Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Sul governo dei migranti. Alcuni recenti studi in materia di migrazioni, confini e soggettivazione

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L’esercizio del potere, si sa, è ubiquo e ricorsivo. Penetra con costanza produttiva i mille piani di immanenza che compongono il reale, contribuendo a costruirli come tali e oggettivando al loro interno relazioni di governo, regimi di verità, forme di vita. Al contempo, tuttavia, questo stesso movimento del potere genera le condizioni di possibilità di altrettanti processi di soggettivazione, fuochi di resistenza, pratiche di libertà, nuovi giochi di veridizione, movimenti di sottrazione e di deterritorializzazione a cui, tuttavia, segue una pronta, altrettanto incessante riterritorializzazione, talvolta una cattura all’interno di nuovi dispositivi di potere e di sapere. Resta però un dato: «una società fugge dappertutto»[1], scriveva Gilles Deleuze evidenziando l’ambivalenza che contrassegna il rapporto tra l’ordine e i soggetti, tra il potere e la libertà.
La vicenda dei migranti e della loro mobilità è solo la rappresentazione emblematica di questo incessante flusso di movimento che innerva la società globale. Si tratta di un flusso inevitabilmente connesso alla transizione in corso nell’ordine del potere e del sapere. Ricostruire le attuali, decisive configurazioni del controllo della mobilità migratoria seguendo le principali linee direttrici di alcuni recenti studi che indagano il tema dal punto di vista della ridefinizione dei dispositivi di governo permette di illustrare, in controluce, alcune delle principali caratteristiche della governamentalità nel passaggio alla cosiddetta età globale. Senza dimenticare, però, che alla nuova arte di governare i migranti è sempre possibile opporre pratiche di libertà e processi di soggettivazione finalizzati a ridefinirne i lineamenti o a rifiutare le radici della sua razionalità.

1. Verso un nuovo ordine imperiale?

L’assunto da cui parte Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività, curato da Giordano Sivini (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005), è che «le migrazioni esprimono autonomia e soggettività, in quanto perseguono la realizzazione di condizioni di esistenza negate a strutture sociali che sono escluse o emarginate dai processi di valorizzazione e di produzione di reddito»[2]. Come già Sivini aveva ben evidenziato nel suo studio Migrazioni. Processi di resistenza e innovazione sociale (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000) all’origine delle migrazioni non stanno solamente fattori di spinta e di richiamo, ma anche il gesto di sottrazione di coloro che vengono guidati dall’«incerta speranza di un futuro diverso da quello che gli si prospetta se restano dove sono» (14). È proprio quel gesto di sottrazione attivato nella nuova società globale, tuttavia, a rendere disponibile una grande quantità di forza-lavoro che il capitale produttivo inserisce puntualmente nei circuiti della propria valorizzazione, grazie all’allestimento di dispositivi di governo che nel mondo globalizzato non corrispondono più solo a quelli attivati dagli Stati nazionali. La cattura capitalistica del gesto migratorio avviene infatti entro spazi di comando soggetti ad un’importante ridefinizione. Si tratta di spazialità entro le quali si danno a vedere le direttrici di una nuova governamentalità imperiale.
È la tesi di Annamaria Vitale, che nel saggio di apertura del volume analizza l’ordine del discorso rinvenibile nei documenti delle più importanti organizzazioni internazionali. Lì le migrazioni appaiono sia come «mobilità “umana” da governare», sia come «elemento strategico centrale» di un’agenda internazionale che, nell’«era della mobilità di massa», mette al primo posto le esigenze di valorizzazione del capitale produttivo postfordista[3]. Detto con il lessico foucaultiano, i discorsi delle agenzie internazionali costruiscono la categoria di migrazione come oggetto di sapere, in modo tale da favorire la produzione della «popolazione migrante» come oggetto su cui potranno successivamente far presa le pratiche di potere. Così, l’attivo, iniziale gesto di sottrazione dei migranti viene sottoposto alla presa di un sapiente dispositivo di potere-sapere, o di controllo dei processi migratori, per il quale questi diventano «oggetto di “economia politica”, nel senso di “utilità”, di gestione economica»[4].
Cruciale è ovviamente il contesto globale in cui ciò accade. La globalizzazione viene qui intesa come una mondializzazione del capitale segnata dalla più ampia libertà di movimento delle merci e soprattutto dei capitali finanziari. L’ordine economico e politico mondiale appare riconfigurato come la risultante dell’incontro tra uno «spazio di flussi a-territoriale» (quello della circolazione del capitale globale) e «uno spazio di luoghi» (quello degli Stati e delle economie nazionali)[5]. Nulla di neutrale in tutto ciò. La cosiddetta globalizzazione è infatti, per Vitale, l’esito di una determinata risposta capitalistica finalizzata a «produrre nuove condizioni sociali di valorizzazione»[6]: una risposta che se, da una parte, si è opposta alla crisi sociale attivata dai movimenti sociali negli anni ’60-70, dall’altra ha fornito funzionali soluzioni agli smottamenti che alla fine degli anni ’70 avevano iniziato a scuotere l’ordine del potere nel primo, nel secondo e nel terzo mondo.
In altri termini, la ristrutturazione postfordista seguita alla crisi – e in special modo alcuni suoi elementi, quali la deindustrializzazione dei paesi centrali, l’industrializzazione di quelli periferici, la creazione delle libere zone di commercio, il decentramento produttivo, il ruolo sempre più decisivo dell’economia del petrolio - ha generato nuove condizioni, anche geografiche, di circolazione e valorizzazione del capitale internazionale e della popolazione migrante. Ma a turbare il presunto spazio liscio della globalizzazione sono apparse nuove striature confinarie, esterne e interne, finalizzate a garantire tanto la localizzazione forzata dei migranti quanto la loro iperflessibilità, in modo tale che là dove si riterritorializzava per necessità – il processo di delocalizzazione richiede infatti sempre una successiva rilocalizzazione -, o là dove restava nell’impossibilità di muoversi, il capitale produttivo (in realtà meno mobile del capitale-denaro e del capitale-merce) potesse utilizzare forza-lavoro «nelle quantità e nelle qualità adeguate alle condizioni storicamente date dalla valorizzazione»[7].
Nella transizione dal fordismo al postfordismo, si è insomma attivato un complesso di pratiche di potere e di sapere finalizzato a ricostruire su scala globale le condizioni migliori per la valorizzazione di un capitale che resta sempre e comunque vincolato alla materialità dei processi produttivi. Di questa complessa, recente metamorfosi del capitalismo, dal lato delle migrazioni internazionali, Vitale analizza foucaultianamente il versante discorsivo quasi mai indagato. Nei documenti che lo IOM (Organizzazione internazionale per le migrazioni), la Banca Mondiale e l’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro) hanno prodotto negli ultimi anni emerge una razionalità programmatica piuttosto chiara: la mobilità migratoria internazionale non va affatto frenata o impedita; va invece considerata come un processo positivo e irreversibile. Si tratterebbe di una «risposta naturale» alla disuguaglianza che la globalizzazione non ha sconfitto, una risposta da funzionalizzare però al nuovo ordine postfordista. Nei discorsi delle organizzazioni che disegnano il nuovo modello di governo dei migranti non si tratta dunque di inibire i flussi, ma di governarli per «proteggere i diritti umani, massimizzare il contributo alla crescita e allo sviluppo e prevenire i flussi e i traffici clandestini»[8]. Si tratta, in altri termini, di concepire i migranti come una forza valorizzatrice del capitale e come co-garanti della crescita globale: una forza che va governata politicamente in modo composto ed ordinato, garantendo i diritti umani. A questo scopo serviranno dispositivi di potere biopolitici e disciplinari, capaci al contempo di regolare globalmente la popolazione migrante mondiale e di garantire la produttività dei singoli individui, dei loro corpi docili.

