno apertamente e decisamente le parti dei figli.
È sorprendentemente frequente il caso in cui poliziotti, evidentemente di mentalità più aperta e più sensibili di quanto ci si possa aspettare, stigmatizzano esplicitamente il comportamento di padri troppo severi e oppressivi e di madri «crudeli» che non danno ai figli l’affetto e le cure di cui hanno bisogno, di genitori che troppo pretendono e poco tollerano, che non sanno educare i figli e li spingono a reazioni violente che vanno certo sanzionate, ma che meritano comunque qualche attenuante. Ed è parimenti sorprendente quanto raramente padri e madri siano invece accusati di eccessiva indulgenza e di viziare i figli.
Dalla documentazione esaminata in generale si ricava l’immagine di una polizia che – almeno nei primi anni della Restaurazione – anziché distinguersi per ottusa brutalità, in molte occasioni si rivela più incline alla pietà e alla comprensione nei confronti della miseria e dell’emarginazione di una opinione pubblica che invece reclama a gran voce più severità e una più efficace repressione nei confronti delle “classi pericolose” [Sori 1982; Davis 1989; Hughes 1994]. Più di una volta dalle carte di polizia trapela una certa riluttanza a perseguire accattoni e questuanti – e i ripetuti richiami delle autorità legatizie al rispetto della normativa in materia lo confermano – e persino ad usare la mano pesante contro i tanti bambini che campano di piccoli furti. È soprattutto nei confronti dei più giovani che si manifesta l’indulgenza e addirittura, in molti casi, quella che si potrebbe definire l’attitudine filantropica di tanti poliziotti. Sono molti i bambini raccolti denutriti e seminudi sfamati e rivestiti nel più vicino commissariato, oppure strappati dalle mani di padri violenti che li stanno massacrando di botte ed è costante la tenacia e l’impegno con cui le autorità di polizia cercano di assicurare un tetto e un lavoro a ragazzi e ragazze abbandonati dai genitori e dai parenti o dimessi dal discolato.
È comunque vero che nella maggior parte dei casi i commissari di polizia accedono alle richieste dei genitori e lo fanno con notevole duttilità e ampi margini di discrezionalità, ma sempre all’interno di una tipologia abbastanza precisa di misure conciliatorie, dissuasive o punitive graduate a seconda della gravità dei casi, e rapportandosi costantemente, a meno che non si tratti di questioni di scarsissima importanza, con la Direzione provinciale di polizia che a sua volta sottopone ogni decisione alla approvazione del legato. Tutti passaggi che vengono registrati, anche se talora in modo piuttosto sommario.
A volte il funzionario di polizia incaricato, anziché comminare sanzioni, cerca di raggiungere un accordo tra le parti. È una funzione esplicitamente prevista da una circolare del legato Macchi del 26 maggio 1837[28] che faceva obbligo a governatori e commissari di «interporre la propria mediazione per comporre le piccole dissensioni ed in ispecie le discordie domestiche», ma che la polizia esercitava già da prima ogni volta che lo riteneva possibile. In questa attività conciliativa, come in altre di carattere invece assistenziale, la polizia esercitava un ruolo al contempo di collaborazione e di concorrenza con il clero [Lucrezio Monticelli 2007]. Non è raro infatti che dai fascicoli si apprenda che il tentativo di composizione operato dal funzionario di polizia – spesso con successo – segue il fallimento di quello tentato dal parroco. Di fatto la polizia esercitava una funzione di mediazione dei conflitti che gli attori che l’avevano esercitata nei secoli precedenti non erano più in grado di svolgere – era il caso del ceto senatorio [Angelozzi, Casanova 2003] – oppure svolgevano, ma non con la stessa efficacia di un tempo, ed era appunto il caso degli ecclesiastici. A volte anzi la polizia interpretava tale funzione con eccessiva disinvoltura e discrezionalità, tanto da costringere più di una volta la Direzione provinciale, richiamata all’ordine dai Legati, ad ordinare ai commissari di non travalicare le proprie competenze prendendo decisioni, ad esempio in merito a vertenze di carattere economico, che spettavano soltanto ai Tribunali civili[29].
