Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Sviluppo e territorialità. Temi di formazione di una scuola di dottorato

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Criteri di costruzione dei testi[1]

La Summer school 2009 del dottorato Storia e Geografia d’Europa dell’università di Bologna è stata pensata non come tappa di discussione delle ricerche in corso, ma come percorso di formazione interno al dottorato.[2]

In questo ambito il lavoro di formazione è concepito nella stesura di un testo di alta divulgazione. Questo compito ha segnato un allargamento del programma formativo abitualmente seguito. Si è chiesto ai dottorandi di misurarsi, a partire dalla conoscenza del proprio argomento, su temi più generali. La congiunzione tra le competenze intorno a un tema specifico e gli sviluppi in ambito più allargato sono approcci diffusi nel mondo anglosassone.

L’obiettivo del percorso di formazione mira a toccare due livelli. Nel primo livello si attesta la capacità di esposizione: anche il tema più complesso deve essere redatto con chiarezza e invogliare i non esperti alla lettura.

Nel secondo livello c’è una finalità di natura scientifica: insegnare a non isolare la ricerca nell’iperspecializzazione e nella segmentazione eccessiva del tema, ma al contrario leggere il tema, laddove è possibile, nelle sue risultanze più generali, dentro a comparazioni e connessioni tematiche, territoriali, disciplinari. I lavori iperspecialistici procedono su una linea retta, senza curarsi di ciò che sta accanto. La conseguenza più immediata è la marginalizzazione editoriale della ricerca che, su una mole di lavori più ampi, produce l’isolamento di settori di ricerca all’interno dello stesso mondo scientifico. Non è un caso – guardando alla storia contemporanea ad esempio - che la storiografia italiana, rispetto a quella britannica, a quella tedesca e anche a quella francese, stenti a varcare i confini nazionali, con un numero decisamente minore di lavori italiani tradotti all’estero.

Poste queste premesse, al dottorando è stato richiesto di redigere un breve saggio di ventimila caratteri (note e link esclusi) e di declinare il proprio tema misurandolo con il tema della Summer school: Dinamiche dello sviluppo, dinamiche della territorialità.Il taglio di alta divulgazione non ha implicato l’assunzione acritica delle fonti né tantomeno la rinuncia al confronto con la comunità scientifica. I testi sono stati confrontati con i membri del collegio del dottorato, con due discussant esterni per ogni relazione e, per essere pubblicati su “Storicamente”, i saggi sono stati sottoposti all’abituale sistema di referaggio praticato dalla rivista. La stesura finale dei contributi filtra questo complesso insieme di sollecitazioni.

Il percorso di lettura, proposto in questa introduzione, non esaurisce i rimandi tematici e le implicazioni contenute all’interno dei 13 saggi proposti. Gli studiosi si sono dimostrati capaci di afferrare idee e problemi nonché di porsi, almeno in parte, in relazione tra loro.

1989 – 2009: identità e globalizzazione

Un primo corpo di sei saggi finisce inevitabilmente per misurarsi con altri due temi chiave della contemporaneità: globalizzazione e identità

Vale la pena rimarcare che 6 contributi su 13 si soffermano sul ventennio 1989 – 2009 muovendo da temi diversi e da discipline quali la storia o la geografia. Il dato mostra, con lampante evidenza, l’interesse dei giovani ricercatori sui temi della storia più recente, a cui fa invece da sfondo la ritrosia degli storici più affermati a misurarsi sulle tematiche più vicine ai nostri giorni. Lo storico già formato predilige percorsi apparentemente chiusi, non si addentra nella storia recente nel timore che le sue categorie interpretative franino prematuramente di fronte alle troppo rapide evoluzioni  degli eventi. Eppure l’approccio storico è prevalentemente concepito da questo gruppo di studiosi come strumento per capire il presente, così come, per sondare la realtà, la geografia, più ancora della storia, si lega alla sociologia e ai communication studies.

Globalizzazione e identità si pongono tra loro in rapporto conflittuale e dinamico: l’avanzare della globalizzazione implica una ridefinizione dell’identità.