Sul primo versante, quello biopolitico che attiene alla regolazione delle popolazioni, nei documenti delle organizzazioni internazionali i migranti e le migrazioni vengono oggettivati come “flussi” volontari – tendenzialmente “buoni” – o come flussi forzati. Per Vitale, questa strategia discorsiva tenta di costruire la figura del migrante collettivo come oggetto da sottoporre ad una sorta di «medicina sociale» che marca il confine tra il migrante economico - lecito perchè laborioso - e quello irregolare o “clandestino”, quindi illecito e pericoloso. Secondo una simile medicina sociale occorre controllare la popolazione migrante attraverso l’accorto vaglio degli elementi di disordine che la turbano e che non ne permettono la piena funzionalizzazione alla “crescita e allo sviluppo” dell’ordine economicamente, politicamente e socialmente egemone: gestire clandestinità, irregolarità, informalità, violazione dei diritti umani, etc. diventa il principale imperativo sociale e istituzionale. Nei documenti esaminati da Vitale le responsabilità delle disfunzioni sistemiche vengono sovente imputate agli Stati nazionali, ritenuti incapaci di gestire abilmente le migrazioni sia per ciò che concerne la protezione dei diritti sia per quanto riguarda le politiche restrittive del mercato del lavoro, che tendono a indurre irregolarità e clandestinità. Nella razionalità di programma delle organizzazioni sovranazionali gli Stati appaiono innanzitutto come «un elemento di potenziale disordine»[9]. Occorrerebbe dunque un “governo globale” delle migrazioni in grado di agire umanitariamente e sulla base di quell’interesse universale che ai singoli Stati sarebbe interdetto per definizione: contro e oltre gli insuperabili limiti statuali - che la logica degli accordi bilaterali non riesce ad oltrepassare - la posta in gioco è la costruzione di un «regime migratorio transnazionale», la cui prassi strategica renda le migrazioni «più ordinate e più produttive»[10].
Prende così gradualmente forma una tipologia del governo globale che - afferma Vitale in conclusione - starebbe assegnando «agli Stati la cooperazione bilaterale e regionale, all’impero il governo, come governo anche delle politiche dei singoli Stati nazione e delle popolazioni nazionali»[11]. A questo emergente modello di governamentalità, che tra i suoi principali obiettivi ha quello di allestire «spazi socialmente ordinati e strutturati di comando» in grado di rendere facile per il capitale produttivo l’assoggettamento e l’utilizzo del lavoro migrante, il discorso dello sviluppo prodotto dalle organizzazioni internazionali fornisce «scientifici» effetti di verità e legittimazione tecnica, in nome dell’interesse generale[12].
In un altro recente lavoro, contenuto in un importante volume, anche Franck Düvell ha di recente parlato dell’emergenza di un dispositivo globale di controllo delle migrazioni[13]. Düvell sottolinea come la posta in gioco della tendenziale internazionalizzazione del governo della mobilità migratoria sia la regolazione e la messa al lavoro di un proletariato globale in movimento composto da almeno 120 milioni di persone, che secondo l’OIM diventeranno 230 nel 2030, senza contare l’impatto su queste cifre delle grandi migrazioni interne che si verificano in Cina, India, Russia o Nigeria. La cattura della libertà di movimento esercitata dai migranti su scala mondiale sta alla base della razionalità del processo di costruzione di un regime di controllo delle migrazioni che non mette in gioco misure di mera chiusura, ma attiva piuttosto «una politica selettiva di inclusione» (dei migranti laboriosi) e di esclusione (di quelli pericolosi): una politica determinata da considerazioni di carattere economico, dalle “leggi” del mercato del lavoro e dal “capitale umano” dell’immigrato richiedente, sempre più sottoposto ad una sorta di «controllo di qualità»[14]. Tramite le politiche migratorie, la globalizzazione capitalistica riproduce una «politica delle differenze» che permette di allestire un sistema di gerarchizzazione dei diritti e di sfruttare i differenziali salariali tramite la gestione di nuovi confini, come quelli presenti tra Stati Uniti e Messico, tra Singapore e Indonesia o tra i paesi membri dell’UE e quelli limitrofi. Si tratta di confini la cui legittimazione è garantita dalla logica della guerra all’immigrazione “clandestina”, filo conduttore della progressiva globalizzazione delle politiche migratorie. Essi sanciscono le nuove determinazioni di quella gerarchia della mobilità che consegna centinaia di milioni di persone all’immobilità nelle aree dominate del pianeta. Ed è in questo che oggi forse si dà a vedere «la principale misura della deprivazione sociale e della mancanza di libertà»[15].
Questa è la ratio che, secondo Düvell, informa le strategie di progressiva definizione di un regime di governo internazionale delle migrazioni, alla cui messa in opera stanno collaborando non solo i cosiddetti paesi sviluppati, ma anche una pluralità di organizzazioni sopranazionali: l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l’Interngovernmental Consultation on Asylum, il Refugees and Migrations Policies, l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, altre agenzie ONU, OCSE e vari istituti di ricerca, il Gruppo migrazioni di Ginevra, che riunisce tutte le principali organizzazioni internazionali e intergovernative in tema di migrazioni escludendone gli attori sociali, e l’Iniziativa di Berna, che coinvolge i soli governi[16]. Düvell si sofferma sul ruolo cruciale delle prime due per una gestione globale del fenomeno migratorio. L’OIM avrebbe sostanzialmente assunto la funzione di diffondere i modelli europei e statunitensi di controllo poliziesco delle migrazioni “clandestine” nelle diverse aree del pianeta (dall’impiego delle nuove tecnologie alle campagne di dissuasione delle migrazioni; dalla costruzione e gestione dei centri di detenzione alle procedure di rimpatrio dei migranti indesiderati). L’IGC, poi, è ritenuto il segreto e «fondamentale think thank in materia di politiche migratorie» e probabilmente la testa del processo, quella in cui vengono definite le strategie chiave e l’agenda degli obiettivi (ad esempio la lotta al “traffico di esseri umani” o alla “migrazione illegale”)[17]. È principalmente al suo interno che prenderebbe forma l’ordine del discorso che legittima dal punto di vista umanitario il nuovo governo delle migrazioni. Per Düvell, tutte le proposte per l’allestimento di un regime migratorio globale (la cui infrastruttura è già oggi rappresentata da GMG, IB e OIM) e le politiche che gradualmente ne emergono sono da considerarsi strettamente connesse alla forma di sovranità “imperiale” che prende forma nell’età della globalizzazione del capitale.
Rispetto all’analisi di Düvell il già citato studio di Vitale propone una riflessione sulla produzione discorsiva della figura del “migrante come lavoratore” e sulla sua centralità nella ristrutturazione postfordista[18]. Recependo la lezione di Zygmunt Bauman (Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza, 2005), Vitale mostra come attraverso la distinzione tra migrazioni economiche e migrazioni “umanitarie” venga tracciata discorsivamente «la frontiera che separa il “prodotto utile”, i lavoratori temporanei e qualificati, dagli “scarti”». Per questo nei documenti di WB, IFM, IOM, ILO se ne giustifica la presenza argomentando che la forza-lavoro migrante può compensare il calo della popolazione attiva e ovviare tanto alla bassa natalità quanto all’invecchiamento della popolazione favorendo la crescita e lo “sviluppo”. Si tratta di un discorso vecchio, sottolinea Vitale, ma la novità è data dal suo funzionamento in un inedito contesto discorsivo: quello dello “sviluppo globale” e dell’«interesse universale che prevale e si impone sugli interessi dei singoli Stati»[19]. Per questo nuovo ordine del discorso gli Stati non sono ormai che comprimari, semplici esecutori di un’azione collettiva grazie alla quale più soggetti interconnessi realizzano l’«istanza imperiale» che fa da complemento di sovranità alla globalizzazione capitalistica[20].
Per Vitale, però, la produzione del discorso dello «sviluppo globale» tende a facilitare un tipo di esercizio del potere capitalistico che svalorizza la forza-lavoro globale proprio mentre ne sussume la capacità di produrre valore. Nei discorsi analizzati si tesse una narrazione per cui la nuova divisione del lavoro assegna ai paesi in via di sviluppo, definiti dall’autrice «paesi esportatori», la funzione di produrre e vendere forza-lavoro di cui i paesi di arrivo, denominati «importatori», saranno in seguito consumatori.
Emblematico a tale proposito è Globalizzazione, crescita economica e povertà, il rapporto della Banca Mondiale curato da P. Collier e D. Dollar (Bologna, il Mulino, 2003), nel quale al sistematico silenzio sugli effetti del colonialismo storico, dell’imperialismo e del neocolonialismo viene sovrapposta la teoria dei costi comparati, un tassello centrale dell’ordine del discorso dello «sviluppo globale». Gli autori individuano un vantaggio comparato per i «paesi esportatori» nella vendita della forza-lavoro migrante dotata di quegli skills di cui i lavoratori dei «paesi importatori» sono privi. All’interno del «discorso dello sviluppo» il concetto di qualificazione funziona come «nuovo strumento di segmentazione interna della forza-lavoro e, contemporaneamente, [come] dispositivo di disciplinamento e normalizzazione»[21].
Il fine perseguito dal capitale collettivo in questa fase è, per Vitale, la gestione politica di «un ulteriore abbassamento dei salari e dei redditi, senza provocare conflitti sociali» né limitare eccessivamente il potere d’acquisto dei lavoratori locali[22]. Si tratta di uno scopo che viene raggiunto grazie al parziale smantellamento delle garanzie sindacali e del ricatto di delocalizzare, ma anche grazie alla funzione deflattiva di compressione salariale che il lavoro migrante assolve nel nuovo mercato del lavoro etnicizzato. Per Vitale siamo di fronte ad un grande processo di svalorizzazione della forza-lavoro migrante e di quella locale non qualificata. Una svalorizzazione che, almeno nei sogni del neoliberalismo, si potrebbe presto estendere progressivamente a tutto il lavoro che c’è. Tutto ciò rischia di creare tensioni e conflitti sociali che le organizzazioni internazionali non sottovalutano nei loro discorsi, proponendo agli Stati di implementare politiche di integrazione intese dallo IOM come «strategie per la stabilità sociale»[23]: si tratta di una stabilità che però prevede costitutivamente una nuova segmentazione del mercato fondata sul criterio apparentemente oggettivo della “qualifica” richiesta dalla globalizzazione. Chi non dispone degli skills adeguati rischia di finire tra le vite di scarto dell’ordine globale vigente, nel quale – a patto di occultare le condizioni storico-politiche di riproduzione della disuguaglianza e della fragilità sociale - «la condizione di debolezza delle fasce più deboli del lavoro mondiale appare normale, naturalmente accettabile e giustificabile»[24]. È questo l’effetto di verità che il discorso dello sviluppo globale, prodotto e messo in circolazione dalle organizzazioni internazionali, contribuisce pesantemente a istituzionalizzare nei territori e tra le popolazioni.

