In questo contributo intendo approfondire alcuni aspetti sociali e culturali che riguardano l’organizzazione del matrimonio nella campagna milanese nel XVIII secolo, con qualche accenno al XIX
secolo, consapevole che l’argomento non si può esaurire in poche battute e che lo spazio a disposizione è sufficiente solo per un “assaggio” di un piatto ben più ricco.
Sulla storia del matrimonio, negli ultimi decenni, sono state condotte numerose ricerche che hanno rivolto l’interesse agli aspetti più disparati dell’argomento, dalle relazioni sociali
intrattenute dalle famiglie degli sposi ai matrimoni fra consanguinei, dalle consuetudini precedenti al Concilio di Trento alle norme post-conciliari in materia, dalle pratiche in uso nelle
comunità del passato per approvare o disapprovare un’unione al concubinato prematrimoniale (o a quello vissuto in alternativa al matrimonio), dalle separazioni ai divorzi, solo per citare alcune
delle tematiche affrontate[1]. Certamente, dal momento che l’occhio dello storico indaga nel passato per capire meglio il presente,
l’interesse nei confronti di tale materia si è acuito in buona parte grazie al dibattito politico che si è aperto in diversi paesi europei sulla questione delle convivenze, dei PACS, dei matrimoni omosessuali, dibattito che si collega a quello sulla storia della famiglia, delle sue caratteristiche di continuità e discontinuità fra passato e
presente. Parallelamente anche le ricerche sulla storia del matrimonio in Italia si sono moltiplicate ma la città di Milano, il suo contado e la campagna circostante non sono ancora stati oggetto
di studi approfonditi, nonostante la documentazione presente nei diversi archivi sia numerosa e di buona qualità[2].
Se, con il Concilio di Trento, la cerimonia in chiesa diventa il momento che legittima l’unione della coppia, tuttavia essa non rappresentava che l’ultima tappa di un percorso molto articolato e non sempre lineare. La dote, la conoscenza degli sposi, la risoluzione di alcune questioni burocratiche erano infatti tappe fondamentali per accedere al matrimonio. Nel Milanese compiere senza lungaggini il percorso che conduceva all’altare era importantissimo per una giovane coppia, anche perché, di norma, nelle famiglie dei ceti popolari, solo coloro che erano sposati potevano prendere parte alle decisioni collettive, mentre nubili e celibi avevano un ruolo subordinato all’interno della casa[3].
Una dote per ciascuna fanciulla
“Ci sarebbe Caterina Tumminello”
“Quant’avi?”
“Trentadù”
“E com’è che ancora non è maritata?”
“Zoppicchìa”
[…]
“Non mi persuadi”
“E po’ avi’ ‘na bella doti. Tri sarme di terra dalle parti di contrada Spinuzza e il corredu a sei a sei”[4].
In questo modo, non privo di ironia, Andrea Camilleri racconta la contrattazione di un matrimonio fra un contadino e la mezzana incaricata di trovargli una moglie, nella Sicilia dei primi del ’900. Si tratta di una descrizione verosimile, dal momento che, in tutta Italia, fino alla fine del XIX secolo e oltre, una dote era indispensabile alle donne per sposarsi, sebbene già nel corso dell’Ottocento, in diverse regioni, tra cui proprio la Sicilia, le modalità per dotare una fanciulla andassero gradualmente cambiando[5].
In linea di principio, le ragazze avevano diritto ad ottenere una dote, e nel Milanese in effetti era di solito la famiglia a mettere da parte del denaro per le figlie nubili che dovevano essere
collocate in matrimonio. Tuttavia, se la famiglia era troppo povera per occuparsene, erano le figlie stesse a cercare di racimolare una piccola dote, lavorando. Siccome la piccola proprietà
contadina era praticamente assente nella campagna milanese, la dote non era costituita da un appezzamento di terreno lasciato dal padre alla figlia, ma era solitamente in contanti e in beni mobili.
Come in Sicilia, anche qui vi era una figura che metteva in relazione la famiglia dello sposo con quella della sposa: era il sensale, chiamato in dialetto camarada (che significa
“compagno”) o marossee (al femminile marossera), termine di origine longobarda[6]. La sua intermediazione veniva
ricompensata solitamente con il dono di qualche oggetto di valore, come una camicia in seta, e più raramente in denaro. Per costui conoscere l’ammontare della dote della fanciulla, al fine di
cercare un marito adatto alla sua condizione, era indispensabile.
Il fatto che alcune famiglie, a causa della povertà, non potessero permettersi di dotare le figlie, non escludeva automaticamente le giovani dal matrimonio. Alcuni proprietari terrieri concedevano,
infatti, ai propri contadini, un prestito che veniva annotato nei libri paga del fattore e che veniva restituito al padrone grazie a giornate di lavoro in più nell’azienda agricola o nella filanda,
da parte della figlia “da maritare” o da parte di qualche altro componente della casa[7]. Vi era poi la beneficenza delle parrocchie,
gestita direttamente dai parroci, che potevano decidere occasionalmente di donare una quota dell’elemosina della chiesa a una nubile povera e senza dote.
A Milano, così come avveniva in altre città italiane[8], esistevano inoltre diversi enti che si occupavano di dotare le fanciulle prive
di mezzi e a cui potevano rivolgersi anche le residenti in campagna. Secondo un “censimento” del 1769, esistevano nella sola città di Milano 153 luoghi pii che si occupavano di “limosine e doti”,
di cui 124 elargivano sia elemosine che doti o esclusivamente doti[9]. Diversi enti assistenziali, inoltre, tra i quali la direzione del
brefotrofio dell’Ospedale Maggiore prima, e di Santa Caterina alla Ruota poi[10], erogavano doti per le loro assistite – le esposte in
questo caso – che intendessero prendere marito. La dote era accordata a tutte le “figlie dell’Ospedale” ovunque risiedessero, veniva consegnata contestualmente al matrimonio e con essa il
brefotrofio considerava estinto ogni dovere nei confronti dell’assistita: “maritata che sarà una figlia, si ritiene per sempre fuori di qualunque relazione con la Pia Casa”[11].