Gli scenari ricostruiti nelle relazioni affrontano l’incomposta tensione fra identità e globalizzazione da punti di vista apparentemente lontani, ma comparabili: le tematiche della memoria si incrociano con quelle della ricostruzione urbanistica, la città con il territorio rurale che progressivamente invade, la crescita con le teorie della decrescita - concepite come vie di uscita di un processo incontrollabile, i ceppi nazionali con l’integrazione europea e le sue rappresentazioni. Nello specifico le dinamiche della territorialità rimandano a pratiche di riterritorializzazione che lo sviluppo post moderno implica.

a) Memoria e spazio urbano

Un tema vasto, i memoriali della Shoà (Frida Bertolini), dinanzi ad un’analisi tecnica, territorialmente ristretta, sui meccanismi di governo del territorio urbano (Francesca Ruocco) si scioglie in una decodificazione dei meccanismi decisionali.

Il saggio di Frida Bertolini, I memoriali della Shoà in Europa e negli Stati Uniti, ha le caratteristiche di quello che potrebbe essere uno studio classico: un tema di interesse generale, coniugato su più dimensioni territoriali, arricchito da un corpo di nuove interpretazioni. La Bertolini si cimenta con uno tra i temi più dibattuti della contemporaneistica, i cui riflessi riguardano l’autorappresentazione di ciascun popolo di fronte alla tragedia dello sterminio degli ebrei. Comparazioni territoriali ed evoluzioni della memoria, con particolare attenzione a ciò che è accaduto dopo il 1989, contraddistinguono il livello di questo saggio che spazia attraverso Berlino, si sposta a Est, a Varsavia e in Ucraina a Babij Jar, guarda oltre Atlantico, a New York, senza dimenticare Gerusalemme. In mezzo la diversa tipologia del ricordo tra Prima e Seconda guerra mondiale, l’evoluzione del concetto di museo, la questione – irrisolvibile – legata alla natura del monumento: in che termini il monumento fissa la memoria, come stimola la riflessione, o se, viceversa, ipostatizza ciò che c’è e spinge progressivamente all’oblio. Suscita interesse l’idea di James Young sui contro monumenti, una sorta di memoriali in divenire, incompleti per definizione. I luoghi di memoria sono visti nella loro funzione di centro di competizione politica, con le omissioni storiche che ciò comporta, e con il continuo riadattatamento della memoria che sfocia, con l’allungamento del tempo, nella post memoria, ovvero nella memoria in assenza di testimoni. Tra le suggestioni che offre il saggio della Bertolini, l’idea di storia come bacino di un’identità sociale (in divenire e modulata dai tempi), idea di storia e del passato che non esita a prolungarsi verso il futuro attraverso i monumenti e la vivificazione degli spazi. Nessun periodo segna un’eccezione rispetto a questa norma.

Il contributo della geografa Francesca Ruocco su La pianificazione strategica come strumento per il governo del territorio è in parte connesso con il saggio di Frida Bertolini.  La Ruocco focalizza le sue osservazioni a partire dagli anni Ottanta del Novecento sino a giungere al termine del primo decennio del 2000. Per quanto il contributo sia incentrato su Bologna, la Ruocco mette in evidenza la trama comune che lega il governo delle principali città europee progressivamente passate dai rigidi piani regolatori urbanistici, come erano ancora concepiti negli anni Ottanta, a strumenti più flessibili e di indirizzo quali sono i piani strategici. Il passaggio fra questi due strumenti operativi non è neutro né sono indifferenti le ricadute sul territorio.[3] Dentro a questa ottica post moderna, trovano spazio opere architettoniche imponenti e spettacolari. Il fine è quello di lasciare un segno del proprio passaggio e della propria epoca, connaturando e identificando il territorio. La Ruocco suggerisce la natura di questi processi decisionali volti a “promuovere consenso e legittimazione intorno all’idea di città che si intende costruire”. Teoricamente non si tratta di un consenso allargato da raggiungere in un Consiglio comunale, ma di un confronto, attraverso i Forum, con i cittadini, le associazioni e gli attori sociali, un confronto che recuperi la frammentazione (post moderna) della rappresentanza. E’ proprio attorno a questa dinamica che si muove il complesso dibattito che ha animato la costruzione a Berlino di un’imponente memoriale della Shoà, concepito come una nuova caratterizzazione della città europea maggiormente mutata nel ventennio 1989 – 2009, ed espressione del simbolo più condiviso, la Shoà, dell’allargata Unione Europea. Per quanto Berlino non abbia lesinato a dispensare dimensioni monumentali ai suoi nuovi palazzi, la concezione di grandezza e visibilità del memoriale della Shoà ha subito le controverse valutazioni di politici e associazioni che hanno prodotto un ridimensionamento del monumento, nell’altezza e nell’estensione, rispetto al progetto originale (Bertolini).[4]