2. Oltre il funzionalismo e lo strutturalismo: per un’analisi materialista della soggettivazione migrante

Nel saggio Le migrazioni dal fordismo alla globalizzazione, Sivini osserva che gli approcci dominanti nell’analisi dei processi migratori – il funzionalismo e lo strutturalismo – non possono cogliere la realtà appena descritta, incapaci come sono di percepire la reciprocità produttiva di pratiche discorsive e esercizio del potere. I due paradigmi indagati dal sociologo calabrese sono infatti schiacciati sull’alternativa tra il primato funzionalista della scelta razionale ed utilitaristica del soggetto migrante e la sua riduzione strutturalista ad oggetto integralmente diretto dalle esigenze del capitale produttivo.
Da una parte, l’analisi funzionalista presuppone l’integrale responsabilizzazione del migrante rispetto al progetto migratorio e alla propria capacità di adattamento verso le norme delle società di approdo, senza la quale vi sarebbe un’immediata ricaduta nella “devianza” (con l’ovvio alimento che ciò fornisce a xenofobia, razzismo e sicuritarismo); da un’altra parte, l’approccio strutturalista riduce i migranti ad esercito di riserva eterodiretto dal capitale metropolitano in un contesto di sviluppo ineguale e di dominio del centro sulle periferie.
Per difetto di materialismo e di attenzione alla soggettività dei migranti, i due paradigmi – dei quali peraltro Sivini segnala l’aggiornamento grazie alla teoria del transnazionalismo e delle reti (che rinnova lo schema funzionalista) e all’attenzione all’economia sommersa (che aggiunge nuovi elementi al modello strutturalista) – non riescono a cogliere adeguatamente né la trasformazione delle condizioni che producono migrazioni nell’attuale passaggio di fase, né il dato centrale che permette di coglierne la sostanza prima. A tale scopo occorre infatti visualizzare le modalità secondo cui nei paesi centrali prende forma un dispositivo di governo del sociale centrato su deregolamentazione dei rapporti lavorativi e smantellamento progressivo del welfare. E bisogna constestualizzare simili processi nell’ambito di una transizione, come quella attuale, in cui il capitale finanziario si svincola dal controllo statale e governa su scala globale i movimenti del capitale produttivo in funzione della miglior valorizzazione possibile, sottraendolo alle aree dove più presenti sono le possibilità di antagonismo e insediandolo dove appare più semplice il comando sul lavoro vivo. Una volta ricostruite correttamente le attuali coordinate geo-economiche del capitalismo globale, sarà possibile mostrare che le migrazioni rispondono a crisi e rilocalizzazioni, ma manifestano autonomia all’origine ed esprimono una soggettività che «contrappone al dominio del capitale il diritto a condizioni di esistenza»[25].
Sivini ripercorre le più pregnanti interpretazioni funzionaliste adottate dall’Ufficio Internazionale del Lavoro e quelle strutturaliste maggiormente utilizzate per spiegare il ruolo delle migrazioni nel periodo fordista, ritenuto una fase di apertura strumentale ai flussi migratori. Alle prime contrappone alcune vecchie, ma ancora valide critiche di Samir Amin, secondo cui sì «chi emigra razionalizza le esigenze obiettive della situazione, ma […] i comportamenti dell’homo oeconomicus […] sono definiti dal sistema entro cui si situa l’individuo che opera le scelte osservate […] [ed] è questo sistema che racchiude le alternative di scelta»[26]; alle seconde oppone le obiezioni di Cohen, secondo cui gli strutturalisti erano più interessati «a ciò che il capitale va facendo con il lavoro migrante e quello autoctono, piuttosto che alle contraddizioni insite nel processo»[27].
Alla luce di tali critiche Sivini - e concependo il capitale innanzitutto come quel «rapporto sociale di dominio e sfruttamento» che, deprivando le concrete condizioni di esistenza di milioni di persone, origina migrazioni da interpretare anche come iniziative autonome e soggettive - sottolinea a più riprese come i processi di globalizzazione abbiano provocato duri contraccolpi sociali con le nuove politiche regolative del Washington Consensus, che hanno sancito l’esproprio su scala mondiale dei beni collettivi legati all’economia pubblica e al welfare. La fase di modernizzazione capitalista seguita ai processi di decolonizzazione ha causato una massiccia e disordinata urbanizzazione e il cosiddetto «aggiustamento strutturale» imposto dal IFM ha impoverito e disgregato il tessuto sociale dei paesi periferici, provocando crisi dell’agricoltura, licenziamenti, calo dei salari, aumento del costo della vita. Il poderoso inurbamento e le grandi migrazioni interne dalle campagne e dai villaggi che ne sono seguite hanno poi duramente sconvolto i rapporti sociali delle città, generando informalità diffusa in assenza di domanda di lavoro. In tal senso Sivini osserva che questo tipo di «fenomeno migratorio è del tutto indipendente dalla domanda dei capitali» e che, pur facendo il gioco delle imprese e della borghesia urbana, in origine le migrazioni «hanno un’evidente autonomia»: sono mosse da desideri e perseguono l’obiettivo di «produrre proprie condizioni di esistenza»[28]. I blocchi all’ingresso imposti dai paesi centrali hanno trattenuto in buona parte queste migrazioni nelle aree periferiche accrescendo i fattori di crisi già presenti e contribuendo così ad alimentarli, favorendo oggettivamente l’esplosione di guerre che hanno prodotto masse enormi di rifugiati. I processi di delocalizzazione - ad es. quelli manifatturieri in Asia o quelli petroliferi dei paesi del Golfo - hanno potuto successivamente giovarsi di una mole imponente di migranti e rifugiati, resi più duttili e sfruttabili dalla chiusura dei paesi di approdo, oltremodo restii a considerare permanenti le migrazioni.

Quella chiusura si ritrova formalmente all’opera anche nei paesi centrali, ai quali Sivini volge la propria attenzione parlando di «migrazioni postfordiste». Innanzitutto - osserva lo studioso calabrese - diversamente da quelli del fordismo i migranti attuali sono giovani e dotati di maggior istruzione; sono socializzati dai media ai modelli di consumo occidentali; spesso hanno accesso alle nuove tecnologie comunicativo-relazionali e hanno coscienza delle difficoltà che li aspettano. Pur restando parzialmente impiegati in attività fordiste, sono sovente inseriti nella “fabbrica snella” e nei servizi al consumo o di cura in cui vengono richieste responsabilità e capacità relazionali. Tuttavia, in virtù della disoccupazione, della progressiva riduzione delle garanzie sociali e del deterioramento salariale dei lavoratori nei paesi di approdo, «sta venendo meno quella condizione di non competitività degli immigrati che era pressoché generale nel fordismo»[29]: la competizione riesplode sia tra autoctoni e migranti, sia tra migranti regolari e migranti irregolari, sia tra irregolari di diversa provenienza giunti a destinazione in tempi differenti. Ne consegue una situazione diffusa di discriminazione nelle attività lavorative caratterizzate dalle tre D e l’inserimento massiccio dei migranti nel lavoro illegale, con buona pace delle retoriche per le quali la mobilità del lavoro sarebbe bloccata. Sivini ribadisce che le migrazioni “clandestine” sono in origine relativamente autonome «rispetto alla domanda delle economie dei paesi riceventi», come appare evidente anche dall’incontenibilità dei flussi a dispetto dei molteplici dispositivi di chiusura delle frontiere attivati dagli Stati[30]. L’afflusso di migranti “clandestini” è nei fatti favorito perché garantisce un più facile sfruttamento del lavoro vivo. Più in generale, poi, «l’immigrazione viene tollerata a condizione che non metta in discussione l’invisibilità dei migranti». Il tutto all’interno di una tendenza generale che, per Sivini, si realizza su due piani complementari: a livello nazionale si registra l’accesso strutturale di manodopera irregolare e la concessione dell’ingresso a lavoratori stranieri particolarmente qualificati e/o stagionali; a livello internazionale, «si punta all’allargamento del mercato del lavoro legale» e, in prospettiva, ad una «regolamentazione globale delle migrazioni» grazie alla convergenza delle iniziative dei soggetti sovranazionali.
L’analisi di Sivini permette di comprendere i processi strutturali che stanno alla base delle migrazioni, valorizzando, oltre l’analisi del mero contesto statuale - a cui resta evidentemente un importante ruolo di garante dell’ordine -, la svolta verso un governo transnazionale delle migrazioni contemporanee, una svolta finalizzata principalmente a meglio garantire lo «sfruttamento generale della forza lavoro»[31]. Egli evidenzia tuttavia anche la relativa autonomia delle migrazioni dalle richieste del capitale produttivo, mostrando l’iniziativa che viene dai migranti intesi principalmente come «“soggetti” di progetti migratori»[32]. Le migrazioni, insomma, ci parlano anche della «irriducibilità della vita alle condizioni imposte dallo sviluppo ineguale» e di pratiche di resistenza che, contestando praticamente il capitale inteso come rapporto sociale, mirano all’«inserimento di chi ne è escluso nei luoghi in cui avviene la valorizzazione e la produzione della ricchezza»[33].
Per sfuggire alla tentazione di percepire ogni singolarità migrante come espressione di antagonismo, e di disegnare il profilo della soggettività di chi migra come «mera espressione del diritto alla vita»[34], è però decisivo che le pratiche di libertà che danno forma concreta alla soggettivazione migrante vengano visualizzate e definite nel loro rapporto spazio-temporale con il capitale produttivo e con i specifici dispositivi di potere-sapere che strutturano le relazioni sociali. Come, infatti, nell’età fordista le migrazioni rappresentavano uno strumento di potenziamento del capitale nazionale entro rapporti coloniali, esse oggi consentono «di aumentare i profitti anche al di fuori di formali rapporti salariali». Occorre allora considerare che se da una parte è vero che le migrazioni, con la loro pratica soggettiva, «esprimono resistenza al dominio del capitale», lo è altrettanto che quella resistenza nell’attuale fase postfordista del capitalismo viene recuperata e funzionalizzata dai capitali produttivi: viene cioè imbrigliata entro l’angusta realtà di lavori in cui prevalgono manualità, fatica e noia e/o all’interno di un’esperienza comunitaria razionalmente o etnicamente connotata che non favorisce l’espressione di una logica di rivendicazione e lotta.