Ho analizzato, a titolo di esempio, le tipologie di doti erogate nel 1769 dagli istituti presenti a Milano nella zona di Porta Orientale. I 22 “ricapiti” che erogavano doti in questo circondario
assegnarono complessivamente 273 doti, oltre ad altre che non erano quantificabili perché si basavano su scritture di privati che delegavano ai luoghi pii di regolare la quantità di denaro messa a
disposizione a seconda del numero di domande pervenute e della condizione delle “nubende”[12]. Complessivamente il numero di doti
offerte dai luoghi pii di Porta Orientale era molto elevato: come in altre parti d’Italia, anche a Milano la beneficenza dotale era moralmente considerata una delle forme assistenziali più nobili,
dal momento che permetteva alle donzelle di sposarsi, tutelandone l’onore[13]. Per quanto riguarda le tipologie di elemosine dotali
amministrate dalle opere pie di Porta Orientale, si può notare come la maggior parte delle doti, ben 221, fosse definita, per volontà del testatore, come “non vincolata a Sito, o Famiglia, ma da
distribuirsi ad arbitrio” della direzione del luogo pio: a queste doti potevano accedere anche le nubili di campagna accompagnate da una fede parrocchiale di povertà. Altre 27 erano destinate, per
volontà del benefattore, a donne residenti nella parrocchia in cui si trovava la direzione dell’ente che ne gestiva l’erogazione; le rimanenti 25 erano vincolate a discendenti della famiglia del
benefattore, alle orfane di una precisa località o parrocchia, o a particolari categorie di donne, come le cinque “femmine peccatrici penitenti” a cui erano destinate annualmente cinque doti di 40
lire ciascuna, secondo il legato di Gio Batta Carono, amministrato dal luogo pio di Santa Maria della Pietà in San Barnaba, o quella istituita da Giulio Cesare Lampugnani per “sei femine vedove o
peccatrici”. Tra le doti vincolate ad una precisa parrocchia, alcune erano destinate a località di campagna, come stabiliva per esempio il legato Carono che, nel Settecento, prevedeva la
distribuzione annuale di 6 doti da 100 lire alle fanciulle di Origgio, o un legato amministrato dal Convento di Sant’Eustorgio, che ogni anno dava in dote a una fanciulla di Cuggiono il ricavato di
un appezzamento di terra di quel borgo[14].
Una statistica del 1832, cioè di oltre sessant’anni posteriore ai dati appena analizzati, ribadisce la facilità con cui le nubili di campagna avevano accesso ad una dote “benevola”, sottolineando
anzi come queste fossero avvantaggiate rispetto alle nubili di città, perché “più bisognose”. Il Pio Istituto elemosiniero e dotale, che dal 1786 gestiva il patrimonio di tutti gli enti dotali
milanesi, spese infatti in quell’anno 4.906 lire per le doti delle fanciulle cittadine e 13.562 lire per quelle destinate alle ragazze di campagna[15].
Un’ultima modalità con cui le giovani di campagna potevano accedere a una dote erano i legati gestiti direttamente dalle parrocchie rurali, somme di denaro lasciate da benestanti o da sacerdoti del
luogo[16]. È molto difficile, se non impossibile, conoscere la quantità e l’ammontare totale di questi legati. Nella piccola località
di Vanzago, per esempio, la parrocchia gestiva dal Settecento l’opera pia Belloni, istituita nel 1745 con un capitale di 622 lire, che si occupava di erogare annualmente una dote a una nubenda
povera del comune a discrezione del parroco[17]. Nell’Ottocento, si aggiunse l’opera pia Bonati, istituita grazie al lascito
testamentario del sacerdote Bernardo Bonati nel 1821, con un patrimonio di 3124 lire, a sussidio dei poveri e delle partorienti, ma anche delle nubili “se avanza”[18], formula peraltro utilizzata anche da alcuni enti elemosinieri milanesi.
Anche a Cantalupo, Cerro Maggiore, Nerviano e Pogliano, località rurali situate a Nord Ovest di Milano in cui mi è stata consentita la consultazione degli archivi parrocchiali, si trovano tracce di
legati dotali. In particolare a Nerviano, parrocchia capopieve, sono conservate diverse lettere rivolte dai parroci al vicario foraneo, risalenti al XVIII secolo e alla prima metà del XIX, nelle
quali vi è la richiesta di poter accedere a un legato piuttosto che a un altro, o di sapere se in una comunità della pieve vi fosse qualche lascito inevaso in un determinato anno, di cui potesse
venire in possesso una nubile povera di un’altra parrocchia[19]. È interessante notare come in queste lettere si faccia un costante
riferimento alla buona condotta morale delle ragazze e alla loro povertà. Al contrario che in città, non vi è traccia negli archivi parrocchiali di lasciti per donne “pericolate” o
“peccatrici redente”, ma neppure per fanciulle che avessero voluto accostarsi alla vita claustrale[20]. Il maggiore controllo sociale
esercitato sulla popolazione di campagna dalle autorità locali e l’abitudine delle “peccatrici” (ragazze madri, mendicanti, prostitute, etc.) a spostarsi verso la città, dove potevano perdersi fra
la folla dei bisognosi o rivolgersi a qualche ente assistenziale, rendevano inutile l’erogazione in campagna di tali tipologie di doti. Bisogna però ricordare che in città le doti concesse alle
peccatrici erano di gran lunga inferiori di numero rispetto a quelle destinate alle “povere citelle” oneste: non solo la buona condotta morale era esplicitamente richiesta in molti legati, ma anche
la frequenza alla dottrina cristiana, come accadeva per esempio per le doti della Confraternita de’ Disciplini de Santi Pietro in Scaldasole e San Martino in Porta Ticinese, che concedeva 12 doti
di 100 lire ciascuna a “12 povere figlie nubili della parrocchia di San Lorenzo Maggiore di fuor di questa città che abbiano frequentato per due anni la Dottrina cristiana solita farsi nella detta
Chiesa di San Pietro in Scaldasole”[21].