b) Paesaggi e critiche della crescita

Al lato opposto della dimensione urbana si colloca l’area rurale, anche questa analizzata da Roberta Borghesi a partire da una dimensione di ricerca coeva.[5] Allo stesso modo è connaturato alla ricerca delle specificità identitarie anche il contributo di Massimiliano Capra Casadio su La Nuova destra: visioni economiche ed identità territoriali. Pur nella diversità dell’oggetto di partenza, il paesaggio per la Borghesi e la nuova destra per Capra, i due saggi si collocano su una linea speculare il cui condotto comune è critica dell’homo oeconomicus capitalista. Sia Capra che Borghesi mostrano attenzione alla dimensione psicologica del consumo, sociologicamente connaturato alla proiezione del sé. La dimensione ideologica della nuova destra francese rifiuta l’economia marginalizzandola, mentre l’ecologismo evocato dalla Borghesi, e attivo su alcune microaree, rimanda a un approccio responsabile verso il territorio, per quanto Borghesi osservi che le possibilità di un’economia alternativa (sobria, etica e solidale) restino embrionali, schiacciate dall’espansione della città che si allarga, non tanto nella densità abitativa, ma nel modello di strutture che chi si allontana dalla città finisce per richiedere.[6] Il saggio evoca il centro come grande assente. Senza entrare nel merito di giudizi di valore, si ripensi alla funzione, anche in rapporto allo spazio, del triangolo industriale il quale ha funzionato da centro economico e geografico. La post modernità ha privato l’economia italiana di questo fulcro segnando anche la fine della grande impresa (altro elemento che connatura il centro). A giudizio dello storico economico Giulio Sapelli, l’assunzione di un centro come punto di propulsione resta vitale anche nella postmodernità che richiede energie concentrate.[7] La città espansa, ma fondamentalmente decentralizzata che Borghesi analizza è una ricaduta (fino a che punto governata?) della globalizzazione. Il calo della popolazione riscontrato da Bologna (che non è il solo tra i principali centri urbani in Italia a perdere abitanti) si colma con un aumento della popolazione dei comuni, ora non più soltanto della prima ma della seconda cintura periferica. Rispetto al passato non c’è un’integrazione di questi abitanti nelle dinamiche dei nuovi territori (come accadeva un tempo per gli agricoltori), ma emergono nuovi tipi di esigenze “urbane”, mentre saltano gli equilibri ecologici e digradano le risorse locali, ragione non ultima del declino dell’agricoltura tradizionale. Lo schema interpretativo di Borghesi ammicca a ipotesi di decrescita latousciana o, quantomeno, al ristabilimento di equilibri nel quadro di una crescita più lenta. E’ altrimenti il riflesso di ciò che Capra Casadio riscontra nel pensiero francese della nuova destra che, dagli anni Ottanta, osserva il percorso di crescita dell’economia mondiale in una prospettiva esente da ampi obiettivi, se non quelli della propria sopravvivenza e della propria espansione. Siamo di fronte a un circuito che, per strade diverse, approda ancora al mostro metaforico di Serge Latouche L’occidentalizzazione del mondo] , la mega macchina tecno-socio-economica, priva di guidatore, nociva per le culture nazionali e i legami sociali.

c) Europa / Europe

Gli stati occidentali lamentano una attenuazione delle proprie identità nazionali e sono attraversati da correnti di pensiero, trasversali ai tradizionali schieramenti politici,  che cercano di guardare oltre il flusso dell’economia globale capitalista. All’opposto, a rimarcare un processo ritardato, ma celere nel suo recupero,  si trova il versante Est del continente europeo che, dopo l’89, ha rimesso al centro della sua proiezione di sé, consumo e questione etnica. Il tema è affrontato da Matteo Varani nel saggio sugli ultimi vent’anni dell’Estonia intitolato Comunità linguistiche, professioni e sviluppo nell’Estonia post-comunista La relazione tra apertura al mercato e questione etnica contiene un’insita contraddizione in quanto adottando il libero mercato l’Est si è aperto alla globalizzazione economica occidentale che progressivamente mette a margine la questione nazionale, pur con contraccolpi non secondari.

