Prima della legge. Lo scenario italiano
Nel 1975 una sentenza della Corte Costituzionale, la n.27 del 18 febbraio, prende in esame la legittimità dell’art.546 del codice penale allora in vigore, nella parte in cui è punito «chi cagiona l'aborto di donna consenziente anche qualora sia stata accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico o per l'equilibrio psichico della gestante» [1] . Il pronunciamento della Corte si dimostra a favore dell’incostituzionalità dell’articolo, e sancisce come «non vi sia equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare». [2]
Tale pronunciamento contribuisce a porre il concetto di “vita” in un orizzonte di valori del tutto storico, non a monte delle norme, delle idee, della filosofia né della religione: il feto, considerato di volta in volta -a seconda delle epoche- "parte dei visceri della donna", o “speranza d'uomo”, o “essere dotato di anima” o “grumo di cellule”, non vede più la sua inalienabilità sancita quale diritto naturale, quanto piuttosto come frutto di un processo storicamente costruito. Al legislatore quindi è dato il compito di definire l'orizzonte contemporaneo, che per quanto riguarda il dispositivo della sentenza, è stabilito in un “superiore valore" della madre, in quanto persona già formata, rispetto ad un feto che «persona in senso pieno ancora non è» [3] .
Con questi presupposti, la sentenza della Corte costituisce una svolta decisiva nel dibattito italiano sull’aborto, fino a quel momento arenato su dispute etico-filosofico-giuridiche e bloccato di fronte al riconoscimento di un reato. Grazie a quel “di più” di attenzione posta sulla figura di colei che è già persona piuttosto che su ciò che persona non è, recependo evidentemente in questa formulazione gli echi della sentenza della Corte Suprema americana che si era pronunciata nel 1973 nel caso Roe contro Wade [4] , la discussione viene sospinta verso un ambito più dialetticamente aperto rispetto agli stretti confini della giurisprudenza, in una direzione più politica e improntata all’ascolto del sentire sociale, e che mostra da parte dei giudici della Corte il riconoscimento di quella voragine che nel corso del tempo si era creata tra il materiale delle condizioni di vita delle donne e l’immaginario della legge allora vigente [5] .
Se è vero che sulla sentenza si riversa immediatamente una pioggia di critiche, è tuttavia importante rilevare come, nell’economia della costruzione di uno spazio del discorso sull’aborto, con quel fatto giuridico e con il suo linguaggio -che nomina le cose con il loro nome- tutti gli attori sulla scena si trovino in qualche modo a fare i conti: intorno al concetto di “ciò che è bene per la madre”e al tentativo di bilanciamento tra i diritti della donna e quelli di un embrione che viene esplicitamente definito “non persona”, avviene necessariamente una riorganizzazione di tutte le posizioni e tutti i discorsi, dai più conservatori ai più libertari [6] . Resta comunque insufficiente una sentenza –pur di questa portata- per modificare la mentalità delle persone –siano essi giudici, legislatori, politici o gente comune: nonostante il grande passo compiuto in favore delle donne, nell’Italia del 1975 ancora si fatica non poco a riconoscere loro una reale autonomia decisionale sulle questioni del corpo [7] . La politica, i suoi linguaggi e i suoi riti, profondamente maschili e maschilisti, restano impermeabili a quel sapere su di sé che le donne invece stanno faticosamente costruendo e sperimentando e che, da un certo momento in poi, entra necessariamente a far parte del patrimonio narrativo delle relazioni femminili.