Lo stesso orizzonte concettuale è presente anche nel contributo filosofico di Giuliana Comisso (Migrazioni: la soggettività oltre il pensiero di Stato. Considerazioni critiche su La doppia assenza di Abdelmalek Sayad). La soggettività espressa dal versante autonomo delle migrazioni deve essere posizionata «dentro la logica di composizione dei rapporti capitalistici che segna il passaggio dal fordismo al postfordismo», dal momento che nell’intento di governare il lavoro su scala globale i processi di normalizzazione attivati dall’ordine capitalistico contemporaneo continuano a richiedere «la costituzione/ricostituzione di un ordine sociale in cui la vita è sussunta quale condizione della valorizzazione»[35].
Appoggiandosi alle analisi di Foucault e Deleuze, Comisso osserva che non si dà potere senza resistenza possibile. Tuttavia le pratiche migratorie di resistenza al dispositivo di potere-sapere del capitalismo postfordista, e i processi di soggettivazione espressi dai migranti contro l’oggettivazione neo-disciplinare imposta dal nuovo ordine della globalizzazione, non dovrebbero essere dati per scontati. Occorre infatti costruirli come eventi della soggettività e come manifestazioni della potenza di vita entrambe interne al «campo di forze generato dai rapporti di potere-sapere»[36]. Commisso si ricollega alla concezione deleuziana della «singolarità», intesa come dimensione sociale costituita da immaginazione, memoria, desiderio all’interno del campo relazionale delle forze. Qui la «singolarità», se adeguatamente prodotta, diviene capace di manifestarsi come «evento» irriducibile alle norme cristallizzate nell’ordine del biopotere della macchina sociale capitalista[37]. Per riuscire ad aggredire il livello generale dell’esercizio del potere, le pratiche di libertà attivate dai migranti devono pertanto potersi intrecciare con quel complesso di processi di soggettivazione che stanno al cuore della «criticità alla base dei processi di ristrutturazione capitalistica»[38].

Comisso analizza il contributo teorico fondamentale che Abdemalek Sayad ha fornito all’analisi delle migrazioni contemporanee criticando radicalmente quel «pensiero di Stato» (un pensiero essenzialmente nazionale) che concepisce l’immigrato e la sua presenza nei paesi di approdo come meri, astratti oggetti da regolare e governare. Sayad si opponeva alla maggioranza dei discorsi accademici incapaci di riconoscere la migrazione anche come emigrazione, come quel «fatto sociale totale», cioè, che produce modificazioni tanto nelle società di origine quanto in quelle di arrivo. Per Sayad la migrazione segnala, al contempo, l’espressione soggettiva dell’aspirazione all’emancipazione socio-politica e la rottura simbolico-materiale con l’ordine sociale dei luoghi di partenza. Si tratta di un’esperienza letteralmente lacerante che, oltre a connotarsi come una critica materiale finalizzata alla ricerca di nuove condizioni di esistenza, produce «la doppia assenza» del migrante, alla cui soggettività di «docile» lavoratore costruita nel passaggio dalle zone di emigrazione a quelle di immigrazione Sayad è particolarmente attento.
Commisso sottolinea che il grande etnologo e sociologo cabilo ha analizzato i processi di governo dell’individualizzazione dei migranti restituendo esemplarmente l’esercizio dei biopoteri sui loro corpi e sulla loro vita, «sussunta come condizione della valorizzazione»[39] . Di più, ha mostrato efficacemente il modo in cui in Francia si è tentato di produrre la popolazione migrante algerina come «corpo sociale ordinato, docile e produttivo» e ha criticato adeguatamente un concetto di integrazione inteso come cifra del dominio e passaggio dalla perturbante alterità del migrante alla sua identificazione totale con la nazione ospite in nome dell’omogeneità nazionale. Tuttavia, secondo Commisso, Sayad non avrebbe colto che il processo di oggettivazione e di assoggettamento dei migranti «non è mai in sé concluso per effetto delle resistenze»[40]. Queste, infatti, almeno potenzialmente persistono e forzano continuamente i dispositivi di potere-sapere alla neutralizzazione di ciò che foucaultianamente si presenta come «elemento sfuggente», come differenza[41]. Il limite del lavoro di Sayad consisterebbe, insomma, nell’aver fornito sì una penetrante fenomenologia delle migrazioni come fatto sociale totale, ma senza «dar conto – soprattutto dal lato delle resistenze - del campo di potere in cui le identità sono definite e ridefinite»[42].
Restituendo un’immagine della soggettività migrante intesa come mero effetto dell’esercizio del potere simbolico e materiale sulle coscienze, Sayad sarebbe finito nella trappola tesa dallo strutturalismo: l’identità del migrante apparirebbe nei suoi studi «come puro riflesso di quella definita ed elaborata dal pensiero di Stato»[43]. Per la studiosa calabrese – che tuttavia non le esamina nel testo –, è invece a partire dall’analisi delle possibili resistenze che bisognerebbe procedere alla scrittura di una sociologia delle migrazioni capace di mostrare le modalità secondo cui quelle resistenze forzano l’ordine socio-economico a ridefinirsi. Una simile prassi della ricerca sarebbe in grado di contribuire anche teoricamente ad attivare la soggettività dei migranti, che potrebbe così articolare una risposta pratica ai dispostivi di controllo sulla mobilità della forza-lavoro.