In Estonia la fine del sistema comunista e di una ideologica sovietizzazione, ha portato alla riemersione dei temi etnici, non compiutamente risolti nell’Europa dell’Est nella prima metà del Novecento. La parte Est dell’Europa è quella che ha conosciuto le maggiori variazioni territoriali sia in conseguenza della Prima guerra mondiale, sia in conseguenza della Seconda. In entrambi i dopoguerra si è assistito a rivendicazioni nazionali sopite o per ragioni commerciali (è il caso dell’Ungheria negli anni Venti descritta da Antonio Gambino)[8] o per ragioni di geopolitica, come accade nel 1945 all’Estonia che perde la sua indipendenza e viene sovietizzata.

Il federalismo, comunisticamente ideologizzato, era stato il collante anche della Jugoslavia, tragicamente dissolta, e sulle cui ceneri si è misurata l’inconsistenza politica dell’Europa. Meno drammatiche sono state le conseguenze della dissoluzione nei territori baltici dell’ex Unione Sovietica.

La crescita dell’economia estone, di per sé un ammortizzatore di tensioni etniche, non ha risparmiato aspetti aggressivi nella politica delle nazionalità, in particolare nei confronti della minoranza russa, i cui diritti sono stati assegnati (con contraddizioni legislative nel corso del tempo) in cambio della loro estonizzazione, unica chiave per possedere i requisiti necessari all’ascesa sociale di quello che è diventato uno dei paesi più capitalisti dell’Europa. Come in ogni luogo anche in Estonia affiora una visione strumentale, quando non inventata della nazionalità, con mutazioni interessanti nella gerarchia delle professioni; alla perdita di status degli ingegneri, legati alla precedente visione sovietica dell’economia, si pone come contraltare l’ascesa dei medici e soprattutto degli architetti che hanno ridisegnato le città dell’Est, dato loro nuovi simboli, senza dimenticare la funzione di volano del liberalizzato mercato immobiliare.

Di fronte alla costruzione di un’identità nazionale, forzatamente provvisoria dato l’incedere degli eventi, ma legata anche a un’identità immaginata, Emanuele Frixa estende questo concetto alle cartografie dell’Europa a 25 Paesi. Nel saggio Prime riflessioni sulla costruzione infografica dell'Europa, Frixa assume come fonte i principali quotidiani europei e il portale web Europa. Riprendendo i paradossi di David Morley, Frixa si chiede quanto ciò sia ancora geografia, per poi condurre il lettore dentro a una geografia della comunicazione, dove le mappe sono innestate dentro a mezzi di comunicazione autorevoli e largamente fruiti, mezzi ovviamente non neutri a partire dalle forme di impaginazione e di evidenziazione.

In questo percorso di identità e globalizzazione, partito dai memoriali della Shoà e arrivato all’infographics, il rimando comune è quello della riterritorializzazione che può essere espressa materialmente, con una monumentalizzazione dello spazio, o anche più semplicemente, ma non meno efficacemente – come dimostra Frixa – la riterriteriolizzazione può anche essere immaginata grazie alla suggestione e alla divulgazione di semplici carte geografiche. Il “prezzo” lo paga anche la geografia che da “un’apparente oggettività della rappresentazione”  diventa un “dispositivo retorico” per riprodurre un discorso politico e una nuova forma di rappresentazione spaziale.[9]

La dinamicità degli Stati. Alcuni esempi tra Venezia e il Regno d’Italia (XVIII° - XIX° secolo)