Nei casi in cui la conciliazione falliva, o non si riteneva neppure opportuno tentarla, si passava alle misure dissuasive e punitive. La più blanda era l’ammonizione che a sua volta poteva essere «lieve», «patetica» – quando ricorreva alla mozione degli affetti – oppure «acre» ed eventualmente accompagnata dalla minaccia di sanzioni più severe in caso di recidiva. Il gradino superiore era costituito da qualche giorno di detenzione, solitamente non più di tre, nelle carceri di polizia, eventualmente a pane ed acqua.
Misura decisamente più grave, anche se solo preventiva – e largamente applicata negli anni ’20 e non solo in casi di controversie familiari – era il precetto, graduato in «semplice», quando non fissava alcuna pena in caso di prima contravvenzione, «rigoroso» o di «alto rigore» quando prevedeva una pena più o meno grave, in genere dai sei mesi ai tre anni di carcere o, per i più giovani, un periodo di reclusione nel discolato. I precetti, compilati su moduli prestampati, prevedevano alcuni obblighi e divieti eguali in tutti i casi, ed eventualmente altri specifici, aggiunti a mano caso per caso. I primi erano applicarsi ad una occupazione stabile, non oziare e non vagabondare, non frequentare bettole e cattive compagnie, tornare a casa prima dell’Ave Maria e rimanervi fino all’alba del giorno dopo; i secondi variavano a seconda delle circostanze: potevano ad esempio prevedere il divieto di avvicinarsi alla abitazione di determinate persone e di offenderle con atti e parole, oppure di frequentarne altre, oppure l’obbligo di essere obbedienti e rispettosi con i genitori e i fratelli. La polizia si riservava il diritto di controllare ex officio l’osservanza del precetto, in qualsiasi ora del giorno e della notte e senza alcun mandato dell’autorità giudiziaria.
Il precetto non era un istituto nuovo: anche prima del ventennio francese esso era stato largamente utilizzato, ma faceva parte della potestas economica del Principe o dei suoi rappresentanti e a Bologna poteva essere comminato solo dal Legato o dal giudice criminale [Casanova, Angelozzi 2008]. Durante il Regno e la Restaurazione esso invece si trasformò in una semplice misura di polizia, innescando un aspro contenzioso con il potere giudiziario nel contesto di un più generale dibattito sul principio di legalità di cui abbiamo già trattato in altra sede [Angelozzi, Casanova 2010b]. Il precetto era il provvedimento di polizia più detestato per i motivi che nel settembre del 1839 Giuseppe Predieri seppe esporre con sintetica chiarezza, supplicando che al figlio Giuseppe di 17 anni, che pure aveva chiesto alla polizia di arrestare a causa dei suoi comportamenti violenti contro i genitori e i fratelli, esso non venisse applicato perché
verrebbe un tale legame a riportare sommo danno al figlio che non potrebbe trovare luogo di impiegarsi, e secondariamente apporterebbe un disdoro il più grave alla famiglia intera, ed un disturbo, per quelle visite che verrebbero alla casa di notte tempo, a tutti gli inquilini i quali sono persone onorate e dabbene, e non avezzi a soffrire questi incomodi[30].
Con grande lucidità Predieri additava la contraddizione insita nell’istituto del precetto che era poi la contraddizione di fondo che contraddistingueva un aspetto importante della politica della polizia nell’età della Restaurazione. Come altre forme d’intervento tese ad eliminare l’ozio e il vagabondaggio, e le loro conseguenze – ritenuti la maggiore minaccia all’ordine pubblico – il precetto non solo creava emarginazione sociale, ma rendeva difficile proprio trovare lavoro perché nessuno si fidava di un precettato. Non a caso il problema se abolire o soltanto riformare in senso garantista l’istituto del precetto fu una delle questioni più rilevanti di cui dovette farsi carico il governo provvisorio del 1831 [Hughes 1994].