3. Migrazioni e biopolitica del confine nel nuovo ordine europeo

Come sottolinea Düvell nel saggio già segnalato, il processo di transnazionalizzazione del governo della mobilità migratoria appare visualizzabile anche nelle vicende che negli ultimi decenni hanno interessato lo spazio geografico e politico europeo. Non solo perché l’UE è divenuta a tutti gli effetti uno dei principali attori del processo di globalizzazione del controllo delle migrazioni, ma anche perché nelle spazialità sociali che la definiscono internamente prende forma in modo esemplare proprio quel dispositivo di inclusione differenziale che sta al cuore del modello di governo dei corpi e del lavoro migrante rinvenibile tra le righe del “discorso dello sviluppo globale” promosso dalle organizzazioni internazionali.
Düvell ricostruisce la parabola che dal Trattato di Roma del 1957, in cui si poneva con enfasi l’accento sulla libertà di movimento dei lavoratori attraverso le frontiere, porta all’accordo di Schengen firmato nel 1985 e applicato nel 1994, dove si dà priorità al controllo delle frontiere esterne e compare l’idea di una allarmata “armonizzazione” delle politiche dell’asilo, concretamente rilanciata nella Convenzione di Dublino del 1997. Con il Trattato di Amsterdam del 1999 si rafforza quell’ottica sovranazionale che condurrà l’UE a definire un regime tendenzialmente integrato per il controllo delle migrazioni, le cui politiche e i cui saperi tecnici in materia di asilo, immigrazione, traffico, attraversamento delle frontiere sono prodotti da un gruppo di agenzie che agiscono per lo più informalmente e al di fuori del controllo pubblico. Questo lavoro in segretezza avviene secondo le tre linee dettate dai paesi membri al vertice di Tampere del 1999: ricerca di nuovi canali per le migrazioni regolari, contenimento di quelle per asilo, contrasto di quelle illegali. Di principale importanza per comprendere il nuovo dispositivo comunitario del governo della mobilità è anche l’elemento teoricamente innovativo apparso nel summit di Siviglia del 2002: la tendenza progressiva ad esportare le politiche migratorie europee negli altri paesi di origine e transito dei migranti.
In sintesi, secondo Düvell, nei confronti della questione migratoria l’Ue ha sviluppato “un approccio integrato capace di combinare la reazione alla sfida posta dalle migrazioni esterne con le misure necessarie per fronteggiare problemi sociali interni”[44]. Da una parte, dunque, abbiamo la costituzione di un cordone sanitario mobile verso i paesi dell’est europeo - ai quali viene imposta la sottoscrizione delle norme presenti degli accordi di Schengen come condizione per l’ingresso nell’Unione - e la delocalizzazione delle politiche di chiusura tramite gli auspicati accordi bilaterali con i paesi in cui le migrazioni hanno origine e transitano (ma anche con quelli della sponda sud del Mediterraneo e dell’est temporaneamente esterno ai confini dell’Ue; da un’altra parte si impone un approccio selettivo, utilitaristico e just in time alle migrazioni, che richiama a tempo determinato giovani lavoratori qualificati e non, difficilmente reperibile nei paesi dell’area, con l’intento di fronteggiare alcuni problemi dell’Unione: l’invecchiamento demografico, l’assenza di talune professionalità, le esigenze di sempre maggior flessibilità e di clandestinità nel mercato del lavoro.

In modo coerente con “la mentalità del tipo «assumi e licenzia»”, centrale nel neoliberalismo contemporaneo, per Düvell la razionalità politica dell’Ue in materia di regolazione delle migrazioni riproduce con tenui variazioni i principi egemoni nell’organizzazione del lavoro dell’impresa postfordista[45]. Il modello europeo di governo della mobilità migratoria prevede che solo i migranti “adatti” vengano assunti a tempo ed “integrati” previa selezione. Unicamente per loro si avrà un’inclusione differenziale, per tutti gli altri non resta che il “licenziamento”: l’espulsione, il respingimento o, negli edulcorati termini delle burocrazie dell’Ue e dei suoi stati membri, la “riammissione”[46].
A conclusioni parzialmente simili, e comunque complementari, giungono in due recenti studi sui nuovi confini di “Schengenland” anche William Walters ed Enrica Rigo (Welcome to Schengenland. Per un’analisi critica dei nuovi confine europei e Ai confini dell’Europa. Cittadinanze post-coloniali nella nuova Europa allargata, entrambi in S. Mezzadra (ed.), I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee, Roma, DeriveApprodi, 2004, 51-80 e 81-108).
Con accenti foucaultiani, Walters tenta di elaborare una genealogia dei confini «geopolitici, nazionali e biopolitici» di Schengen per denaturalizzarli, indagandone tanto l’identità e la funzione storica quanto la razionalità profonda e la contingenza[47]. L’assunto di partenza è che Schengen è un evento costruito positivamente nell’ordine del potere e del sapere in un determinato contesto storico. Un’adeguata analisi dell’evento Schengen può permetterci tanto di smascherare l’indebita naturalizzazione del nesso tra confine, sovranità nazionale e territorio associata allo Stato moderno, quanto di misurare gli effetti di novità prodotti dalle pratiche governamentali che produttivamente attivano il confine definendo territori amministrativi, pensando e praticando misure di sicurezza, regolando popolazioni.
Le condizioni di possibilità del confine di Schengen diventano comprensibili solo analizzando le varie tappe storiche del processo di destrutturazione dei dispositivi delle frontiere statuali, secondo cui – come sosteneva Ratzel – se lo Stato è un corpo il confine è la sua pelle. La guerra fredda e l’istituzione della NATO, con la logica dei blocchi, producono una progressiva smilitarizzazione dei confini europei occidentali, mentre la progressiva integrazione delle economie desacralizza un modello dei confini intesi come attributi necessari dello stato nazionale, derubricando progressivamente quest’ultimo ad irrazionale ostacolo sul cammino della costruzione di un’area economica europea unificata e forte.
Con questi processi secondo Walters subisce un colpo decisivo anche l’idea fin lì egemone che il rapporto tra il confine, lo Stato e la nazione fosse un dato naturale ed eterno. Al processo politico di nazionalizzazione dei confini gli accordi di Schengen contrappongono la logica istitutiva di un confine esterno dell’UE, una logica che mostra punti di continuità e cesura con l’esperienza precedente. Da una parte, infatti, il confine di Schengen eredità importanti funzioni socio-economiche e sicuritarie precedentemente assunte dai confini dei singoli stati nazionali.
D’altro canto Walters osserva che la «geometria variabile» dell’UE segnala punti di forte discontinuità con la logica della sovranità e dei confini nazionali. In primo luogo, le mura che disegnano il perimetro del confine esterno dell’UE non producono uno spazio politico in cui si danno un solo territorio, una popolazione omogenea e obiettivi politici comuni. Al contrario esse delimitano una zona in cui territori, popoli e politiche divergono e nella quale convivono «differenti livelli e luoghi dell’autorità e della comunità politica»[48]. Diversamente da quanto accadeva con il confine nazionale, poi, il governo del nuovo confine esterno e la sicurezza della spazialità complessa che esso produce non sono affidati ad un potere centrale soverchiante. È ormai un reticolo di Stati, istituzioni sovranazionali e intergovernative a prendere le decisioni su immigrazione, asilo, controllo poliziesco, prevenzione del crimine. E anche là dove ci si trova di fronte a «decisioni pur sempre nazionali», esse vanno inquadrate «sotto osservazione globale», dal momento che i loro effetti «travalicano il territorio» ed attivano i confini in modo entropico, dinamico e mutevole. Questo nuovo governo della mobilità, tendenzialmente puntiforme e coordinato, riconfigura la logica della sovranità secondo le linee presenti nel Trattato di Amsterdam. Più che di sostituire le tecniche e le pratiche di potere attivate dai sistemi e dai governi nazionali, si tratta di armonizzarle: lo si vede, ad esempio, dal programma di istituzione di un’agenzia del confine esterno che non sostituirà le polizie di frontiera nazionali, ma fornirà loro addestramento e coordinamento nell’intento comune di espellere gli indesiderabili. Per il nuovo modello di governamentalità che ha accompagnato la costruzione dello spazio Schengen, si tratta quindi di attivare pratiche condivise tra stati membri in materia di sicurezza al fine di raggiungere maggior operatività e snellezza nelle modalità del controllo.