Dagli studi sulla Repubblica veneziana nel XVIII° secolo (Andrea Pelizza) e da quelli sugli ingegneri militari in età napoleonica (Lorenzo Cuccoli) emergono pienamente dinamicità e progettualità dello sviluppo. Per quanto attiene alla Repubblica veneziana, il declino dei commerci, e di conseguenza delle fortune dello Stato, non è lineare e univoco nel corso del Settecento. Il declino è riscontrabile in rapporto alle precedenti fortune della Repubblica veneziana, ma non si evince dalla capacità decisionale del suo governo e dalle strategie adottate per rianimare il commercio. Nel saggio Venezia e il riscatto degli schiavi nella prima metà del Settecento, Andrea Pelizza mette in evidenza la rinuncia veneziana all’azione militare contro la pirateria nord africana, variazione di strategia quanto coscienza di un limite, nel quadro di condizioni interne e internazionali progressivamente più difficili. Venezia è ancora in grado di compiere rilevanti investimenti per garantire la sicurezza e il rilancio delle sue navigazioni commerciali. A partire dagli anni Trenta del Settecento la repubblica veneziana risolleva i suoi commerci, continuando a dimostrarsi dinamica e garantendosi altri due decenni proficui. I commerci vengono garantiti da nuovi bastimenti dotati di 24 cannoni, costruiti dagli armatori ai quali lo Stato non manca di garantire ampie agevolazioni. La presenza dello Stato si avverte anche nelle strategie poste in atto per la liberazione dei sudditi veneti, o di persone al servizio di Venezia, tratte in arresto nelle coste nordafricane. Nel secolo della nascita della nazione moderna, Venezia è ancora lungi da integrare ogni individuo nella comunità politica, ma adotta strategie di difesa dei sudditi nei confronti degli Stati esteri che appartengono al comportamento di uno Stato moderno.

Con un’ottica di ancora più ampia prospettiva si muove l’Italia napoleonica dove demolizioni, ridefinizione degli spazi, nuove reti viarie incrociano strategie belliche e necessità amministrative in un quadro allargato e d’insieme, rimasto sino a quel momento estraneo agli Stati italiani d’ançien régime. Siamo di fronte alla prima emersione dello Stato amministrativo e alla sempre più stretta congiunzione tra politica e armi, rilevanti passaggi di costruzione del mondo moderno.[11] La figura cruciale per queste esigenze è quella degli ingegneri-geografi chiamati dalla duplice necessità, amministrativa e militare, a mappare il territorio. L’ambito militare e civile appaiono strettamente connessi, incarnati da queste figura professionale - l'ingegnere militare – “mediatore tra Stato e privati, tra Stato e società, incaricato di disciplinare il progresso” (Lorenzo Cuccoli).[11] Un lascito di esperienze e tecniche reimpiegato nell’Italia dei decenni successivi, si pensi ai piani di costruzione e sventramento di Roma e Milano, dentro all’humus culturale di una classe dirigente molto attenta a quello che succede nei principali Stati europei.[12] Questa lettura porta Cuccoli ad inserirsi in un solco interpretativo che ridimensiona il valore di cesura del 1815 per enfatizzare il nesso di istituzioni, personale e competenze con l’età napoleonica.[13]

Il processo di decollo economico e di nazionalizzazione degli Stati europei si scontra con rivendicazioni politiche e sociali che hanno nella capitale della Francia la loro anticipazione. La mappa delle barricate che delinea Michele Toss nel saggio Protesta sociale e territorio a Parigi (1830 – 1848) non è soltanto il frutto dei processi di sviluppo economico, ma è soprattutto inserita e comprensibile alla luce della solidità del tessuto associativo. Toss esplora un’area urbana del tutto peculiare - quella parigina della microindustria -, con aspettative (democrazia o rivoluzione?), memoria storica e forti reti di vicinato solidale che anticipano di mezzo secolo, senza raggiungere la stessa intensità, analoghe esperienze di rivolta urbana in Italia.[14]

Dentro a questi contesti, lo sguardo del geografo Federico Ferretti Articolazione costiera ed egemonia europea nella geografia del XIX° secolo, tenta di offrire una macrolettura, spaziale e temporale, della dinamicità economica degli Stati europei. Riprendendo la comparazione tra Cina ed Europa di Jared Diamond[15], Ferretti condivide l’idea che alla base dello sviluppo europeo ci sia stata anche la frammentazione statale del continente europeo, del quale la Repubblica veneziana e il Regno italiano di impronta napoleonica possono essere inseriti fra i numerosi modelli. In particolare, la frammentazione statale è stata favorita dalla conformazione del continente europeo, con le sue grandi isole (la Gran Bretagna), con le sue penisole e le sue catene montuose che hanno impedito un’ampia centralizzazione statale sul modello cinese, ma che ha permesso la circolazione delle idee e la competizione economica, aspetti, di contro, sempre più scarni nella Cina dei secoli XVII e XVIII che ne determinano la decadenza. Articolazione costiera e navigazione si pongono come premesse alla base dei commerci e della guerra, schema più aderente all’Europa occidentale che culmina con l’imperialismo del XIX° secolo.