Per i ragazzi di entrambi i sessi per correggere i quali non si ritenevano sufficienti un’ammonizione, più o meno acre, o pochi giorni di guardina, perché il loro comportamento era troppo grave oppure erano recidivi o avevano infranto un precetto, si applicava la reclusione nella casa di correzione per un periodo che, a seconda delle circostanze e del comportamento del recluso, poteva durare solo pochi giorni o prolungarsi per anni. Nel discolato, luogo al contempo di punizione, prevenzione, rieducazione morale e avviamento al lavoro, vigeva un regime severo, per certi aspetti più restrittivo e duro di quello applicato nelle carceri non di rigore. I reclusi non potevano avere alcun contatto con il mondo esterno, neppure con i genitori, per tutta la durata della loro permanenza nel correzionale, né potevano ricevere denaro, cibo, vestiti, tutte cose che invece ai detenuti nelle carceri erano in genere concesse. Erano inoltre tenuti a lavorare tutti i giorni, tranne la domenica interamente dedicata alla messa e ad altre pratiche religiose, dalle otto alle dieci ore a seconda della stagione. Il lavoro – l’attività principale era la lavorazione della canapa e del cotone, ma si tentò anche di introdurre quella della lana e del cuoio, con scarso successo – si svolgeva all’interno del discolato in due sale appositamente attrezzate.
I discoli erano divisi in cinque classi, a seconda del loro comportamento: quelli della prima non percepivano nulla dal proprio lavoro che andava ad esclusivo beneficio dell’istituto; quelli della seconda, della terza, della quarta percepivano rispettivamente un quarto, un terzo e la metà del ricavato, che non veniva loro versato immediatamente, ma solo alla fine della detenzione. Anche la durata della permanenza nel discolato dipendeva dal comportamento del recluso, che veniva diligentemente annotato sul suo libretto personale, e sul quale un ispettore di polizia distaccato presso il correzionale stilava un rapporto mensile che inviava alla Direzione provinciale di polizia. Ogni mese si riuniva un Consesso di Sindacato, di cui facevano parte il direttore del discolato, l’ispettore di polizia, il sovrintendente ai lavori e l’amministratore della casa di lavoro volontario, attivata nei locali dello stabilimento, per valutare il comportamento e decidere l’avanzamento o retrocessione di classe dei discoli. Al momento della dimissione all’ex recluso veniva consegnato un attestato per così dire di “riabilitazione” che gli avrebbe consentito di trovare un lavoro. Gli ex discoli che non riuscivano a trovare un lavoro e un tetto, avevano il diritto di rimanere a lavorare nella casa di lavoro volontario e costituivano la quinta classe che riceveva lo stesso trattamento salariale della quarta. Ogni mancanza disciplinare o negligenza nel lavoro era punita severamente con la segregazione, la restrizione del regime alimentare – privazione di vino e carne, dieta a pane e acqua anche per quindici giorni – con decurtazioni del salario, con il prolungamento della detenzione o, nei casi più gravi, con la fustigazione [Delneri 2008].