L’ammontare di una dote “benefica”
È difficile sapere quanto valesse in media una dote fornita alle figlie da una famiglia contadina, ma si può presupporre che solitamente fosse inferiore alle 100 lire imperiali[22], che era quanto erogato dall’Ospedale Maggiore alle esposte, una cifra volutamente elevata, grazie alla quale le “figlie dell’Ospitale” non faticavano a trovare uno sposo non miserabile[23]. Utilizzando ancora una volta a titolo di esempio i “ricapiti” di Porta Orientale, si può notare che le 273 doti distribuite nel 1769 erano inferiori alle 50 lire milanesi nel 49,1% dei casi, comprese fra le 50 e le 99 lire nel 38,1% dei casi, il 12,1% era invece fra le 100 e le 199 lire. Solo lo 0,7% delle doti era costituito da una cifra superiore alle 200 lire: si trattava di due doti erogate dal Regio Collegio della Guastalla e destinate alle “figlie del Collegio”, che di certo non provenivano da famiglie povere di campagna. La prima era una dote di 2000 lire, per il collocamento spirituale o temporale di una fanciulla, la seconda, di 1000 lire, era rivolta a una giovane che “abbracci lo stato monacale”. Se le doti inferiori alle 100 lire erano rivolte a “citelle” povere, quelle comprese fra le 100 e le 199 lire erano in genere concesse a donne che avevano maggiori difficoltà a trovare un marito rispetto alle altre e per le quali una buona dote poteva essere l’inizio di un riscatto sociale: le orfane, le vedove, le peccatrici e le meretrici. Alcune erano invece semplicemente vincolate alla famiglia del legatario. Anche tra i luoghi pii degli altri rioni della città la situazione era simile a quella descritta per Porta Orientale, sebbene non mancassero le eccezioni interessanti, come quella del Luogo pio di Santa Corona, in Porta Ticinese, che distribuiva 12 doti di 150 lire ciascuna, quindi piuttosto elevate, “che si tirano a sorte da 96 figlie ammesse alla ballottazione”, e 2 doti da 2000 lire ciascuna a “povere figlie nobili e nubili”, sempre per “ballottazione” fra le donne designate dal capitolo di Santa Corona. Nella Milano “benefica e previdente”[24] del Settecento, era cioè prevista anche una sorta di “ruota della fortuna” per l’accesso a una dote.
Non sappiamo se la solidarietà dotale così diffusa e capillare – basti pensare che nel solo quartiere di Porta Orientale, qui analizzato, nel 1769 furono assegnate 24.877,1 lire milanesi in assegni dotali –, fosse sufficiente per “accasare” tutte le donne che ne facevano richiesta. Si può però supporre che le fanciulle bisognose fossero più numerose di quelle che effettivamente riuscivano ad ottenere una dote dagli enti milanesi. Fra le carte parrocchiali del Settecento, ma ancora di più nell’Ottocento, si trovano infatti le testimonianze di interventi diretti dei parroci a sostegno delle nubende. Scrive nel 1853 il parroco di Cantalupo, commentando il matrimonio di una parrocchiana: “la soccorsi con 10 lire e 7 soldi (elemosina dei poveri) per la sua miseria”[25].
“Dormì anmo sulla cassinna”: sposarsi per ottenere una promozione sociale
In genere le donne racimolavano il denaro per la dote in tempi lunghi, spesso antecedenti alla conoscenza del futuro marito e si ricorreva agli enti elemosinieri solo in caso di estrema povertà
attestata dal parroco. Nonostante ciò, nella campagna da me analizzata ci si sposava piuttosto presto e una donna che non aveva ancora trovato marito a 26-27 anni era considerata “zitella”[26]. Anche gli uomini si sposavano giovani: mediamente prendevano moglie intorno ai 25 anni, ma fra i contadini l’età media al primo
matrimonio era addirittura inferiore di uno o due anni. Sposarsi, infatti, era in molti casi (anche se non sempre), un modo per ottenere una promozione sociale all’interno della casa.
Fra i contadini vi era un modo di dire per indicare i figli celibi, che non avevano potere decisionale nell’aggregato domestico: “dormì anmo sulla cassinna”. Questo modo di dire era
stato coniato in riferimento alle famiglie di pigionanti, nelle quali, a causa della ristrettezza delle abitazioni, solo i genitori assieme ai figli
piccoli riposavano nel letto, mentre le figlie nubili dormivano su dei pagliericci posti per terra in una stanza e i maschi celibi si coricavano nella stalla durante l’inverno o nei sottotetti
durante l’estate. Da qui il dialettale “dormì anmo sulla cassinna”, che significa letteralmente “dormire ancora sulla cascina”, intendendosi, in questo caso, con il termine “cascina”, i
sottotetti delle case o delle stalle e le tettoie che fungevano da camere da letto per gli scapoli[27]. Il detto era
comunque usato genericamente negli aggregati contadini, e non solo fra i pigionanti, ad indicare che vi era una precisa gerarchia interna fra chi aveva il potere decisionale, o comunque partecipava
alle decisioni (il capofamiglia e, negli aggregati di massari, assieme a lui, gli altri maschi sposati, fratelli o figli del capofamiglia, chiamati
“consorti”, su cui torneremo più avanti), e chi invece ne era escluso, perché celibe.
Fra i contadini del Milanese, ma spesso anche fra gli artigiani, a far la differenza fra l’età adulta, con il suo carico di oneri e responsabilità, e la giovinezza, non era tanto l’età, ma il
matrimonio. Per tradizione, un uomo poteva diventare capofamiglia solo dopo essersi sposato ed erano rari i casi di capifamiglia celibi all’interno di un aggregato domestico. Analizzando le
caratteristiche delle 307 famiglie residenti stabilmente in loco e censite nello Stato d’anime della parrocchia di Nerviano del 1765, si contano 14
capifamiglia celibi, 249 sposati, 19 vedovi e 25 donne (di cui una “zitella” di 28 anni, che vive da sola, una donna “semifatua”[28],
e 23 vedove)[29].