Raccontare l’aborto: l’importanza delle parole
La testimonianza delle donne rispetto all’esperienza di un aborto negli anni sessanta assume la valenza di una thick description [8], cioè di un denso quanto insostituibile approfondimento che nessun’altra forma di conoscenza della realtà può essere in grado di rilevare [9] . In questo tempo della narrazione, che fa da genesi al consolidarsi delle diverse posizioni che caratterizzeranno nel corso degli anni settanta i femminismi italiani [10] , saranno le storie di vita [11] di donne quotidianamente clandestine e criminali, quei frammenti di esistenza non altrimenti documentabili, a tracciare il quadro di una condizione di degrado rispetto all’aborto, che non poteva più essere ignorata. La necessità di interrompere la gravidanza e il conseguente ricorso al medico compiacente, all’infermiera del paese o alla mammana di turno, rappresentano molte volte soltanto l’inizio di un percorso che porta le donne – per la maggior parte sposate e già con altri figli- ad accumulare un numero considerevole di aborti (alcune riferiscono dai due ai tre all'anno, altre arrivano anche al doppio) [12] nell’arco di una vita fertile. Forte è inoltre la connotazione di classe del problema: le modalità di “accesso” alle pratiche abortive si dimostrano decisamente legate al censo, per cui le donne benestanti possono -in estrema ratio- ricorrere alle cliniche, sia italiane che straniere, che praticano interventi a pagamento, evitando in questo modo almeno i rischi più gravi per la salute (aborto clandestino sì, ma sicuro), mentre a tutte le altre donne non resta che un’oscura clandestinità, dove il prezzo non si paga solo in denaro, ma molte volte anche con la vita. Alcune l’aborto arrivano a procurarselo da sole, ricorrendo agli strumenti e alle pratiche più diverse, imparate sul proprio corpo o viste eseguire da altre donne, in una rete di trasmissione del sapere che non ha nulla a che vedere con la conoscenza e la consapevolezza di sé, ma che sottolinea ancor di più se possibile la propria condizione di solitudine e di marginalità. Gran parte delle testimonianze di donne raccolte nelle interviste e nelle lettere cui ho attinto per documentare questo scritto riguardano un unico e solo desiderio, difficilissimo da confessare: non restare incinta continuamente [13] . Il dramma sembra concentrarsi tutto sul trovare un modo per evitare le gravidanze, un’urgenza assoluta che abbatte ogni barriera morale, di fede, di dolore. E’ una questione molto materiale a volte, legata alle bocche da sfamare, ai debiti da contrarre per poter abortire. La paura della morte non le sfiora, nemmeno il ricordo di altri aborti dolorosi: ognuno è un fatto a sé e come tale va risolto, non c’è paura che faccia da freno, solo drammatica urgenza e la solidarietà tra donne - sorelle, amiche, vicine, colleghe, anche figlie- non basta ad arginare la profonda solitudine che si produce in questi frangenti. Né basta il matrimonio a garantire una cornice di consapevolezza e di minimo appoggio: esso il più delle volte presuppone una compressione della propria individualità e l’accettazione di una riduzione della propria soggettività, dovute in buona parte a quel moralismo repressivo, di matrice non solo cattolica, così radicato nei piccoli paesi così come nelle città, che disciplina ed educa fin dalla culla le donne a percepirsi come “inferiori”, mogli e madri soltanto, impedendo in questo modo lo sviluppo di qualsiasi discorso sul corpo [14] e sulla sessualità. «Sapevano di essere donne» scrive Simonetta Piccone Stella, «ma non riuscivano a percepirsi come tali, il loro sesso era completamente muto» [15] .
Il confronto con il contesto internazionale: inizia il cambiamento
Gli anni intorno al sessantotto sono l’inizio di un “discorso” sul corpo fuori dal linguaggio e dallo sguardo maschile, l’inizio della costruzione del corpo di donna che manca intorno al feto. Quando la consapevolezza di vivere in un mondo che sfrutta la necessità delle donne di regolare -in qualsiasi modo e contro ogni legge- la loro fertilità diviene coscienza diffusa, solo allora verrà il tempo della ribellione, ed essa si mostrerà con una violenza almeno pari alla repressione che si è subita. Improvvisamente diverrà impellente la creazione di un nuovo spazio dialettico entro cui trovare/creare un linguaggio per rendere possibile una diversa e più profonda descrizione di ciò che veramente è la vita quotidiana delle donne. Ecco che quindi i loro racconti, le storie individuali di tante e tante donne, immesse nel contesto di un’Italia impreparata ad ascoltare e a capire, si fanno subito violenta frattura con il passato [16] , diventano apertura di uno spazio narrativo nuovo, di scambio e relazione in cui finalmente si impara dalle altre, ci si scopre simili, ci si descrive, ci si riconosce [17] , diventano humus per la storia collettiva dell’aborto che si svilupperà negli anni settanta arrivando in Parlamento, dove si compirà il passaggio concettuale da aborto come crimine ad aborto come diritto.