Come abbiamo visto nel decreto di erezione del 1822 non si faceva alcun riferimento all’età dei soggetti passibili di essere rinchiusi nella casa di correzione – il termine «discolo» si applicava a persone di qualsiasi età – individuati invece rispetto al tipo di comportamenti, tutti “devianti” e a rischio, ma non tali da essere sanzionati penalmente. Tuttavia durante gli anni ’20 nel discolato finirono soprattutto ragazzi e ragazze fra i 10 e i 20 anni distinti in «discoli politici» – bambini e giovani fermati dalla polizia per vagabondaggio, o perché sospettati di essere dediti al furto o alla prostituzione – e «discoli di famiglia», rinchiusi su istanza di famigliari[31]. In realtà in non pochi casi, per iniziativa della polizia, nel discolato furono collocati anche ragazzi e ragazze che non avevano commesso alcuna mancanza ma semplicemente non avevano nessuno che si occupasse di loro e per i quali non si riusciva a trovare una sistemazione nella Casa di ricovero o negli altri istituti assistenziali cittadini, sempre sovraffollati, come segnalava il marchese Giovan Paolo Borelli Poggiolini, direttore della casa di correzione dalla sua istituzione fino al 1830, denunciando la difficoltà di «provvedere d’impiego, e mezzi di sussistenza quei reclusi che privi di parenti, e di privati appoggi da lungo tempo si trovano racchiusi, e bensì anco lo furono al solo oggetto di toglierli alla miseria»[32].
L’editto del 29 luglio, per evitare «arbitri che potessero turbare la libertà civile individuale», prescriveva che nessuno poteva essere chiuso nel discolato se non in seguito a decreto emesso da una Commissione speciale straordinaria – composta dal legato o da un suo rappresentante, dal direttore provinciale di polizia, da un giudice criminale e da un difensore d’ufficio – che avrebbero valutato le prove raccolte dalla polizia e deciso con procedimento sommario. In realtà la commissione funzionò solo per i primi due anni, dopodiché le reclusioni finirono per essere decise esclusivamente dalla Direzione di polizia, sentito il parere del Legato. La maggior parte dei fascicoli contengono appunto la documentazione raccolta dalla polizia per decidere o meno di accogliere istanze di reclusione nel discolato avanzate da famigliari. Solo nel 1833, nel quadro di una più generale ridefinizione dei poteri della polizia, la Commissione fu ricostituita, ma ormai i casi ad essa sottoposti erano non più di quattro o cinque l’anno.
Storia di un fallimento
Infatti il numero dei reclusi nel discolato, circa un centinaio nei primi anni di funzionamento, diminuì gradualmente ma costantemente fino ad attestarsi sulla decina di unità, quasi tutte ragazze, alla fine degli anni 30[33]. Al momento della chiusura formale dello stabilimento decisa solo nel 1849, Filippo Agucchi, presidente dell’Amministrazione provinciale che da lungo tempo sosteneva la necessità di porre fine ad una esperienza costosa e fallimentare, sottolineò che esso da anni esisteva solo sulla carta[34].
Il discolato infatti aveva rapidamente perso la sua connotazione originaria di correzionale per minori e si era trasformato in un contenitore generico chiamato a supplire alle carenze di altre istituzioni e rispondere ad esigenze diverse e sempre più inconciliabili: istituto carcerario sussidiario utilizzato per accogliere detenuti in «deposito» – in attesa cioè di giudizio – o condannati a pene detentive non superiori ad un anno, oppure detenuti scarcerati dopo aver espiato la pena, ma rinchiusi nel discolato per misura cautelativa di polizia; ospedale celtico per prostitute affette da malattie veneree e ospedale militare per i soldati austriaci di stanza a Bologna dopo i fatti del 1831; dormitorio per precettati privi di fissa dimora, casa di lavoro volontario sussidiaria di quella di Industria istituita nel 1816, ormai insufficiente. La concentrazione di tante diverse funzioni negli spazi pur ampi del discolato aveva sostanzialmente vanificato lo scopo specifico per cui era stato istituito, che era quello di rieducare e redimere bambini e ragazzi a rischio, avviati sulla strada del vizio e del crimine, ma non del tutto traviati, attraverso la loro assoluta segregazione in un ambiente impermeabile alle tentazioni del mondo esterno. Il sovraffollamento rendeva inevitabile la promiscuità dei giovani discoli con prostitute, soldati, precettati, detenuti ed ex ergastolani incalliti nel crimine, anche perché il personale di sorveglianza, sottopagato e composto prevalentemente da ex militari invalidi dimessi dal servizio attivo e guardie carcerarie anziane e prossime alla pensione, non era in grado di controllare la situazione. Il problema fu segnalato alle autorità della Legazione e di polizia con quasi ossessiva ripetitività sia da Borelli, sia dai suoi successori Gaetano Marchesini e Giuseppe Torri, che ricevevano sempre la stessa risposta: le loro erano lagnanze giustificate, ma non si poteva fare diversamente.