Celibi e donne rappresentano rispettivamente il 4,9% e il 7,8% dei capifamiglia. In genere, quando in un aggregato veniva a mancare la figura maschile adulta di riferimento, il ruolo e le
responsabilità di pater familias ricadevano sul figlio maschio sposato più grande d’età. In mancanza di un maschio sposato, il ruolo veniva assunto dalla vedova, purché non fosse troppo
anziana o malata. A Nerviano, su 23 vedove capofamiglia, 4 vivono da sole, 9 assieme a figli piccoli o a figlie femmine, 8 sono invece a capo di un aggregato domestico con un figlio maschio celibe
di 17 e più anni, mentre una vive con un figlio maschio sposato e un’altra con la figlia e il cognato. Tranne che in casi particolari, come gli ultimi due qui elencati, di solito le vedove con
figli maschi celibi cedono il ruolo di capofamiglia al figlio subito dopo il matrimonio di questo. Seguendo per qualche anno le vicende di una famiglia di pigionanti, retta dalla vedova Maria
Maddalena Bosotti, si scopre appunto che, appena il figlio maggiore, Daniele, nel 1786 si sposa, la madre abbandona le vesti di capofamiglia, lasciando al figlio tale ruolo[30].
Per quanto riguarda i 14 celibi indicati come capifamiglia, 7 di questi, cioè la metà, sono sacerdoti, 3 vivono assieme a fratelli e sorelle non sposati, o assieme a cognate vedove, solo 4 sono
riusciti a diventare capifamiglia nonostante la presenza della madre, che però è appunto anziana o inferma. A questi celibi a capo di un aggregato, così come ai vedovi con figli piccoli, veniva non
di rado fatta pressione da parte del proprietario terriero affinché si sposassero, soprattutto quando in casa non vi erano donne che si preoccupassero della “corporale pulitezza” e perché una
famiglia in cui il nucleo centrale era costituita dalla coppia di sposi garantiva l’ordine sociale voluto da Dio e la continuità sulla terra da coltivare, grazie alle generazioni successive[31].
Ovviamente il matrimonio da solo non bastava per divenire il pater familias. Il capofamiglia era quasi sempre l’uomo più anziano e sposato, oppure vedovo e, soprattutto nei grandi
aggregati massarili, difficilmente un uomo giovane e appena sposato poteva assumere tale ruolo. Come gli altri maschi sposati, otteneva il ruolo di “consorte”. I consorti avevano un carico di
responsabilità e un potere decisionale limitati, tuttavia erano comunque referenti di fronte al proprietario terriero in caso di assenza o malattia del capofamiglia e, alla sua morte, era tra
costoro che si sceglieva il nuovo pater familias. Ai maschi celibi, invece, non spettava nessun ruolo decisionale, piuttosto poteva accadere che fossero mandati a servizio presso altri
contadini, proprio per volontà del pater familias.
Anche per le donne le nozze erano una tappa fondamentale e, come per gli uomini, anzi, in maniera ancora più netta, la giovane sposa era soggetta all’autorità di altri componenti della famiglia.
Nella campagna milanese esisteva infatti il modello di residenza patrivirilocale: la cerimonia era celebrata nella parrocchia della sposa, ma poi la
coppia si trasferiva nella casa paterna dello sposo. L’espressione “dormì anmo sulla cassinna” si riferiva anche al fatto che il celibe dormiva all’esterno della casa o nel sottotetto
finché la moglie non gli avesse portato in dote il letto o il denaro da utilizzare per la fabbricazione o l’acquisto del talamo nuziale.
Mentre un uomo poteva crescere e trascorrere tutto il tempo della sua vita nella casa natale, se vi erano condizioni economiche per rimanere sullo stesso appezzamento per molti anni, per una donna il matrimonio rappresentava un momento di enorme cesura con il passato, perché comportava non solo un trasferimento in un’altra abitazione ma anche il fatto di essere accettata dalla famiglia dello sposo. Nelle famiglie di pigionanti, quando i genitori dello sposo erano entrambi ancora vivi, la giovane moglie assumeva un ruolo subordinato rispetto alla suocera, mentre, qualora il padre dello sposo fosse morto, allora la neo-moglie diveniva, un po’ alla volta, la figura femminile di riferimento all’interno della casa. Nelle famiglie massarili, invece, la neo-sposa era sotto la diretta direzione della resgiöra, la reggitrice, cioè la moglie del reggitore-capofamiglia e a lei doveva ubbidire. Si diceva che la reggitrice fosse colei che “faceva le minestre”, ossia che aveva un ruolo di dirigenza di tutto il lavoro domestico e del “personale” (figlie, cognate, etc)[32]. Era infatti la reggitrice che impartiva i compiti a tutte le donne di casa, decidendo chi dovesse pulire il pollaio, chi dovesse occuparsi della casa e dell’orto, e infine chi dovesse badare ai bambini più piccoli.
Verso il matrimonio: la conoscenza e la burocrazia
Spostarsi in un’altra famiglia significava non di rado trasferirsi in un’altra comunità. Se è vero che, in alcuni casi, le tappe della conoscenza degli sposi erano facilitate dalla vicinanza delle case e addirittura non mancano gli esempi di sposi nati e cresciuti nello stesso cortile, tuttavia spessissimo le modalità di conoscenza fra i promessi sposi erano più complesse.
Al contrario che nelle comunità alpine del Comasco, a pochi chilometri dalla zona considerata, dove le coppie si formavano nel paese e spesso fra consanguinei[33], nella campagna milanese, le coppie erano frequentemente formate da un uomo e da una donna provenienti da località differenti e senza nessun legame di parentela. A
Cantalupo, Cerro, Nerviano, Pogliano e Vanzago, nella seconda metà del Settecento, una percentuale fra il 45 e il 60% dei matrimoni era celebrata fra una donna della parrocchia e un uomo
proveniente da un’altra comunità. I casi in cui lo sposo proveniva da Milano erano rari e nessuna contadina sposava un milanese. Non bisogna infatti dimenticare che il “collante” dei matrimoni, a
parte alcune sporadiche eccezioni, era la cosiddetta “endogamia occupazionale”, in base alla quale contadini e contadine si sposavano preferibilmente fra di loro e, se possibile, i massari con le
massare e i pigionanti con le pigionanti[34]. I milanesi non sono del tutto assenti dai registri di matrimonio delle parrocchie
rurali: ne ritroviamo alcuni come mariti di donne di campagna che svolgevano mestieri affini (osti, bottegai, maestri, etc.).