Donne nella grande trasformazione (l’Italia dagli anni Cinquanta agli anni Settanta)

Due saggi indagano l’universo femminile con tagli metodologici diversi, dall’analisi economico – quantitativa di Eloisa Betti  (Il lavoro femminile nell’industria italiana: gli anni del boom economico) all’analisi storico - psicologica di Lorenza Perini (Quando l’aborto era un crimine. La costruzione del discorso in Italia e negli Stati Uniti (1965-1973)). Entrambe affrontano il lato oscuro dello sviluppo economico e sociale.

Eloisa Betti riflette su alcuni dati strutturali del boom economico italiano, inquadrandoli dentro l’asse temporale di più lungo sviluppo 1951-1971. La poderosa accelerazione dello sviluppo industriale italiano, con incrementi percentuali del prodotto interno lordo superiori a quelli di Gran Bretagna e Usa nel quindicennio 1955 –1970, non colma i disequilibri strutturali, né coincide con il raggiungimento della piena occupazione (il risultato migliore è quello del 1963 con il 3,9% di disoccupati). Alla diseguale crescita economica per aree geografiche, con il triangolo industriale in funzione di traino, si affianca la sperequata composizione dell’impiego che vede gli indici di disoccupazione femminile sempre più alti di quelli maschili.[16] Nel quinquennio del miracolo economico (1958 – 1963) l’occupazione femminile risulta essere in calo in termini assoluti. Anche osservando l’andamento del fenomeno fino al 1971, il traino determinato dall’espansione del settore industriale si riverbera nella crescita dell’impiego maschile e nel calo della presenza femminile. Gli ingressi di giovani lavoratrici non colmano la perdita complessiva di posti di lavoro occupati dalle donne. Tra uomo e donna permangono disparità salariali formalmente compensate nel 1960, ma operanti anche successivamente in altre forme, spesso inquadrando le donne con qualifiche più basse. E’ il riscontro di un disagio economico sociale che resta sommerso da lusinghieri macrodati, ma affiora in forme non trascurabili nelle indagini sulla vita quotidiana. I saggi di Betti e Perini convergono nel segnalare come negli anni Sessanta le aspettative delle donne non siano elevate. La condizione di casalinga resta desiderabile: nei ceti medio-bassi il modello del male bread-winner appare incontrastato. Il modello è riprodotto nei messaggi pubblicitari, dall’altro lato, più sporadicamente e con meno efficacia, è messo in discussione da quei programmi (radiofonici e televisivi) che ambiscono a raccontare l’Italia com’è.

Le prime forme del racconto femminile, illustra Lorenza Perini, non si pongono su un piano rivendicativo, ma mirano ad affermare un’esistenza, “io esisto”, “e il racconto spezza almeno per un attimo la catena inesorabile degli eventi.” Per la rimessa in discussione dei ruoli occorre attendere la metà degli anni Settanta che agisce sulla spinta del ‘68 mentre anche l’emigrazione, specie per le donne più giovani, contribuisce a spezzare il consolidato tradizionalismo di ruoli e di aspettative.[17] L’acquisizione della consapevolezza del ruolo di donna matura sulle esperienze passate, si salda nei circuiti sociali, al punto che sempre più donne arrivano a costituire un’avanguardia di sensibilità e conoscenze che sopravanza quello che può definirsi il senso comune medio dei parlamentari. Chi è chiamato a legiferare non può ignorare vissuti ed esperienze maturati su vicende estreme, a partire dai debiti contratti per abortire o da una vita quotidiana dove si impara a fare gli aborti (un segreto di spettrale solitudine fra le mura domestiche), con i rischi insiti per la salute nell’immediato e nel lungo termine. La ferita di un atto - che chiede “drammatica urgenza” - è ferita della condizione di non potere mantenere i figli, di perdere una parte di sé, e di ripetere, con la stessa disperazione, più e più volte ancora il trauma dell’aborto, per un’atavica ignoranza verso il proprio corpo e la propria sessualità.