L’«arte di governo europea» è sorta in ambito economico grazie ad un’armonizzazione tecnica che ha permesso ad iniziative decisionali comuni di espandersi su un ampio territorio senza eliminare i sistemi politici, sociali ed economici nazionali. Da tempo quella governamentalità sembra espandersi verso il terreno della sicurezza e del governo dei confini tramite la produzione di una rete di poteri che – grazie all’attivazione di un complesso di pratiche polimorfe, ad un sapiente coordinamento tecnico e alle tecnologie informatiche - sembra nettamente «orientare il governo del confine europeo e dei suoi “spazi interni”»[49]. Walters porta due esempi del funzionamento materiale di questa governamentalità a rete. Il primo è l’istituzione della figura dell’«ufficiale di collegamento», il cui compito è quello di promuovere la cooperazione tra agenzie nazionali in materia di controllo delle frontiere; il secondo è la continua ridefinizione degli schedari informatici SIS (Sistema informativo Schengen) e SIS II, che permettono un rapido scambio di informazioni in materia di migranti ritenuti a vario titolo “pericolosi” tra le varie istituzioni sicuritarie dei paesi aderenti agli accordi di Schengen. Insomma, in discontinuità con il modello della nazionalizzazione dei confini, quello che sta prendendo forma è una spazialità differente nella quale si connettono reticolarmene pratiche attivate da più soggetti sovrani (statali, capitalistici, privati, sopranazionali, internazionali) che perseguono obiettivi globali comuni, pur continuando a nutrire importanti divergenze di interesse.
A ciò Walters aggiunge che, diversamente dall’esperienza statuale del confine, che connotava l’“altro” da cui difendersi in termini marcatamente nazionali in base ad una solida distinzione tra interno ed esterno, lo spazio Schengen definisce ormai l’alterità come minaccia sociale transnazionale ad una sicurezza interna che va intesa come sicurezza nazionale ed europea al contempo. Il confine esterno d’Europa si riarma evocando un panico sociale condensato intorno a una mal distinta serie di minacce transnazionali (droga, crimine, microcriminalità, migrazioni, richieste di asilo, terrorismo, etc.).
A questo proposito, a Walters interessa indagare la dimensione “biopolitica” del confine di Schengen, quella che chiarisce i termini della relazione tra i confini e la regolazione della popolazione. Sulla base delle ricerche di Saskia Sassen (Guests and Aliens, New York, The New Press, 1999) lo studioso canadese sostiene che è la prima guerra mondiale a sancire la nascita del confine biopolitico e a istituzionalizzare la consuetudine di richiedere passaporti e visti per fronteggiare il “problema” rappresentato dalle migrazioni di massa. Il confine assume da allora la configurazione di una machina funzionale di potere-sapere che combina nuove tecnologie con vecchie pratiche di controllo: passaporti e visti ma anche certificati sanitari e fogli di invio; torri di controllo e zone di trattenimento ma anche leggi, regolamenti e uffici immigrazione. Prendono così forma dispositivi confinari disciplinari come quello di Ellis Island, dove l’efficienza e l’impersonalità del controllo medico e biografico della popolazione migrante permettono di ri-produrla ed oggettivarla come un «entità conoscibile e governabile»[50].
Rispetto ad Ellis Island, Schengen ridefinisce il dispositivo biopolitico del confine in senso ben più «flessibile, disperso e nebuloso»[51]. Il nuovo confine europeo, infatti, non si concentra più esclusivamente in luoghi di controllo, ispezione e osservazione territorialmente definiti e circoscritti. Ad una rigida frontiera esterna, si sovrappone una macchina di controllo che, reticolarmene diffusa all’interno dei paesi membri, grazie alla collaborazione tra i vari servizi sanitari, sociali e di sicurezza nazionali telematicamente connessi, dovrebbe surrogare la mancanza di frontiere interne allo spazio Schengen, e separare la popolazione migrante “laboriosa” e desiderabile da quella “pericolosa” e indesiderabile. Il confine produce così positivamente un codice che non solo discrimina espellendo, ma classifica e regola le popolazioni mobili «rendendo l’entrata facile e veloce per alcuni e difficile per altri»[52]. Un obiettivo che si raggiunge anche in virtù di quella «deterritorializzazione dei controlli di confine» che Malcom Anderson ha analizzato studiando quell’insieme di pratiche di governo della mobilità migratoria che va dai controlli sulle compagnie aeree, sulle agenzie di viaggio e sui consolati alle leggi sulle pene per i vettori; dalle pressioni sui paesi esterni alla frontiera est e sud dell’UE agli accordi bilaterali con i paesi di emigrazione e transito[53].
Walters fa molta attenzione a non applicare meccanicamente le intuizioni deleuziane sul passaggio dalla società disciplinare alla società di controllo al tema del governo della mobilità migratoria[54]. Nel confine di Schengen egli riconosce il sovrapporsi di vecchie e nuove strategie di controllo concretamente messe in opera da un complesso di pratiche governamentali di potere e sapere che – occorre aggiungere – sembrano avere un intento comune: quello “biopolitico” di regolare produttivamente la presenza della popolazione migrante all’interno dello spazio politico europeo. E ciò seguendo due direttrici ideali: in primo luogo si tratta di limitare al minimo gli elementi eccedenti presenti all’interno della popolazione migrante; al contempo, praticando l’arte dell’imbrigliamento, occorre poter mettere al lavoro il desiderio di emancipazione che aveva inizialmente spinto quella stessa popolazione a partire. Il desiderio di libertà deve essere funzionalizzato al potenziamento dell’economia dell’Unione Europea, intesa come un’area nevralgica e centrale dell’economia globale: questa sembra essere la ratio programmatica del dispositivo confinario allestito nello spazio Schengen.

4. Confini e cittadinanza nell’Europa allargata

In un libro assai denso[55] che sviluppa i temi già toccati nel saggio precedentemente menzionato, Enrica Rigo si propone di investigare le dinamiche trasformazioni dello spazio politico europeo a partire dalla dialettica tra l’estensione del suo composito ordinamento giuridico - all’interno del quale la produzione normativa comunitaria indirizza le legislazioni e le giurisprudenze nazionali - e la persistenza degli ordinamenti nazionali, il cui superamento non è affatto all’ordine del giorno (con buona pace delle retoriche sulla “fine dello Stato-nazione” o sulla destatalizzazione degli Stati membri). A partire dalle metamorfosi del diritto – là dove questo si rivela importante per la trasformazione dei rapporti sociali e delle gerarchie - e del suo ruolo nelle politiche europee di controllo dell’immigrazione, Rigo indaga le dinamiche aperte del processo europeo di «costituzionalizzazione materiale» dell’Europa attualmente in corso. Rendendo conto di come il recente allargamento dell’UE incida sulla sua Verfassung, l’autrice cerca di descrivere le nuove vesti della cittadinanza europea, intesa come un dispositivo di inclusione/esclusione che porta in sé la cifra degli effetti prodotti dal funzionamento dei confini esterni di Schengenland. Rigo ricorda che quello della cittadinanza è un dispositivo oltremodo complesso, niente affatto modellato sul solo schema della cittadinanza nazionale. Citando gli importanti lavori di Rainer Bauböck, ricorda che se è vero che per il Trattato di Maastricht «è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro», lo è altresì che la cittadinanza europea, definendo una propria comunità giuridica, mostra «un’autonoma capacità inclusiva»[56].
L’analisi dell’allargamento permette a Rigo di mettere a fuoco la complessità del processo di costituzionalizzazione materiale dell’Europa, in cui la «dimensione sopranazionale della polis europea» e i suoi singoli elementi statuali giocano un ruolo complementare. L’allargamento, infatti, ha anche rafforzato i confini nazionali proprio in virtù delle riforme delle singole legislazioni in materia di immigrazione, ridefinendo completamente, ad esempio, il regime dei visti. Rigo sottolinea però che quello europeo non è uno spazio meramente territoriale e che la sua comunità giuridica non è «sedentaria»: lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia europeo, istituito con il Trattato di Amsterdam del 1999, non equivale alla semplice somma dei territori nazionali. In discontinuità con la spazialità territorializzata dello Stato-nazione non si dà che come spazio di circolazione e “circolato”. Si tratta, infatti, di una spazialità che prende forma attraverso la comunitarizzazione delle politiche migratorie e la creazione di un diritto comune per chi vi entra dal suo esterno. La sua efficacia politica dipende anche e soprattutto dal modo in cui un esercizio del potere sovrano condiviso tra attori diversi posiziona la spazialità europea rispetto a quella che lo circonda. Citando la ratio programmatica del Consiglio di Siviglia del 2002, in cui si enfatizza il ruolo delle migrazioni tra Sud e Sud, Rigo osserva che uno degli obiettivi principali di questo spazio di circolazione è quello di gestire la mobilità del lavoro migrante «nei paesi e tra i paesi dove l’Unione europea ha interessi specifici», soprattutto quelli confinanti[57]. A tal fine viene costituito un dispositivo di spazi di circolazione gerarchizzati che permette ai paesi centrali di governare dinamicamente i flussi migratori. Non si tratta di bloccare o reprimere i movimenti dei migranti ma, al contrario, di modellare lo spazio politico e giuridico europeo proprio a partire dalla loro esistenza e dalla libertà che puntualmente agiscono attraversando i confini[58]: foucaultianamente, l’esercizio del potere si dà governando produttivamente la libertà. Il potere del confine è innanzitutto la produttiva capacità di dirigere e funzionalizzare la mobilità e le condotte dei viventi.
L’“europeizzazione” delle politiche migratorie di paesi di recente integrazione nella UE, ma anche di quelli della sponda sud del Mediterraneo, coincide con un grande processo di «esternalizzazione degli strumenti e delle misure di controllo delle migrazioni» e, in ultima analisi, con una forte spinta alla deterritorializzazione dei confini d’Europa[59]. I confini si fanno mobili e vengono deputati alla messa in forma e alla difesa del nuovo ordine europeo, spesso in nome di una sicurezza nazionale e comunitaria che, a seconda dei bisogni del sistema, apre e chiude spazi al diritto di libera circolazione. E lo fa secondo la logica reticolare e coordinata di Schengen, secondo la quale «le nozioni di “ordine pubblico” e “sicurezza nazionale” elaborate in ciascuno stato membro sono state trasferite in ognuno degli altri»[60]: anche in Polonia, Romania e Bulgaria - per tornare ai casi di studio presentati nel volume, ai quali andranno aggiunti quelli degli Stati coinvolti dai prossimi allargamenti – che nelle loro legislazioni nazionali hanno recepito la nozione comunitaria di «stranieri indesiderati», calco negativo di ogni ordine interno[61]. Per Rigo questo è un nitido esempio di come quello europeo non sia uno spazio giuridico semplicemente post-nazionale. In altri termini, negli anni ’90, con il principio dei paesi terzi sicuri, gli accordi di riammissione, i rimpatri in massa di irregolari e asilanti, la «polizia a distanza»[62] del sistema dei visti, il principio della condizionalità migratoria ed altro ancora, si è avuto un irrigidimento delle politiche migratorie europee. Questo si è presto diffuso a domino nei paesi dell’Europa centro-orientale e in quelli con essi confinanti, che sono entrati a far parte di una zona cuscinetto sorta principalmente per respingere richiedenti asilo e migranti in transito. Si è così costituito un dispositivo «transnazionale a cerchi concentrici» per l’espulsione degli stranieri che ha come terminali intermedi i paesi dell’Europa centro-orientale e che produce vincoli per paesi collocati ben aldilà dei confini ufficiali dell’UE[63]. Simili dinamiche mostrano come il confine non sia più un semplice limes ma diventi «il sito privilegiato di una sovranità condivisa» in virtù della quale la capacità di gestione e regolazione della circolazione viene fortemente accresciuta[64]. E se è vero che sono i migranti ad attivare il dispositivo confinario con la rivendicazione e la pratica del diritto alla mobilità - una mobilità materialmente “agita” -, lo è anche che il confine permette il successivo recupero di quella stessa «istanza soggettiva di mobilità»: «i confini consentono una «messa a valore» della mobilità delle persone»[65].