Su un campione di 75 matrimoni celebrati a Nerviano fra il 1750 e il 1800, i fidanzati residenti entrambi in loco erano 33 mentre le coppie costituite da una donna di Nerviano e da un uomo
proveniente da un’altra parrocchia erano 42. La maggior parte degli sposi che veniva da fuori era residente a Parabiago e a Villastanza, nelle immediate vicinanze di Nerviano, ma erano numerosi
anche gli sposi di località un po’ più lontane (Garbagnate, Saronno, Inveruno), comunque a non oltre 15-20 chilometri di distanza[35].
Se il palcoscenico per i momenti d’incontro per due giovani residenti nella stessa comunità erano i luoghi pubblici come la piazza, la chiesa e le vie del paese, ma anche le stalle e i cortili che,
con la loro forma rettangolare e il portone quasi sempre aperto, ospitavano diverse abitazioni appartenenti a famiglie diverse, più difficile è comprendere quali fossero le tappe della conoscenza
per due giovani residenti in villaggi differenti. Indubbiamente le famiglie giocavano un ruolo importante nella scelta del coniuge, forse maggiore quando i due giovani vivevano lontani e non vi
erano occasioni casuali di incontro. Non sempre però l’intermediazione dei padri e delle madri era determinante. La libera scelta veniva auspicata anche dalle gerarchie ecclesiastiche, erano
comunque ritenute opportune alcune limitazioni, cioè una precisa appartenenza culturale e di ceto[36]. Quando, nel 1796, poco prima
dell’arrivo dei francesi, il nobile Francesco Maria Maggi, residente in Parabiago, scopre che il figlio Pietro non solo desidera sposare la figlia di un macellaio di Nerviano a servizio a
Parabiago, ma ha già preso accordi con il parroco per la celebrazione del matrimonio, a cui sono seguite le tre pubblicazioni, non esita a scrivere al
sacerdote, affinché quel matrimonio non abbia luogo. La motivazione fondamentale del reclamo di Francesco Maria Maggi è la “disparità dei natali”, connessa al fatto che il futuro suocero non ha
ancora comunicato l’ammontare della dote, oltre ad altri motivi che il padre non reputa conveniente mettere nero su bianco in una missiva[37]. Se è vero che il consenso paterno non era vincolante per celebrare un matrimonio[38], è altrettanto vero che la
Chiesa osteggiava i matrimoni con “disparaggio di natali”. I padri, inoltre, potevano richiedere l’intervento dell’autorità civile per impedire le nozze, attraverso un vero e proprio sistema di
“lettres de cachet”, come è testimoniato dalla nota vicenda del matrimonio fra Cesare Beccaria e Teresa Blasco (o de Blasio)[39].
Anche nella storia di Francesco Maria e Pietro Maggi l’intermediazione richiesta dal padre al parroco voleva avere un carattere dissuasivo ma, alla fine, sarà proprio Francesco Maria Maggi ad
arrendersi alla volontà del figlio e a dare il suo consenso al matrimonio (a quanto pare dopo un accordo sulla dote della ragazza). Ancora prima del marossee di matrimoni, è infatti
proprio il parroco a essere uno degli intermediari più autorevoli fra gli sposi e le famiglie: egli conosce i suoi parrocchiani, è spesso la figura con più autorità all’interno di un paese ed è in
grado di districarsi con la burocrazia. Per questo motivo il parroco è anche colui che nella maggior parte dei casi si occupa di procurare agli sposi, spesso analfabeti, tutta la documentazione
necessaria affinché il matrimonio abbia valore sia religioso che civile[40].
Sebbene le tipologie di dispensa più conosciute e studiate dagli storici siano quelle di consanguineità, largamente diffuse per esempio nei villaggi alpini[41], nella campagna milanese i matrimoni fra consanguinei erano rari. Si ricorreva spesso, tuttavia, ad altre tipologie di dispense
matrimoniali, quelle di minor età, quando uno o entrambi gli sposi erano minorenni, e quelle “di sacro tempo”, quando ci si intendeva sposare in un periodo proibito dalle norme ecclesiastiche.
Con la attuazione della Ehepatent nel 1784 venne infatti introdotto in Lombardia il matrimonio civile e si stabilì che si era maggiorenni, al fine di contrarre matrimonio, al compimento del ventesimo anno d’età a Milano e in tutta la sua provincia (nel Pavese e nel Cremonese, la maggior età fu però fissata al compimento del venticinquesimo anno d’età)[43]. Successivamente questi limiti furono spostati più volte: l’editto del 5 agosto 1793 portò la maggior età a 24 anni per tutti i sudditi lombardi; la legge 24 luglio 1797 spostò nuovamente questo limite a 20 anni; con l’applicazione del Code Napoléon, infine, la maggior età fu riportata a 24 anni[44]. Siccome i contadini del Milanese si sposavano molto giovani – secondo i calcoli statistici condotti su alcune località per il primo Ottocento, l’età media al matrimonio per le donne era attorno ai 22-23 anni e per gli uomini, come si è visto, attorno ai 25[45] –, le dispense di minor età erano molto richieste, come dimostrano le numerosissime domande di dispensa che portano il sigillo di approvazione della pretura di Saronno o di Busto Arsizio, relative alla Pieve di Nerviano e conservate nell’archivio parrocchiale[46].