Dentro al saggio della Perini si avvertono gli effetti di una accelerazione temporale, quasi deflagrante nei confronti di un dramma atavico, e prodotta, nella velocità delle trasformazioni economiche, da acquisizioni contrastanti quali i modelli legati al boom economico e la critica di quei modelli dentro ai circuiti sociali delle nuove generazioni.[18]

Sintetico epilogo guardando al terrorismo nell’epoca della globalizzazione

Come il diritto al divorzio anche il diritto all’aborto è comunemente entrato, nella seconda metà del Novecento, nelle legislazioni sociali degli Stati occidentali, in quel percorso di compimento della secolarizzazione che è stato alla base, sin dal XIX° secolo, del cammino delle società laiche e moderne. La società statunitense ha rappresentato un modello per l’Europa occidentale nei primi decenni postbellici - oltre che di un sistema di consumo - anche di costumi più liberi e laici.

Nell’era del terrorismo globale il corpo ha riacquisito una centralità puramente strumentale, un’acquisizione numerica pronta all’uso, non distante dalla concezione demografica delle dittature fasciste degli anni Trenta. C’è il corpo del kamikaze immolato al fanatismo islamico e c’è l’altrettanto strumentale richiamo al corpo del fondamentalismo di matrice cristiana - antilaico, antimodernista - che si esprime nel messianesimo visionario delle crociate antiaboritiste. Le ideologie contrapposte (quella islamista e quella fondamentalista statunitense, con i loro diversi registri e riferimenti) si sono trovate concordi nel concepire un sistema di pensiero che vorrebbe privare l’individuo di disporre del proprio corpo.[19]

Note

[1] Un breve rimando sull’apparato delle note di questo intervento introduttivo. Le note sono costruite come estensione o opposizione delle tematiche affrontate nei saggi. I testi qua citati non compaiono tra quelli utilizzati dagli autori, salvo due espliciti riferimenti. Trattandosi di argomenti e di approcci, che i testi evocano e percorrono per intero o in diverse loro parti, si è ritenuto di non indicare i numeri di pagina.

[2] Il regolamento che disciplina il dottorato di ricerca fa riferimento al Decreto Ministeriale 30 aprile 1999 prot. n. 224/1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 13 luglio 1999 n.162; per il caso in oggetto si veda l’articolo 4 “Obiettivi formativi e programmi di studio”.

[3] Francesca Ruocco articola il suo saggio e buona parte delle sue fonti muovendo da un’ottica pragmatica operativa dedicando attenzione anche agli strumenti legislativi. Lo stesso tema può essere visto anche da una prospettiva decisamente critica. Si vedano i saggi di P. Bonora, Interpretare la neourbanità: citta de- formata e immobiliarizzazione e di P. L. Cervellati, Dal tracollo dell’urbanistica bolognese al progetto di “città di città” entrambi in (P. Bonora, P. L. Cervellati a cura di) Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista, Reggio Emilia, Diabiasis, 2009.

[4] P. Dogliani, Berlino capitale, «Storica», 17 (2000).

[5]  R. Borghesi ha già espresso alcune interpretazioni nel saggio Reinventare la campagna, a cominciare dal paesaggio, in  Per una nuova urbanità, cit.

[6]  Sull’ibridizzazione dei territori fra città e campagna si veda: A. Giannini, Tra ruralizzazione e urbanizzazione: progetti integrati città-campagna, in «Territorio», 49 (2009).

[7] G. Sapelli, Banche e storia d’Italia, in «Il Mestiere dello storico», 1 (2009).

[8] A. Gambino, Le conseguenze della Grande crisi sulle relazioni italo-magiare (1930-1934). In ragione della necessità di accedere a prestiti internazionali, l’Ungheria negli anni Venti mantiene una politica estera improntata a pragmatismo, rinunciando a battersi per la revisione del trattato di Trianon che l’ha privata di territori e popolazioni magiare incluse nella Jugoslavia, nella Cecoslovacchia e nella Romania.