Dopo l’iniziale entusiasmo, lo stesso Borrelli e il suo infaticabile collaboratore Ludovico Michelini, cominciarono presto a manifestare perplessità sulla validità della formula. Apertamente scettico, sin dall’inizio della propria direzione, si mostrò Marchesini, che sconsigliava permanenze troppo lunghe nella casa di correzione, costose per l’istituzione e assolutamente inutili, se non controproducenti, ai fini della rieducazione dei reclusi: «alle volte una troppo prolungata reclusione, non porta al corrigendo che una maggiore asprezza, ed aumento dell’ira nell’animo suo, e quindi cattiveria e insubordinazione, anco a svantaggio e mal esempio de gli altri»[35]. Troppi erano i casi di discoli dimessi dopo aver mostrato chiari segni di pentimento e redenzione che tornavano nel discolato dopo pochi mesi oppure finivano direttamente in galera.
La causa della frequenza dei casi di recidiva era molto semplice. Fuori della casa di correzione la maggior parte degli ex reclusi trovava esattamente quello che aveva lasciato: situazioni di abbandono, degrado e miseria. Gli sforzi appassionati di Borelli e di Michelini per trovare una sistemazione e un lavoro ai ragazzi e alle ragazze che lasciavano la casa di correzione, erano spesso frustrati dall’oggettiva situazione economica e dalla diffidenza nei confronti di giovani che venivano in ogni caso considerati alla stregua di ex detenuti. Nel giugno del 1830 l’ingegnere capo della Legazione Pietro Pancaldi segnalava al Legato la disastrosa situazione della manifattura bolognese e in particolare dell’industria della canapa che aveva gettato sul lastrico migliaia di operai: lavori pubblici, Casa di industria e di ricovero, con le risorse di cui disponevano, non erano più in grado in grado di impiegarli tutti[36]. Un mercato del lavoro così asfittico difficilmente poteva assorbire gli ex reclusi della casa di correzione e perciò, sempre più spesso col passare degli anni, si dovette ammetterli a lavorare nella sala di lavoro volontario acclusa al discolato. Presto però il numero dei beneficiati divenne così grande che, contrariamente a quanto disposto dal regolamento, fu inevitabile concedere loro di lavorare nelle proprie abitazioni, percependo un salario ridotto e gravando così meno sulle deboli risorse finanziarie dell’istituto, ma dando anche luogo a numerosi abusi.