L’altra tipologia di dispensa generalmente richiesta ai parroci, indirizzata questa volta a un’autorità religiosa, il vicario generale, era quella di sacro tempo. Per i contadini i mesi più adatti per celebrare le nozze erano gennaio e febbraio, quando il lavoro nei campi era fermo. In alcuni luoghi anche ottobre e novembre erano mesi ritenuti idonei per sposarsi, nonostante le operazioni di vendemmia. Su un campione di 132 cerimonie celebrate a Nerviano fra il 1770 e il 1800, 85 si collocano a gennaio, 26 a febbraio e solo 21 negli altri mesi[47]. A Vanzago la situazione non era molto differente: degli 85 matrimoni del decennio 1750-1759, 60 ebbero luogo fra gennaio e febbraio e altri 10 fra ottobre e novembre[48]. Nei restanti otto mesi furono celebrate solo 15 cerimonie. Vi erano due periodi dell’anno in cui, secondo le disposizioni ecclesiastiche, era vietato sposarsi, vale a dire la Quaresima e l’Avvento[49]. Se si voleva contrarre matrimonio in uno di questi periodi bisognava presentare motivazioni fondate, quali, come suggerisce la documentazione disponibile, la mancanza di manodopera maschile o femminile all’interno della casa. E così l’improvvisa perdita della giovane moglie da parte di un vedovo con figli piccoli poteva essere la spiegazione per cui veniva concessa una dispensa di sacro tempo; oppure l’assenza di donne in famiglia che attendessero alla “pulitezza” della casa e degli indumenti; la presenza di anziani non autosufficienti a cui badare; o, infine, la mancanza di un uomo che facesse da referente con il proprietario terriero nella stipula dei contratti colonici[50]. Le dispense di sacro tempo avevano un carattere di eccezionalità e non erano così diffuse come quelle di minor età: nel campione di 132 matrimoni considerati per la parrocchia di Nerviano fra 1770 e 1800, ne troviamo 3, e ne ritroviamo allo stesso modo 3 anche fra le 85 coppie di Vanzago, sposatesi fra il 1750 e il 1759.
Se il parroco era un prezioso intermediario con la pretura e con la curia arcivescovile, la sua opera di intermediazione non era sempre ben accolta dalle famiglie. Quando la sua ingerenza, o quella di un semplice sacerdote, diveniva maggiore di quella della famiglia stessa, allora potevano sorgere dei problemi. In un processo del 1762, un giovane di Uboldo, Paolo Antonio Croce, denuncia un prete per aver “molestato” la sorella Marianna[51]. Dalle parole dei testimoni, amici di Paolo Antonio, invitati a deporre al processo, si coglie il senso del termine “molestare”: durante il pellegrinaggio delle quarant’ore verso Saronno, il vice-curato di Uboldo avvicina Marianna Croce, che sta camminando assieme al fratello, ad altri parenti e ad alcuni compaesani, per discutere degli accordi di matrimonio fra la ragazza e quello che si dice essere il suo promesso sposo, Angelino, che accompagna il vice-curato e comincia a parlare con Marianna. Paolo Antonio non approva e ordina alla sorella di riprendere la strada assieme a lui, poi le dà uno schiaffo. In seguito comincia un diverbio fra il prete e Paolo Antonio e i due, dopo essersi minacciati, vengono alle mani. L’argomento del contendere è il ruolo svolto dal prete nel far incontrare i due giovani e nel contrattare il matrimonio fra Marianna e Angelino. Secondo uno dei testimoni, sarebbe stato il vice-curato, assieme al parroco, ad aver preso accordi per il matrimonio fra Marianna e Angelino, probabilmente coinvolgendo anche le famiglie ma, non si sa per quale motivo, tale matrimonio non era stato celebrato in tempi brevi e il fidanzamento si dilungava. Da qui la richiesta di Paolo Antonio alla sorella di comportarsi decorosamente in pubblico, senza “accompagnarsi” con Angelino, cosa che avrebbe potuto apparire sconveniente agli occhi della gente. Le autorità ecclesiastiche si raccomandavano infatti che dalla promessa di matrimonio alla celebrazione delle nozze non trascorresse troppo tempo, in modo tale da evitare situazioni di eccessiva intimità fra i fidanzati. Qualche giorno dopo la prima udienza la denuncia viene ritirata da Paolo Antonio, che dichiara di non voler procedere, avendo appianato le divergenze con il vice-curato. Non sappiamo invece se Marianna e Angelino riuscirono a sposarsi. La promessa di matrimonio, infatti, poteva essere sciolta se entrambi i fidanzati erano d’accordo, e non mancano testimonianze, relative alla zona considerata, di donne che abbandonarono i fidanzati qualche giorno prima del matrimonio per sposare un altro uomo, per un motivo o per un altro[52].
La vicenda di Marianna dimostra comunque come dalla formulazione della promessa al matrimonio potessero trascorrere anche diversi mesi. Più in generale, infatti, si può affermare che, da un lato, la costituzione della dote e la scelta dello sposo (o della sposa) richiedevano tempi piuttosto lunghi, dall’altro lato però si può sostenere che nel Milanese del Settecento, molte coppie ricorrevano a delle “scappatoie” per abbreviare i tempi delle nozze, come la richiesta di una dote agli enti caritativi, le dispense di minor età e quelle di sacro tempo. In particolare, per quanto riguarda la questione dotale, resta da chiarire quante fanciulle povere ottenessero una dote da un ente caritativo e quante, non ottenendo tale contributo e oppresse dalla miseria, restassero escluse dal matrimonio.
Note
[1] È impossibile riportare qui la vastissima bibliografia sulla storia del matrimonio. Mi limito pertanto a segnalare alcuni contributi recenti, che riguardano l’Italia: S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (eds.), Processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani, il Mulino, Bologna, 2000-2006, 4 voll.; D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Bologna, il Mulino, 2008; G. Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Roma-Bari, Laterza, 2008; C. La Rocca, Tra moglie e marito. Matrimoni e separazioni a Livorno nel Settecento, Bologna, il Mulino, 2009.