La fine del mondo di cui parla Luisa Passerini [18] è ancora di là da venire alla fine degli anni sessanta; non ci sono ancora le parole forti e consapevoli dei femminismi [19] ad indicare la condizione di clandestinità come «quella strategia dello Stato che tiene le donne sotto scacco, sfruttando la situazione in termini di comodità, di mantenimento di una componente della società in una situazione di minorità di possibilità d’azione e di espressione, nel bisogno, nell’ignoranza» [20] . Verranno poi -e con grande e sofferta fatica- anche le colpe date alle madri, l’autocoscienza come forza collettiva di riconoscimento reciproco e veicolo di nuovi saperi e di rivendicazione di diritti individuali sul proprio corpo. Per il momento si è aperto uno spazio in cui le donne iniziano a costruirsi raccontando di sé. Saranno gli anni settanta, come si è detto, ad aprire concretamente anche in Italia la via al cambiamento e la spinta ad agire sarà data da ciò che sta accadendo fuori dai confini italiani: dove la rivoluzione culturale già da tempo sta dando i suoi frutti, il corpo riproduttivo delle donne è già da tempo oggetto di narrazione tra donna e donna e sta facendosi argomento di interesse collettivo, sta entrando nell’agenda politica. Accade in America, in Francia, in Germania. In Italia un grosso contributo alla costruzione di questo nuovo spazio narrativo è dato dalle traduzioni di articoli e libri prodotti in contesto americano che vanno via via diffondendosi grazie alle molteplici iniziative del Movimento di Liberazione della Donna [21] , e allo spazio e all’analisi che riviste come «Noi Donne» ed «Effe» dedicano al problema [22] . E importante diviene anche il rilievo pubblico – mediatico si può dire- che acquistano alcuni processi per aborto, uno fra tutti quello a Gigliola Pierobon, celebrato a Padova nel 1973 [23] . Siamo in un clima ormai internazionale e in diverse parti di Europa e del mondo le storie che segnano una nuova fase rispetto alle questioni del corpo si susseguono quasi identiche: nel 1971 in Germania la rivista «Stern» pubblica la dichiarazione di più di trecento donne tedesche che affermavano a gran voce di aver abortito. A seguito di questo atto, le procure vengono sommerse in pochi giorni da più di tremila denuncie analoghe. Lo stesso accade in Francia: sul Nouvel Observateur centinaia donne dichiarano il loro aborto aprendo in tal modo una vertenza a favore di un cambiamento della legge. E identici sono gli atti che ne conseguono in questa prima fase: parole che fanno riconoscere, che coinvolgono il pubblico, che scoprono il corpo [24] , nonché la nascita di gruppi autogestiti, per colmare le impellenti e urgenti necessità di sapere, di avere finalmente conoscenza di sé [25] .
Tra la legge e la sua generale e collettiva trasgressione, le donne hanno reso evidente che esiste un varco, uno spazio che si fa sempre più ampio e che rivela un’improvvisa mancanza di parole per descrivere quella realtà. Il corpo sessuato diventa una delle chiavi per definire l’identità delle donne e per far riconoscere loro l’effettiva mancanza di una base di diritti di esistenza, evidenziando come il senso comune, la tradizione, lo stereotipo abbiano impostato fino a quel momento i rapporti -anche giuridici- tra i sessi senza tenere conto delle differenze, senza vedere corpi – e quindi senza considerare discorsi, narrazioni, visioni- sessuate del mondo [26] .
Di qua e di là dell’Oceano: “una guerra che non ha mai fine”
Tutto questo discorso di presa di coscienza delle donne e dell’intera società, lo si deve immaginare tuttavia molto lento e travagliato, carico di ostacoli, non solo in Europa, ma anche in luoghi in cui la storia -e la storia delle donne soprattutto- ha da sempre una diversa velocità. Nel 1973 è ancora una sentenza a fare da apripista: la Corte Suprema americana si pronuncia sul caso Roe contro Wade [27] diventando una pietra miliare per le lotte delle donne in tutto il mondo. La sentenza, che áncora la possibilità delle donne di scegliere se e quando diventare madri ai diritti fondamentali protetti dal quattordicesimo emendamento, pone con decisione la questione di un feto che “non è persona” e che in quanto “non persona” non può imporre alle donne di sacrificare sé stesse [28] . Si tratta certamente di un momento molto avanzato del discorso sul’aborto per le legislazioni europee che si stanno sviluppando in questo stesso periodo e che l’argomento “feto” cercano invece in tutti i modi di non affrontare. Tuttavia, nel corso del tempo, la portata della sentenza americana viene ridimensionata, soprattutto viene ridimensionato il concetto di piena libertà delle donne di disporre del proprio corpo. Il porre la questione sotto la “protezione della “privacy”, fuori dal controllo dello Stato e nelle mani sia della donna che del medico – di singole persone fisiche- rende infatti pericolosamente attaccabile in diversi modi quella libertà. Ancora oggi, a distanza di trent’anni dal caso Wade, l’aborto negli Stati Uniti non è una questione “pacificata” per il fatto di essere – diversamente che in Europa- “in mano alle donne”. Si tratta ancora di una battaglia senza fine («a war that never ends» [29] ) in uno scenario di contrapposizioni anche molto violente, ai limiti dell’isteria collettiva, con attacchi continui alle cliniche in cui si pratica l’aborto, ai medici e alle stesse donne che lo chiedono.