[9] B. Jensen Ole, T. Richardson, Making European Space. Mobility, power and territorial identity, London-New York, Routledge, 2004, p. 119 citazione qui riportata da E. Frixa.

[10] Cfr. C. A. Bayly, La nascita del mondo moderno 1780 – 1914, Torino, Einaudi, 2008.

[11] Anche la struttura di potere realizzata da Napoleone, con le sue scelte e le sue strategie, sono state implicitamente utilizzate all’interno di un dibattito sui temi di impero e globalizzazione. P. Johnson, Napoleon, New York, Viking book, 2002. Le letture forzate dell’autore (tra le altre, Napoleone precursore del totalitarismo) sono state contestate nella recensione dello storico inglese F. McLynn, Napoleon by Paul Johnson.The military genius who gave the world totalitarism, in «The Independent», 5 agosto 2002. Da salvare, nella lettura di Paul Johnson, la portata distruttrice dei nuovi strumenti di guerra. Gli ingegneri militari entrano in questa idea al pari di altre figure professionali come gli agenti segreti inseriti nell’organizzazione della polizia segreta e nell’uso capillare dello spionaggio. Priva invece di elementi critici la recensione di M. Molinari, Lo storico Paul Johnson elenca tutti gli errrori di Napoleone George W. Bonaparte, in «La Stampa», 25/07/2002.

[12] Cfr. B. Tobia, Una patria per gli italiani, spazi, itinerari, monumenti nell'Italia unita (1870 – 1900), Roma - Bari, Laterza, 1991. Dedica importanti osservazioni all’evoluzione architettonica delle città anche G. Pécout, Il lungo Risorgimento, Milano, Bruno Mondadori, 1999.

[13] Una compiuta lettura di continuità tra età napoleonica e periodi successivi è senz’altro quella di A. Scirocco, L’Italia del Risorgimento 1800-1860, Bologna, Il Mulino, 1990. Allo stesso modo, anche i testi sopra citati di Pécout e Bayly si muovono sulla prospettiva di lungo Ottocento che ingloba gli ultimi decenni del Settecento e si chiude con la guerra mondiale.

[14]  Esiste un immaginario radicato negli operai francesi, e parigini in particolare, correlato con gli eventi della rivoluzione francese avvenuti dal 1789 al 1793. Questa linea d’immaginario torna e caratterizza anche gli eventi successivi della Comune del 1870, cfr. S. Luzzatto, La “Marsigliese” stonata, Bari, Dedalo, 1993. La stonatura a cui allude Luzzatto si riferisce a un ravvisabile sciovinismo della sinistra francese, anch’esso legato ai modelli originari della rivoluzione, che sfocerà nell’union sacrée del 1914 dopo l’assassinio di Jean Jaurès.

[15] J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Torino, Einaudi, 1997 [ed. orig 1997], citazione qui riportata da Federico Ferretti.

[16] Va segnalato un contributo di taglio diverso, ma complementare rispetto alle analisi proposte da Eloisa Betti. Si veda B. Curli, Condizione operaia e identità femminili nella recente storiografia del lavoro, in: Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali. Il Novecento italiano, P. Causarano, L. Falossi, P. Giovannini (a cura di), Roma, Ediesse, 2008.

[17] Con una attenzione particolare alla realtà meridionale Paul Ginsborg ha redatto una nuova edizione della sua Storia d’Italia 1943 – 1996 con un nuovo significativo sottotitolo Famiglia, società, Stato, Torino, Einaudi, 1998 [1^ ed. 1989].

[18] Dentro questo solco interpretativo convergono gli studi della sociologa S. Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico, Milano, Angeli, 1993 e quelli dello storico G. Crainz, in particolare: Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1996 e il successivo Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003. Si veda anche D. Calanca, Non ho l’età. Giovani moderni negli anni della rivoluzione, Bologna, Bonomia, University press, 2008, dove si mostra come anche un personaggio legato a valori tradizionali, come Gigliola Cinguetti, finisce per rientrare nel modello della percezione contrastante.

[19] Su questi temi si vedano, tra gli altri: S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano, Mondadori, 2003 [ed. orig. 2003]; G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino Einaudi, 2006; G. A. Almond, R. Scott Appleby, E. Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, Bologna, Il Mulino, 2006 [ed. orig. 2003].