È ciò che appare chiaramente se si analizza quella che Rigo definisce la «funzione di differenziazione» svolta dai confini interni dell’Europa, entro i quali prende forma una gestione sempre più amministrativa delle posizioni giuridiche degli stranieri, a discapito delle garanzie offerte dal diritto penale e dal controllo giurisdizionale delle procedure. I migranti, così, rivestono uno status differenziato rispetto a quello dei locali. Analizzando le legislazioni polacche, rumene e bulgare, Rigo mostra come la logica giuridica che si sta espando a macchia d’olio nello spazio dell’UE sia quella che sottopone chi trasgredisce le norme sui confini alla detenzione amministrativa e all’espulsione. Siamo di fronte ad un’estensione progressiva dell’uso della «punizione tipica riservata ai non-cittadini»: il bando dall’ordine sociale e il marchio della non appartenenza differenziano ormai costituzionalmente i migranti dagli europei[66]. Per Rigo, infatti, in questo modo ciò che viene punito non è una trasgressione della legge, ma «il fatto stesso di trovarsi “fuori posto” (displaced) rispetto all’ordine giuridico»[67]. E in questo senso, il confine europeo fa davvero la differenza. Una differenza che si dà a vedere anche nella condizione di transitorietà indefinita nella quale, con modalità diverse, si trova a vivere ogni migrante.
Se «paragonati a quelli della “vecchia Europa” i cittadini dei nuovi paesi membri godono di uno statuto di semi-cittadinanza», in seguito ai vincoli che continuano a limitare la loro libertà di circolare nell’UE per motivi di lavoro[68]. Ma Rigo osserva anche che, «i cittadini dei paesi candidati all’allargamento godono già di alcuni privilegi rispetto ai non europei»[69]. Con le cosiddette «leggi di status», poi, è stato attivato un altro, seppur labile, livello dell’appartenenza europea. L’attivazione dei confini europei all’interno dell’area dell’UE dà insomma forma ad un dispositivo che assegna «a ogni status differenziato dell’appartenenza europea […] una posizione in un ordine gerarchico di relazioni»[70]. Sulla scia delle importanti analisi di Etienne Balibar, Rigo afferma che la costruzione e il funzionamento dei confini d’Europa «non riguarda più i suoi margini, ma il suo stesso metodo di governo»[71].
La figura e la vita dei migranti, però, non sono riducibili alla oggettivazione prodotta da una simile «macchina di differenziazione»[72]. Per Rigo i migranti sono parte integrante del processo di edificazione dei nuovi confini europei, dal momento che «non si pongono affatto al di fuori di tali confini, ma ne sono, piuttosto, la contestazione»[73]. Nell’Europa postcoloniale il loro ruolo nella definizione della cittadinanza è centrale, poiché essi sono «soggetti allo stesso tempo artefici e assoggettati» alla sfida della sua costruzione, tanto per la memoria del dominio che incarnano quanto «perché contestano il “posto” assegnato loro dai confini politici, giuridici e simbolici dell’Europa»[74]. E ciò proprio in virtù di quel gesto di attraversamento continuo dei confini che, con l’esercizio della libertà di movimento - una libertà «tutta europea» -, ne mette in discussione la dinamica di potere rifiutandone le norme, ma esibendo al contempo la richiesta di «giocare secondo quelle stesse regole di diritto» che sanciscono il limes della cittadinanza europea[75].
 

5. Ancora su delocalizzazione e immigrazione: imbrigliare il lavoro migrante

I sociologi Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto (Ammissioni e respingimenti. Come cambiano le politiche migratorie, in «Novecento», 8-9 (2003)) hanno recentemente evidenziato che la costruzione della cittadinanza europea ha pesantemente risentito della svolta restrittiva degli anni ’80 e ’90, accelerata dopo l’11 settembre dall’affermarsi dell’ideologia sicuritaria e dalla crescente militarizzazione dei confini. Già prima degli ingressi nell’UE avvenuti nel 2004, i due autori avevano infatti osservato che ad ogni allargamento dell’Unione conseguiva un riposizionamento della pratica confinaria e poliziesca. Lo dimostrava ai loro occhi il caso esemplare dell’ingresso della Polonia nell’UE, in seguito a cui «la vigilanza ai confini si è spostata dalle frontiere con la Germania a quelle con i paesi orientali, Russia, Lituania, Bielorussia e Ucraina». Il tutto sotto l’accorta sovrintendenza telematica del SIS, puntualmente aggiornato dal SIS II, nell’ottica di un più accorto controllo degli «stranieri indesiderabili»[76].
In seguito all’ufficializzazione di una simile prassi, nelle politiche migratorie dell’UE si è imposta una logica oltremodo selettiva su base nazionale ed etnicizzante, di cui fa le spese in primo luogo l’immigrazione islamica, a cui si preferisce quella semiclandestina euro-orientale e latino americana. Gambino e Sacchetto sostengono che quella dell’UE è una «politica della porta accostata»: essa permette di includere nella subalternità i migranti laboriosi «in grado di sostenere le esigenze di processi economici che fanno del rapido ricambio di manodopera uno dei loro cardini», come mostra in modo esemplare la logica soggiacente al contratto di soggiorno vincolato alla durata del permesso di lavoro previsto dalla normativa italiana[77]. I migranti laboriosi vengono appositamente collocati in un mercato del lavoro spesso etnicizzato e informale, in cui ci si può trovare immersi in «un’insensata guerra tra poveri»[78].
Nei processi di differenziazione è all’opera una logica che, come ha evidenziato Sacchetto in due recenti lavori, ha imposto e imporrà ai paesi candidati dell’Europa centro-orientale di riprodurre costantemente una frontiera che è al contempo «la nuova porta di ingresso dell’Unione europea». Ma quella porta è anche «una cortina di vetro» che sostituisce quella di ferro e che si volge ad est per trattenere lì popolazioni che «come di fronte a preziosa merce in esposizione […] si ritrovano solo a poter guardare»[79]. A partire dal diverso valore delle aree di allargamento dei confini europei Sacchetto tenta di spiegare materialmente il modo in cui delocalizzazione e investimenti produttivi provenienti dai paesi centrali dell’Unione convivono con le massicce migrazioni di un «proletariato mobile»[80].