In Europa, a seguito della sentenza americana, la maggior parte dei Paesi in cui negli anni intorno al ’73 si sta discutendo del problema sceglie di non pronunciarsi o quasi sulla legittimità dell’aborto, limitandosi a considerare come oggetto della propria attenzione la donna e la sua salute ed evitando di toccare la delicatissima questione del feto. Una posizione che rende forse più stabile la situazione, più ancorate nel tessuto sociale quelle leggi e meno sotto attacco le persone coinvolte, ma non risparmia comunque le donne dalla continua minaccia dei loro diritti, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista politico.
Prima della sentenza: la situazione americana fino al 1973
Nel periodo precedente la sentenza Roe vs Wade, la situazione dei singoli stati americani era molto diversificata rispetto alla regolamentazione dell’aborto [30] . Nell’opinione pubblica restava in generale argomento innominabile, per nulla all’ordine del giorno dell’agenda politica, nonostante i numerosi tentativi di riforma messi in atto da parte di gruppi di lobby di attivisti, sia “pro choice” che “pro life” a partire per esempio dalla California e dal New Mexico già verso la metà degli anni sessanta [31] . Le diverse posizioni tra Stato e Stato non erano tuttavia dettate né da una semplice distribuzione politica del governo tra democratici e repubblicani, né risultava determinante una forte presenza o meno dei cattolici né, tanto meno, costituivano elemento di differenza le diverse condizioni economiche degli stati. Tutti questi elementi presi da soli erano insufficienti a spiegare legislazioni opposte in materia di aborto. Seguendo gli studi di Rosemary Nossiff [32] comprendiamo come la questione fosse assai più complessa e le posizioni pro o contro derivassero più che altro dall’intreccio di tutti questi elementi, politici, economici, sociali, religiosi. Nossiff mette a confronto il caso dello Stato di New York con il caso della Pennsylvania, entrambi governati dai democratici tra il 1965 e il 1972, ma in cui lo sviluppo del discorso sull’aborto avviene in maniera del tutto opposta. Nel 1966 nello Stato di New York i “pro choice”, forti dell’appoggio dei democratici, propongono un decreto di riforma della legge sulla scorta delle raccomandazioni dell’ALI (American Law Institute) che propende per la depenalizzazione dell’aborto terapeutico al fine sostanzialmente di tutelare i medici abortisti. Questo ancoraggio legale permette ai “pro choice” di sfidare la forza del discorso cattolico e la proposta democratica, pur sconfitta più volte tra il 1966 e il 1968, riesce ad aprire uno spazio nuovo di dibattito sugli aspetti medici e legali del problema, fino a che nel 1970 i “pro choice” riescono finalmente a mettere in campo una delle proposte di legge più liberal, che si configura quasi come un’abrogazione della legislazione: aborto fino a 24 settimane purché eseguito da medico in ambiente sanitario [33] . Vice-versa, in Pennsylvania i “pro life” da tempo avevano coinvolto i democratici in una forte campagna anti aborto e il governo dello Stato si era espresso appoggiando con decisione il discorso cattolico moralista. Sul finire del decennio i democratici si trovavano quindi impossibilitati a cambiare posizione. Con l’appoggio di un partito coeso, senza correnti interne, i discorsi dei “pro life” mostrano una forza che altrove non hanno e nel 1969, proprio in Pennsylvania, nasce l’associazione “Pennsylvanians For Life”, la più forte delle lobby anti abortiste d’America. Non è quindi un caso se 1972 in Pennsylvania passa una delle leggi in assoluto più restrittive tra tutte quelle in vigore [34] .