Oltre al sovraffollamento, fu infatti soprattutto la scarsezza dei fondi di cui poteva disporre a determinare il fallimento del discolato. Le sue entrate provenivano dalla Provincia, dal governo centrale, dai proventi del lavoro dei reclusi e dalle rette pagate dai parenti dei «discoli di famiglia». Queste ultime si rivelarono subito una fonte di entrata del tutto illusoria. La maggior parte dei parenti dei «discoli di famiglia» si dichiarava miserabile e impossibilitata a pagare e i controlli affidati alla polizia dimostravano che quasi sempre era proprio così[37]. Di conseguenza si scelse di limitare al massimo l’ammissione e la durata della reclusione dei ragazzi orfani o più poveri, cioè proprio di quelli maggiormente a rischio. Anche i proventi del lavoro dei reclusi si dimostrarono inferiori alle attese. Più volte Borelli dovette difenderne la qualità dalle proteste degli appaltatori, ma il suo successore Marchesini dovette ammettere che le «manifatture di cotoneria fatte dai lavoratori detenuti corrigendi sono di pessima qualità, per le tinte di colori non fini, per cattivo disegno, per inesperienza», motivo per cui ci si doveva rassegnare o a perdere le commesse, o ad accettare un pagamento molto inferiore al valore di mercato[38]. Nel 1827 la Tesoreria generale sospese le sue contribuzione, sostenendo – era vero come abbiamo visto – che il discolato non svolgeva più i compiti per cui il governo aveva deciso di finanziarlo[39]. Di conseguenza tutto l’onere ricadde sulla Provincia, già gravata dalle spese per il mantenimento del sistema assistenziale e caritativo. Le pressioni esercitate dalla Commissione amministrativa provinciale sui Legati e sulle autorità di polizia per ottenere l’abolizione del discolato, o quantomeno una drastica riduzione della sua attività, divennero continue agli inizi degli anni ’30[40], e come abbiamo visto, alla fine ebbero successo.
Le difficoltà economiche si tradussero inevitabilmente in un peggioramento delle condizioni materiali dei reclusi, invano denunciate dai direttori: diminuzione delle razioni alimentari, condizioni igieniche pessime, mancanza di biancheria di ricambio e di indumenti pesanti adatti all’inverno. Nel 1826 Borelli segnalò al legato Giuseppe Albani che, con il vitto che ricevevano, i reclusi non erano in grado di lavorare le ore prescritte e si ammalavano. Il Legato gli rispose che la Provincia non era disposta ad aumentare il suo stanziamento e che l’unico suggerimento che si sentiva di dargli era di diminuire la razione dei detenuti più giovani, per aumentare quella degli adulti[41]<. Lo stesso personale del discolato lavorava in condizioni penose: «il misero e lacero vestiario che indossano le guardie di questo stabilimento, per cui molte volte distinguer non si lasciano dai condannati qui reclusi: e il disdoro che per tale indecenza ne viene alla stessa casa di correzione», denunciava Marchesini nel 1831[42].
In realtà quello del discolato fu solo un aspetto del più generale fallimento dei progetti di palingenesi sociale dei primi anni della Restaurazione, alimentati dal riformismo consalviano, generosi ma troppo ambiziosi rispetto alle risorse dello Stato pontificio, e sostanzialmente estranei alla mentalità di gran parte del ceto dirigente ecclesiastico, più incline al conservatorismo quando non apertamente reazionario [Demarco 1949; Caravale, Caracciolo 1979]. Nel gennaio del 1817 Lante annunciava con ottimismo «La grande operazione avanza ogni giorno, e progredisce a poco a poco verso il suo termine». Pochi mesi dopo doveva già ammettere che purtroppo la piaga dell’accattonaggio non era stata estirpata e anzi tornava ad aggravarsi. Le Case di ricovero e di industria, i lavori pubblici non bastavano a sfamare tutti gli indigenti e i disoccupati. Dopo l’iniziale entusiasmo la carità dei bolognesi si era molto raffreddata, la tassa dell’esportazione del riso non dava il gettito sperato, il governo centrale, dopo aver contribuito con oltre 100.000 scudi, si dichiarava impotente a fornire ulteriori aiuti[43]. Dieci anni dopo Albani constatava che la città era piena di oziosi, vagabondi e accattoni, che il numero dei sedicenti facchini era triplicato rispetto agli anni precedenti, che gli istituti assistenziali cittadini erano strapieni e che dunque i parroci dovevano inculcare nei fedeli che l’ammissione alle Case di ricovero e di industria non era un diritto, ma una concessione che faceva il governo solo a coloro che venivano giudicati assolutamente miserabili[44]. Gravissima era poi la situazione di sovraffollamento delle carceri determinata dalla diffusione del crimine, ma anche dalla lentezza ed inefficienza del sistema giudiziario e dai conflitti di competenza con la Direzione di polizia [Angelozzi, Casanova 2010b].