[2] Un’eccezione è E. Pagano, Maltrattate, defraudate, diffamate: mogli in tribunale nella Milano di Giuseppe II, “Archivio Storico Lombardo”, CXXVII (2001), 61- 105.
[3] È invece diversa la condizione di nubili e celibi nell’arco alpino, dove gli uomini spesso erano emigranti: L. Lorenzetti, Razionalità, cooperazione, conflitti: gli emigranti delle Alpi italiane (1600-1850), in A. Arru, D.L. Caglioti, F. Ramella (Eds), Donne e uomini migranti. Storie e geografie tra breve e lunga distanza, Roma, Donzelli, 2008, 181-209.
[4] A. Camilleri, Maruzza Musumeci, Palermo, Sellerio, 34.
[5] Sui cambiamenti ottocenteschi, si veda I. Fazio, Valori economici e valori simbolici: il declino della dote nell’Italia dell’Ottocento, “Quaderni storici”, 79 (1992), 291-317.
[6] Marossee deriva da mahrsloz, vocabolo longobardo con cui si indicava il contratto di vendita dei cavalli. Il marossee era infatti in origine l’intermediario per la vendita del bestiame. Il termine fu esteso a tutte le attività di contrattazione svolte da figure specializzate, per cui si parla di marossee de matrimoni, de bail (di balie), de serv (di garzoni). Cfr. C. Beretta, Letteratura dialettale milanese. Itinerario antologico-critico dalle origini ai giorni nostri, Hoepli, Milano, 2003, 54; C. Arrighi, Dizionario milanese-italiano col repertorio italiano milanese, Milano, Hoepli, 1978, 416.
[7] È quanto fece Gianbattista Milesi nella sua tenuta di Vanzago, un paese distante pochi chilometri da Milano. Cfr. Giornali del fattore, dal 1778 al 1793, in Archivio Fondazione Ferrario di Vanzago.
[8] Su alcune città, come Bologna e Firenze, esistono diversi studi sulla beneficenza dotale, tra cui segnalo: J. Kirschner, Pursuing honor while avoiding sin: the Monte delle doti of Florence, Milano, Giuffré, 1978; A. Molho, Investimenti nel Monte delle doti di Firenze. Un'analisi sociale e geografica, “Quaderni storici”, 61 (1986), 147-170; M. Fubini Leuzzi, Condurre a onore: famiglia, matrimonio e assistenza dotale a Firenze in età moderna, Firenze, Olschki, 1999; I. Chabot, M. Fornasari, L’economia della carità: le doti del Monte di Pietà di Bologna (secoli XVI-XX), Bologna, il Mulino, 1997; M. Carboni, L’economia della carità: le doti del Monte del matrimonio di Bologna (1583-1796), Bologna, il Mulino, 1999.
[9] Limosine e doti, in Archivio di Stato di Milano, Luoghi pii parte antica, cart. 263.
[10] Il brefotrofio fu trasferito dal Quarto delle balie nell’Ospedale Maggiore a Santa Caterina alla Ruota nel 1781. Con il trasferimento si determinò anche una gestione separata dall’amministrazione ospedaliera. Cfr. C. Avogadro, Milano e l’Ospedale Maggiore fra austriaci e francesi (1706-1859), “La Ca’ Granda”, XLVII (2006), 9-14.
[11] Istituzione della pia casa degli esposti, e partorienti in Santa Caterina alla Ruota di Milano, in Archivio di Stato di Milano, Popolazione parte moderna, cart. 78.
[12] Limosine e doti, in Archivio di Stato di Milano, Luoghi pii parte antica, cart. 263.
[13] I. Chabot, Per “togliere dal pericolo prossimo l’onestà delle donzelle povere”. Aspetti della beneficenza dotale in età moderna, in I. Chabot, M. Fornasari, L’economia della carità, cit., 20.
[14] Limosine e doti, in Archivio di Stato di Milano, Luoghi pii parte antica, cart. 263.
[15] Annali universali di statistica, economia pubblica, storia, viaggi e commercio, vol. 39, Milano 1834, 82. Sul riordino dei luoghi pii, si veda E. Puccinelli, Assistenza e beneficenza tra Riforme e Restaurazione, in C. Capra (Ed.), Il laboratorio della modernità. Milano tra austriaci e francesi, Milano, Skira, 2003, 69-77.
[16] Cfr. E. De Marchi, Dai campi alle filande. Famiglia matrimonio e lavoro nella ‘pianura dell’Olona’, Milano, FrancoAngeli, 2009, 194-197.
[17] Opera pia Belloni, in Archivio parrocchiale di Vanzago, Legati ed opere pie.
[18] Opera pia Bonati Sac. Bernardo, in Archivio parrocchiale di Vanzago, Legati ed opere pie.
[19] Pratiche matrimoniali, in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe.
[20] Come è noto, anche le donne che entravano in monastero dovevano portare con sé una dote per essere accolte fra le mura claustrali. Sull’argomento mi limito a citare G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, il Mulino, 2000.
[21] Limosine e doti, in Archivio di Stato di Milano, Luoghi pii parte antica, cart. 263.
[22] Qualche notizia sull’ammontare delle doti di campagna si potrebbe forse recuperare attraverso lo spoglio delle carte dei notai rurali, anche se raramente le contrattazioni dotali fra contadini erano poste per iscritto. Nel 1769, 100 lire imperiali equivalevano a 100 lire milanesi.
[23] Sull’argomento cfr. F. Reggiani, La famiglia dell’Ospedale nei secoli, in M. Canella, L. Dodi, F. Reggiani (Eds.), “Si consegna questo figlio”. L’assistenza all’infanzia e alla maternità dalla Ca’ Granda alla Provincia di Milano (1456-1920), Milano, Skira, 2008, 35-131; E. De Marchi, Il mestiere di balia: assistenza agli esposti, cura dei “figli di famiglia”, ricerca di un salario nella campagna milanese tra Sette e Ottocento, “Archivio Storico Lombardo”, in corso di pubblicazione.
[24] Riprendo l’espressione dal noto volume di L.E. Rossi, Milano benefica e previdente. Cenni storico statistici sulle istituzioni di beneficenza e previdenza, Milano, Barcolli, 1906.