Il discorso che si costruisce sull’aborto nei due casi esaminati non trae origine da posizioni di partiti che storicamente sono su fronti opposti rispetto a questo tema ma, a partire dalla stessa matrice democratica, si sviluppano nei due stati situazioni divergenti, i cui esiti sono principalmente dovuti, sottolinea ancora Nossiff, alla differente predisposizione/condizione del partito in quel momento in quel territorio, dalla sua capacità o incapacità di agganciare il discorso, più difficile, più delicato, più nuovo se si vuole, degli attivisti “pro choice”. L’allargamento dello spazio del dibattito su questo tema, in entrambe le direzioni, avviene a partire dal coinvolgimento dell’opinione pubblica, ma la massa critica non basta se gli attivisti non riescono ad entrare in relazione con il discorso politico dominante. In entrambi gli stati i governatori democratici sono convinti che sia venuto il momento di riformulare il codice che regola l’aborto e in entrambi gli stati vi sono forti lobby di cattolici -forse più a New York che in Pennsylvania in proporzione. Ciò che rende diverse le due realtà è la relazione degli attivisti “pro choice” con il partito. Le organizzazioni della società civile sono il punto nodale che lega il livello alto della politica con il livello “basso” della gente (“the grassroot of people”): se il loro discorso ha successo, è perché riesce a tenere insieme la gente comune e il governatore, impegna l’uno verso l’altro, ponendo cioè una sfida tra posizioni contrastanti ma in dialogo, una sfida che produce un avanzamento attraverso la discussione. E’ il caso di New York, che mostra come un partito democratico incerto e in cerca di alleanze e nuovi elettori rappresenti la giusta sponda per un discorso nuovo, di cambiamento; essi hanno bisogno di una causa e i “pro choice” semplicemente gliela offrono. Quando invece l’impatto avviene contro un partito coeso, monolitico, in cui non vi sono né correnti né dissensi aperti, nessuna modificazione delle posizioni già assunte è possibile. E’ il caso della Pennsylvania, dove il partito democratico che governa lo stato si dimostra unito, la voce è una sola e mostra un forte legame con le posizioni “pro-life” assunte già dal precedente governatore. In questo scenario, i “pro choice” non hanno possibilità di fare breccia, sottostimano la forza di quella coesione e non trovano nei tradizionali alleati nessun appiglio per mettere in discussione l’ordine vigente.
La voce delle donne e il passaggio da riforma a riformulazione
In questo scenario, mentre sul fronte del discorso cattolico la Chiesa riceve dal Concilio Vaticano II nuova spinta a impegnarsi nella vita quotidiana, a mescolarsi con la vita della gente e sull’aborto porta un messaggio univoco e chiaro di condanna; mentre sul fronte legale ci si muove per difendere più che altro i diritti di singole categorie- la lobby dei medici prima di tutto; mentre tutto questo accade, la svolta avviene con l’irrompere sulla scena delle donne. L’irrompere nello spazio pubblico del discorso femminista si pone come trasversale a tutti gli altri, facendo sostanzialmente entrare l’aborto nella retorica dei diritti dei cittadini americani. L’aborto diventa quindi una questione da discutere non in maniera corporativa, per filoni di discorsi separati a seconda degli interessi dei singoli gruppi, ma è questione di diritti di parità tra i cittadini e di diritti riproduttivi delle donne.
La diversa fortuna dei “pro choice” negli stati americani dipende quindi in questo momento dalla capacità degli attivisti di capire la situazione a livello locale sfruttandone eventuali aperture o debolezze e, in base a questo, costruire un sistema di dialogo, controllando il discorso a tutti i livelli e cementando gli interessi di cittadini, gruppi, partiti e legislatori con un messaggio univoco e chiaro. Solo in questo modo un discorso apparentemente debole può entrare in agenda ed avere possibilità di successo. Non basta trovarsi davanti ad un partito tradizionalmente pro aborto, o ad una forte presenza di cattolici in uno stato per capire quale sarà il risultato. Da sole, con i loro singoli discorsi queste forze non producono cambiamenti significativi. Il successo di una posizione anche apparentemente debole in quel contesto (nello stato di New York i cattolici erano più che in Pennsylvania) dipende dalla qualità del discorso che si fa, dalla qualità della relazioni che riesce a stabilire intorno a sé.
Il fatto che la questione in gioco sia altamente controversa e coinvolga al massimo grado i valori morali, i principi fondamentali e le convinzioni di ognuno e che essa non possa non tenere conto del punto di vista delle donne, del tutto trasversale ai discorsi prevalenti che caratterizzano il dibattito, rende certamente complicato l’intreccio tra le diverse posizioni, ma resta questa l’unica strada possibile per produrre un cambiamento sostanziale.