Alle critiche della Tesoreria generale che minacciava – come abbiamo visto – di sospendere, come poi fece, la sua contribuzione al discolato, Albani rispose con una lunghissima lettera, in cui, ammettendo senza difficoltà che in effetti la Casa di correzione aveva perso la sua fisionomia originaria, giustificò però pienamente le scelte fatte, tratteggiando un quadro desolante della situazione cittadina.
L’ottimismo un po’ utopico dei primi anni della Restaurazione aveva lasciato campo al più cupo realismo e la polizia era ormai chiamata a dedicare tutte le sue energie, più che alla correzione e rieducazione dei giovani a rischio, alla repressione del crimine e della dissidenza politica.
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Note
[1] Archivio di Stato di Bologna, Stampe governative, vol. 100, nn. 112 e 142.
[2] Ivi, n. 153.
[3] Ivi, vol. 104, n. 169.
[4] Cfr. Della Peruta 1976; Sori 1982; Davis 1989; Zamagni 2000.
[5] Ivi, n. 307.
[6] Ivi, n. 305.
[7] Ivi, vol. 109, n. 3.
[8] Ivi, vol. 121, n. 257.
[9] Ivi, n. 275.
[10] Sul titolario del fondo di polizia negli anni della Restaurazione: Grantaliano 2006.
[11] Polizia, Atti generali, 1822, titolo X, rub. 27.
[12] Ivi.
[13] Polizia, Atti generali, 1826, titolo X, rub. 27.
[14] Polizia, Atti generali, 1822, titolo X, rub. 27.
[15] Polizia, Atti generali, 1833, titolo X, rub. 27.
[16] Polizia, Atti generali, 1820, titolo X, rub. 27.
[17] Polizia, Atti generali, 1822, titolo X, rub. 27.
[18] Polizia, Atti generali, 1826, titolo X, rub. 27.
[19] Cfr. Shorter 1975; Cozzi 1976; Stone 1977; Barbagli 1984; Casanova 1998; Bizzocchi 2008; Lombardi 2008.
[20] Polizia, Atti generali, 1824, titolo X, rub. 27.
[21] Polizia, Atti generali, 1820, titolo X, rub. 27.
[22] Polizia, Atti generali, 1839, titolo X, rub. 27.
[23]Ivi..
[24] Ivi.
[25] Cfr. Demarco 1949; Santoncini 1981; Hughes 1994; Bartoccini 1986; Antonielli 2002; Antonielli, Donati 2003.
[26] Polizia, Atti generali, 1832, titolo X, rub. 27.
[27] Polizia, Atti generali, 1837, titolo X, rub. 27.
[28] Polizia, Atti generali, titolo I, 1837.
[29] Polizia, Atti generali, titolo I, 1839.
[30] Polizia, Atti generali, 1839, titolo X, rub. 27.
[31] Casa provinciale di correzione, titolo I, registro 1.
[32] Legazione, Atti generali, 1824, titolo XX.
[33] Casa provinciale di correzione, titolo I, registro 1; Polizia, Atti generali, 1838, titolo VIII, rubrica 6.
[34] Legazione, Atti generali, 1849, titolo XX, busta I.
[35] Legazione, Atti generali, 1832, titolo XX.
[36] Legazione, Atti generali, 1830, titolo XX.
[37] Legazione, Atti generali, 1823 e 1824, titolo XX.
[38] Legazione, Atti generali, 1831, titolo XX.
[39] Legazione, Atti generali, 1827, titolo XX.
[40] Legazione, Atti generali, 1833 e 1834, titolo XX.
[41] Legazione, Atti generali, 1826, titolo XX.
[42] Legazione, Atti generali, 1831, titolo XX.
[43] Stampe governative, vol. 110, n. 151.
[44] Stampe governative, vol. 135, n. 311.