[25] Registri di matrimonio, in Archivio parrocchiale di Cantalupo, 1853.
[26] Cfr. E. De Marchi, Dai campi alle filande, 215 ss.
[27] F. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Imperial Regia Stamperia, 1839, vol. I, A-C, 250.
[28] “Fatuo” significa “sciocco, stupido”: era un termine utilizzato per indicare le persone a cui venivano attribuiti vari tipi di ritardo mentale.
[29] Stati d’anime (1765), in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe, cart. 2 fasc. 1.
[30] Sulle vicende dei Bosotti, si vedano gli Stati d’anime (1765-1818), in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe, cart. 2-4.
[31] Per la zona considerata cfr E. De Marchi, Dai campi alle filande, cit., 184 ss.
[32] Sul significato del termine cfr. F. Cherubini, Vocabolario milanese- italiano, cit., 39; G. Banfi, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Libreria Milanese, 1991 (1^ ediz. 1870), vol. II, 581
[33] È quello che Raul Merzario, ormai molti anni fa, definì “il paese stretto” (Cfr. R. Merzario, Il paese stretto. Strategie matrimoniali nella diocesi di Como. Secoli XVI-XVIII, Torino, Einaudi, 1981).
[34] Sull’argomento si veda ancora una volta E. De Marchi, Dai campi alle filande, cit., 158 ss.
[35] Mia elaborazione dai Registri di matrimonio (dal 1750 al 1800), in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe. Il campione è relativo ai matrimoni celebrati in 6 anni compresi nell’arco di tempo considerato.
[36] I. Fazio, Percorsi coniugali nell’Italia moderna, in M. De Giorgio, C. Klapisch Zuber (Eds), Storia del matrimonio, Roma-Bari, Laterza, 1996, 151-214, in particolare 159.
[37] La corrispondenza fra Francesco Maria Maggi e il parroco di Nerviano è conservata in Pratiche di matrimonio (1790-1805), Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe, Matrimonialia, cart. 2, fasc. 1.
[38] Sulla questione del consenso paterno, si vedano D. Lombardi, Storia del matrimonio, cit., 100-101; A. Rava, Il requisito della rinnovazione del consenso nella convalidazione semplice del matrimonio (can.1157§2). Studio storico-giuridico, Roma, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 2001.
[39] Cfr. L. Levi d’Ancona, Padri e figli nel Risorgimento, in A.M. Banti, P. Ginsborg (Eds.), Il Risorgimento, Storia d’Italia, Annali 22, Torino, Einaudi, 2007, 153-179.
[40] La Ehepatent fu emanata nel 1783, ma in Lombardia entrò in vigore nel 1784. L’idea di matrimonio come contratto civile venne riaffermata durante la dominazione francese con il Codice Civile e ribadita nel 1815 dopo il ritorno degli austriaci. Il Codice del 1815 regolava la materia del matrimonio nei rapporti civili, attenendosi però quasi interamente al diritto ecclesiastico nella parte degli impedimenti e adottando il rito religioso delle nozze. Cfr. R. Sarti, Nubili e celibi tra scelta e costrizione. I percorsi di Clio (Europa occidentale, secoli XVI-XX), in M. Lanzinger-R. Sarti (Eds.), Nubili e celibi tra scelta e costrizione (sec. XVI-XX), Udine, Forum, 2006, 154; V. Cattaneo, C. Borda, Il Codice Civile italiano annotato, Torino, L’unione tipografico-editrice, 1865, 75.
[41] Si veda ancora una volta, R. Merzario, Il paese stretto, cit.
[42] Pratiche di matrimonio (1790-1805), in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe, Matrimonialia, cart. 2, fasc. 1.
[43] Cfr. Costituzione sopra li Matrimonj per ciò che riguarda il contratto civile, e li suoi effetti: La quale dovrà osservarsi da tutti li sudditi cristiani (Vienna 1783), in Codice, ossia Collezione sistematica Di tutte le Leggi ed Ordinanze emanate sotto il Regno di sua Maestà Giuseppe II, trad. Bartolomeo Borroni, vol. 3, Milano, 1787, 98-119; C. Tosi, Giuseppinismo e legislazione matrimoniale in Lombardia: La Costituzione del 1784, “Critica storica”, 27 (1990), 135-301; E. Brambilla, Giuseppinismo, tolleranza e libertà religiosa in un progetto di legge sul matrimonio di Giovanni Bovara (1802-1806), in S. Levati, Marco Meriggi (Eds.), Con la ragione e col cuore. Studi dedicati a Carlo Capra, Milano, FrancoAngeli, 2008, 481-509.
[44] C.A. Vianello, La legislazione matrimoniale in Lombardia da Giuseppe II a Napoleone, Milano, Cordani, 1938, 17-19.
[45] Cfr. E. De Marchi, Dai campi alle filande, 215 ss.
[46] Pratiche di matrimonio, in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe, Matrimonialia, cart. 1-2.
[47] Registri di matrimonio (dal 1770 al 1800), in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe.
[48] Registri di matrimonio (dal 1750 al 1759), in Archivio Parrocchiale di Vanzago.
[49] Questi periodi erano detti tempus feriarum, come ricordano A. Burguière, F. Lebrun, Il prete, il principe e la famiglia, in Storia Universale della Famiglia, Mondadori, Milano, 1988, 95-157, in particolare 99.
[50] Pratiche di matrimonio, in Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe, Matrimonialia, cart. 1-2.
[51] Denuncia contro il Rev. Giuseppe Berti di Uboldo per aver molestato Marianna Croci, in Archivio della Curia Arcivescovile di Milano, Y 6637, Criminale, 1762, 5 Aprile (provvisorio).
[52] Nei documenti d’archivio disponibili, non è segnalato alcun caso in cui sia l’uomo ad abbandonare la donna. Cfr. Pratiche di matrimonio, Archivio Parrocchiale di Nerviano, Anagrafe, Matrimonialia, cart. 1-2.