La voce delle donne che “entra” nel discorso sull’aborto fa slittare la strategia dei comitati e dei gruppi di lobby dal concetto di “riforma” al concetto di “riformulazione completa della legge”. Su questa base, alla fine del decennio nascono nuovi gruppi come il NARAL (National Association of Repeal of Abortion Law”) che portano l’argomento aborto nella sua interezza nell’agenda politica. Il primo punto considerato necessario è che l’aborto passi da una regolamentazione attraverso il codice penale alla “giurisdizione” del codice sanitario. Nonostante la non approvazione delle femministe più radicali, il passaggio avviene e produce quello spazio di ragionamento e di dialogo intorno al problema in grado di far cambiare completamente impostazione al discorso sull’aborto.
Rispetto ai casi di cui si è detto di New York e della Pennsylvania, nel periodo pre-Roe, gli altri stati lavorano per emulazioni e reinvenzioni, come in una forma di contagio, per cui si guarda come funziona negli “stati pionieri” e si decide o meno di adottare quella linea [35] e nel quinquennio che precede il 1973 chi non sceglie una strada o un’altra si trova pressato a farlo, per cui c’è una sorta di corsa ad esprimersi pro o contro l’aborto. Ma non c’è nemmeno il tempo per tutti gli stati di compiere questo percorso: nel 1973 il ricorso alla Corte Suprema di Jane Roe, ragazza madre di Dallas in Texas, che avendo già due figli voleva disperatamente interrompere quella terza gravidanza non voluta, mette a tacere le legislazioni statali. La sentenza tronca questo processo evolutivo e cambia le regole del gioco: i discorsi legali, i discorsi religiosi, devono lasciare il posto al discorso dei diritti fondamentali, e specificatamente del diritto delle donne a disporre del proprio corpo [36]
Controllare il discorso in Europa
La sentenza del 1973 propone non solo alla società americana ma a tutte le società occidentali [37] , un messaggio simbolicamente molto forte: le donne possono pensare di riprendere in mano il controllo del loro corpo. In base ad essa l’evoluzione del discorso sull’aborto negli Stati Uniti e soprattutto in Europa subisce un’accelerazione enorme, nonostante le diversità dal punto di vista della costruzione dello spazio del discorso che pro, di come e quanto i cittadini vengono coinvolti nei cambiamenti sociali e nonostante soprattutto le diverse velocità con cui procede il discorso femminista di qua e di là dell’oceano. Lo slittamento dell’aborto dal discorso criminale al discorso dei diritti essenziali che avviene negli Stati Uniti, al di là dei conflitti che lo hanno accompagnato, mostra la capacità peculiare del Paese di coinvolgere nella lotta per il cambiamento la società civile e l’ opinione pubblica attraverso comitati, gruppi di pressione e lobby che risulta quasi sconosciuta nel panorama europeo [38] . Quando nel 1974 la Francia rinomina l’aborto “interruzione volontaria di gravidanza” sembra davvero che anche qui sia cresciuta la convinzione che le donne possano finalmente fare da sole, decidere cioè del loro aborto senza essere condannate, almeno dalla legge. Ma si tratta fondamentalmente solo di un cambiamento semantico. Ad essere diverso rispetto agli Stati Uniti è l’impianto europeo delle nuove leggi che negli anni successivi al 1973 vengono varate: esse si basano non sull’indipendenza di decisione né sul rispetto di diritti che sono propri e peculiari di ogni singolo cittadino [39] , ma sulla necessità dello Stato di tutelare la salute dei cittadini – delle cittadine in questo caso, evitando in questo modo di pronunciarsi chiaramente pro o contro l’aborto, senza toccare lo spinosissimo argomento del feto come “persona o non persona” e preferendo la soluzione del “minor male”. E’ il caso della legge francese del 1975 [40] ed è il caso anche della legge italiana del 1978 [41] . Si tratta di due passaggi storici che originano da due clamorosi processi pubblici per aborto, eventi che – per facendosi immagine di due modi profondamente diversi di concepire lo Stato, la Legge, la Cultura e la Società, aprono comunque nuovi spazi per il dibattito, muovono i ragionamenti, pongono il problema dell’informazione, di cosa sa e cosa pensa la gente, di cosa sanno e cosa pensano soprattutto le donne. Qualcuno finalmente sta cominciando a capire che bisogna la loro voce, la loro voce che descrive il corpo, che descrive l’aborto, che descrive la sofferenza, che esprime indignazione. Indignazione come sentimento necessario a provocare il cambiamento. La costruzione di un immaginario visivo e narrativo relativo all’aborto con/attraverso le parole