Da una parte, gli investimenti stranieri e i correlati processi di ristrutturazione produttiva in paesi come Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Romania sono strettamente connessi al reperimento da parte delle imprese di lavoro abbastanza qualificato e a basso costo. Da un’altra parte, i differenziali salariali sono uno dei primi motori delle migrazioni anche quando esse (come nel caso di quelle “irregolari”) si dimostrano eccedenti alla domanda del sistema produttivo. Ed è ancora in virtù delle persistenti differenze del salario che i destinatari delle delocalizzazioni spesso non si acconciano alle condizioni materiali che queste producono. Migrando, essi decidono infatti di rinunciare ai loro magri vantaggi, manifestando in questo modo caratteristiche di autonomia che ci parlano di una critica concreta, anche quando irriflessa, della nuova divisione internazionale del lavoro. Allo stesso tempo, però, è pur sempre il diverso posizionamento geo-economico dei migranti non comunitari o neo-comunitari a far ritenere al padronato che la migrazione just in time dei lavoratori dalla periferia dell’Ue possa «garantire alle produzioni difficilmente delocalizzabili […] i bassi salari e gli scarsi diritti necessari per mantenere elevati i profitti»[81].
È in questo contesto che, anche grazie alla sistematica riproduzione della clandestinità per mezzo del normale funzionamento dei confini e del loro riarmo, «il padronato ha scelto di assumere i lavoratori immigrati con o senza documenti» per volgere a proprio favore i rapporti di forza con lavoro e sindacato[82]. Si tratta quindi di capovolgere il luogo comune che vede i migranti irregolari svolgere di buon grado i lavori delle tre D rifiutati dai locali: sono piuttosto gli stessi imprenditori a preferirli ai lavoratori nazionali, per imporgli quelle condizioni di lavoro a cui, se potessero sceglierlo, i migranti si sottrarrebbero. Prende così forma una peculiare modalità di quell’imbrigliamento nel mercato del lavoro che, come Yann Moulier-Boutang ha magistralmente mostrato, rappresenta da sempre il basso continuo della vicenda del lavoro migrante e del suo status giuridico[83].
In sintesi, per Sacchetto, le politiche di edificazione della cosiddetta «fortezza Europa», e la mobile riconfigurazione di confini armati che operano anche a distanza (ad esempio attraverso le politiche dei visti), producono continuamente «nuove gerarchie sociali sia al suo interno sia al suo esterno»[84]. Tuttavia, contro questo sapiente dispositivo di produzione dei confini e di oggettivazione del lavoro e della vita di chi migra, è sempre possibile attivare processi di soggettivazione per il diritto ad una libertà di movimento che in termini materiali coincida con «il diritto a vivere senza essere sottoposti alle umilianti pratiche di controllo, interiorizzazione e incasellamento e senza dover offrire perennemente un sovrappiù di laboriosità e deferenza per sdoganarsi»[85]. Per Sacchetto, un simile obiettivo non potrà essere però raggiunto senza una pratica conflittuale della politica che preservi i migranti dalle trappole retoriche del multiculturalismo egemone. La via da seguire è piuttosto quella tracciata dalla mobilitazione di Genova nel luglio 2001, in occasione della protesta contro il G8, dallo sciopero di Vicenza nel maggio 2002 e dalle dimostrazioni di protesta statunitensi del 2006.
Si tratta di eventi politici che, per il sociologo padovano, hanno sintetizzato «la resistenza formale e informale» attivata ordinariamente nei luoghi in cui i migranti vivono e lavorano, lasciando intravedere in filigrana la figura ancora indefinita di «un collettivo operaio transnazionale»[86]. Con debole forza quegli eventi hanno alluso ad una «ricomposizione di classe» che, saldando lavoratori migranti e nazionali, possa contrastare l’imponente processo di precarizzazione del lavoro in base al quale oggi si punta ad istituzionalizzare rapporti di forza che potrebbero permettere di governare tutto il lavoro che c’è come se fosse lavoro migrante[87]. Se ciò accadesse, sul piano di immanenza del controllo del lavoro – che, per quanto decisivo, è solo uno dei mille piani nei quali operano i molteplici dispositivi di potere-sapere da cui filtra l’assoggettamento materiale dei corpi e delle menti - il governo dei migranti si darebbe concretamente a vedere per quello che, più in generale, oggi in buona misura sembra essere diventato: un non-luogo in cui sperimentare una prassi dell’esercizio del potere generalizzabile, direttamente ispirata alla razionalità neoliberale e alle sue utopie; un laboratorio entro il quale testare nuove forme di governamentalità estendibili a tutti.

Note

[1] G. Deleuze, Contrôle et devenir, in Id, Pourparlers, Paris, Editions de minuit, 1990, 232.

[2] G. Sivini, Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 5.

[3] A. Vitale, Verso un ordine imperiale delle migrazioni, in G. Sivini (ed.), Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività, Soveria Mannelli, Rubettino, 2005, 12.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, 14.

[7] Ivi, 16.

[8] ILO, Towards a Fair Deal for Migrant Workers in The Global Economy,Geneve, 2004, 1.

[9] A. Vitale, Verso un ordine imperiale cit., 23.

[10] IOM, World Migration 2003 cit., 19.

[11] A. Vitale, Verso un ordine imperiale cit., 25.

[12] Presentazione, in G. Sivini (ed.), Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività cit., 6.

[13] F. Düvell, La globalizzazione del controllo delle migrazioni, in S. Mezzadra (ed.), I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee, Roma, DeriveApprodi, 2004, 23-50.

[14] Ivi, 28-29.

[15] Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Bologna, il Mulino, 1999.

[16] F. Düvell, La globalizzazione del controllo delle migrazioni cit., 35.

[17] Ivi, 38-39.

[18] A. Vitale, Verso un ordine imperiale cit., 28.

[19] Ivi, 32.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, 36.

[22] Ibidem.

[23] IOM, World Migration 2005: Costs and Benefits of International Migration, Geneve, 2005, in A. Vitale, Verso un ordine imperiale cit., 37.

[24] Ivi, 38.

[25] G. Sivini, Le migrazioni dal fordismo alla globalizzazione, in: G. Sivini (ed.), Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività cit., 40.

[26] S. Amin, a cura di, Modern migrations in Western Africa, London, Oxford UP, London, 1974, 32-33.

[27] R. Cohen, The New Helots: Migrants in the International Division of Labour, Gower, Alderhots, 1987, 139.

[28] G. Sivini, Le migrazioni dal fordismo alla globalizzazione cit., 48.

[29] Ivi, 57.

[30] Ivi, 49.

[31] Ivi, 61.

[32] Ivi, 62.

[33] Ibidem.

[34] L’obiettivo polemico di Sivini è l’importante lavoro di S. Mezzadra, Diritto di fuga Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione (2001), Verona, Ombre Corte, 2006². Mezzadra ha risposto alle critiche nella nuova edizione del testo con interessanti argomentazioni che richiedono di essere affrontate come meritano in altra sede. Mi limito qui a suggerire che le giuste argomentazioni di Sivini non appaiono orientate verso il bersaglio opportuno.

[35] G. Comisso, Migrazioni: la soggettività oltre il pensiero di Stato. Considerazioni critiche su La doppia assenza di Abdelmalek Sayad, in G. Sivini (ed.), Le migrazioni tra ordine imperiale e soggettività cit., 77.

[36] Ibidem.

[37] Su questo punto l’autrice richiama anche le celebri note di Foucault sul biopotere: «il biopotere tende ad assumere la vita e i suoi meccanismi, per divenire un agente di trasformazione della vita umana; questo, tuttavia, non significa che la vita sia stata integrata in maniera esaustiva alle tecniche che la dominano e la gestiscono. Essa fugge loro senza posa. Le forze che resistono si appoggiano proprio su quello che il potere investe, cioè sulla vita e sull’uomo in quanto essere vivente». M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 128.

[38] Ivi, p. 79.

[39] Ivi, 88.

[40] Ivi, 77.

[41] Ibidem. Cfr. anche M. Foucault, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Milano, Mimesis, 1994.

[42] G. Commisso, Migrazioni cit., 92.

[43] Ibidem.

[44] F. Düvell, La globalizzazione del controllo delle migrazioni cit., 32.

[45] Ivi, 35.

[46] Ibidem.

[47] W. Walters, Welcome to Schengenland cit., 51.

[48] Ivi, 61.

[49] Ivi, 63.

[50] Ivi, 69.

[51] Ivi, 71.

[52] Ivi, 72.

[53] M. Anderson, The Transformation of Border Controls, in P. Andreas, T. Snyder (eds), The Wall around The West: State Borders and Immigration Controls in North America and Europe, Lanham Md., Rowman and Littlefield, 24, cit. in W. Walters, Welcome to Schengenland cit., 71.

[54] Cfr. G. Deleuze, Post scriptum sulle società di controllo, in Id, Pourparlers, cit.

[55] E. Rigo, Europa di confine, Roma, Meltemi, 2006.

[56] Ivi, 86.

[57] Ivi, 108.

[58] «Gli spazi che l’Europa governa non sono altri che quelli disegnati dai migranti in questi attraversamenti» (Ivi, 112).

[59] Ivi, 108.

[60] Ivi, 127.

[61] Ivi, 130.

[62] Cfr. D. Bigo, E. Guild, Le Visa schengen: expression d’une stratégie de “police” à distance, «Culture et conflits», 49-50 (2003).

[63] E. Rigo, Europa di confine cit., 136.

[64] Ivi, 138.

[65] Ivi, 139.

[66] Ivi, p. 143.

[67] Ivi, p. 149.

[68] Ivi, p. 152.

[69] Ibidem.

[70] Ivi, p. 153.

[71] Ivi, p. 154.

[72] E. Balibar, Prefazione. I l diritto al territorio, in E. Rigo, Ai confini dell’Europa, cit., p. 16.

[73] E. Rigo, Europa di confine, cit., p. 29.

[74] Ibidem.

[75] Ibidem.

[76]F. Gambino, D. Sacchetto, Ammissioni e respingimenti cit. 107.

[77] Ivi, p.108.

[78] Ibidem.

[79] D. Sacchetto, Nuovi e vecchi attori nello spazio europeo, cit. in link, 165.

[80] Ivi, 175. Con un’analisi al contempo concettuale ed empirica, condotta sul terreno della delocalizzazione produttiva in Romania e dell’immigrazione in Veneto, Sacchetto ha analizzato più a fondo questa doppia dinamica produttiva del confine nel bel volume Il nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, Verona, Ombre Corte, 2004.

[81] Ivi, 175.

[82] D. Sacchetto, Quale lavoro e lavoro migrante, cit., in link, 71.

[83] Cfr. Y. Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Roma, Manifestolibri, 2002.

[84] D. Sacchetto, Nuovi e vecchi attori nello spazio europeo cit., 178.

[85] Id, Quale lavoro e lavoro migrante cit., 76.

[86] Ibidem.

[87] Ivi, 76-77.