del corpo – è un processo che, come dimostrano le vicende dei processi appena nominati, avviene tuttavia con grande difficoltà e in tempo molto lunghi. E la storia degli ultimi trent’anni, come scrive Tamar Pitch [42] , è un ragionamento che non si è ancora completamente compiuto e procede per “scosse”, per choc culturali provocati da eventi improvvisi, imprevisti, che pongono una sfida all’ordine preesistente. Attendere che nella società e nella politica- territori eminentemente maschili- avvenga, a fronte di un di ragionamento magari anche condiviso, il passaggio “culturale” da donna che abortisce vista come «colei che trasgredisce alla maternità rinnegando la sua stessa femminilità” [43] a colei che esercita il proprio diritto di cittadinanza, è qualcosa che ha dell’impensabile. Agire sulla coscienze, sul senso comune, sull’immaginario collettivo è processo per definizione lentissimo, così lento che neppure ora, con trent’anni di sentenze e di leggi alle spalle, con trent’anni di voci e discorsi delle donne su sé stesse, possiamo pensare di evitare con certezza che il pensiero improvvisamente un giorno possa regredire. Ne abbiamo esempi continui di attacchi ai diritti fondamentali delle donneAccade ad esempio nell’America dell’immediato post 11 settembre [44] , che finisce per etichettare le donne che scelgono di abortire come «egoiste e carrieriste, padrone indiscusse della vita e della morte degli esseri umani», in nome di una fantomatica colpa delle donne per l’attacco subito. Smaniose di conquistare il mondo, lo spazio pubblico, esse avrebbero lasciato incustodita la soglia di casa e da lì sarebbe entrato il mostro che da dentro ha sconfitto gli Stati Uniti d’America [45] . Ed è solo uno degli esempi che si possono fare [46] .
Conclusioni
Un inquieto e faticoso itinerario del raccontare e il raccontarsi ha accompagnato la formazione e la crescita di una coscienza civile di uomini e donne sulla realtà e la condizione femminile negli ultimi trent’anni. Si tratta tuttavia di narrative che, in Europa come negli Stati Uniti, nonostante le macro-differenze di impostazione storica e concettuale del problema aborto, seppur acquisite, non mettono per nulla il corpo riproduttivo delle donne al riparo dagli attacchi di quel potere che non vuole riconoscere ad esso cittadinanza. Resta comunque e sempre in agguato la possibilità che i centri di produzione del sapere, anche inconsciamente, si facciano in qualche modo indisponibili a cedere quella responsabilità sul corpo che la legge restituisce alle donne sottoforma di diritto. Sembra evidente quindi come il tema del rapporto tra i sessi rappresenti una sorta di criticità permanente tra le questioni che investono la nostra società in ogni epoca e ad ogni latitudine, una di quelle «oblique libertà» il cui impatto, da qualsiasi punto di le si guardi, resta altissimo e va ben oltre la formulazione di una legge. Non si tratta evidentemente di una questione meramente legata al disagio – disagio per la mancanza di una legge o dovuto a condizioni di povertà delle donne e delle famiglie, si tratta piuttosto di uso dell’arma aborto di volta in volta al fine di spostare consensi, di alimentare paure, di mantenere una parte della popolazione in situazione di dipendenza, nonché di strutturare le politiche di welfare [47] . Il punto è che, pur trovandoci al compimento di un cammino che ha portato in quasi tutti i paesi occidentali ad una legge che modula l’accesso all’interruzione di gravidanza – con differenze che variano a seconda del substrato culturale su cui si è innestato il dibattito- ciò che continua a mancare, ovunque, è una cultura dell’autodeterminazione e della responsabilità per le donne: che esse abbiano la possibilità e il diritto di decidere di diventare madri quando lo desiderano non è un concetto facilmente assimilabile da un sistema culturale (nonché sociale, politico ed economico) nato ovunque evidentemente «non di donna» [48] . Appena se ne presenta l’occasione -e l’occasione è data assai spesso da una crisi economica, o da un problema politico, o da una generica minaccia all’ordine esistente- una delle prime questioni che emerge nel dibattito pubblico è l’urgenza di trovare un colpevole, un responsabile preciso, concreto, identificabile come è stato nell’America dell’11 settembre. Oppure al contrario, trovare un elemento salvifico, una soluzione miracolosa nel qui ed ora. Le donne - e il corpo problematico che le rappresenta- sono quindi alternativamente e storicamente le due cose, a sancire una posizione di eterna precarietà della loro effettiva cittadinanza in questo mondo.
La storia ci insegna come neppure l'iscrizione della sovranità procreativa nel patto costituente può concretamente fare argine a questa continua rimessa in questione dei diritti delle donne quando si riferiscono al loro corpo e alla loro sessualità [49] .
Note
[1] Art. 546, Aborto di donna consenziente, Codice Penale Italiano, Libro II, Titolo X, Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe, 1930.
[2] Corte Costituzionale della Repubblica italiana, sentenza n. 27, 18 gennaio 1975.
[3] R. Rossanda, Considerazioni sull’aborto, «Il manifesto», 23 gennaio 1975, 1.
[4] J. Kingston, A. Whelan, I. Bacik, Abortion and the law, Round Hall Sweet & Maxwell, Dublin 1997.
[5] G. Tedesco, Il conflitto è sulla decisione della donna. Un confronto tra uomini e donne del PCI sull’aborto, “Reti. Pratiche e saperi di donne”, 3-4 (1988), 82; L. Carlassare, La rappresentanza femminile: principi formali ed effettività, in Genere e democrazia. La cittadinanza delle donne a cinquant’anni dal voto, a cura di F. Bimbi e A. Del Re, Torino, Rosenberg&Sellier, 1997, 81-92; Ibidem, Conversazioni sulla Costituzione, Padova CEDAM, 2002.
[6] La legge 194 non riesce ad essere in questo altrettanto esplicita: lucidamente ricercato è in essa lo stratagemma di non nominare mai l’individualità del concepito in termini di soggettività/personalità, cosa che invece la sentenza della Corte fa apertamente ponendo le due entità – donna “persona” ed embrione “non persona”- in un conflitto tra entità che godono di diverso status giuridico , cfr. M. R. Marella, Corpo soggettività sessualità:brevi note sulla costruzione giuridica del biologico, «Marea. Donne ormeggi rotte approdi», III (2009), 61-69. Cfr. inoltre M. D’Amico, I diritti contesi, Milano, Franco Angeli, 2008.
[7] C. D'Elia, L'aborto e la responsabilità. Le donne la legge e il contrattacco maschile, Roma, Ediesse, 2008.
[8] Il concetto di thick description (descrizione densa) fu elaborato dal sociologo americano G. H. Mead e ripreso nel contesto in cui ora ce ne serviamo da L. Passerini, Storie di donne e femministe, Torino Rosenberg&Sellier, 1991.
[9] Judith Butler sottolinea come certi schemi normativi «operino esattamente nel non produrre alcun racconto, alcuna immagine, alcun nome, così che non c’è mai stata una vita, non c’è mai stata una morte», cfr. J. Butler, Vite precarie.Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, Roma, Meltemi Editore, 2004, 176.
[10] T. Pitch, Un diritto per due, Milano Il Saggiatore, 1998.
[11] Le fonti orali non soltanto ci permettono di accedere alla storicità del privato, ma ridisegnano la geografia del rapporto fra ciò che è privato e ciò che è pubblico, cfr. A. Portelli, Storie orali. Racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli, 2007, 17.
[12] S. Luzzi, Salute e sanità nell'Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2004, 255.
[13] M. Pastorino, Le interruzioni di maternità. Controllo all’italiana, Bologna, Edizioni Avanti!, 1964.
[14] S. Bellassai, Il nemico del cuore. La Nuova donna nell'immaginario maschile
novecentesco, «Storicamente», 1 (2005), http://www.storicamente.org/
bellassai.htm.
[15] S. Piccone Stella, Ragazze del Sud. Famiglie, figlie, studentesse in una città meridionale, Roma, Editori Riuniti, 1979, 73.
[16] A. Scattigno, La figura materna tra emancipazione e femminismo, In Storia della maternità, a cura di M. D’Amelia, Bari Laterza, 1997, 273-299.
[17] L. Percovich, La coscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni settanta, Milano, Franco Angeli, 2005, 24.
[18] L. Passerini, Il movimento delle donne, in La cultura e i luoghi del '68. Atti del Convegno di studi organizzato dal Dipartimento di storia dell'Università di Torino, a cura di A. Agosti, L. Passerini, N. Tranfaglia, Milano, Franco Angeli, 1991, 366-379.
[19] F. Lussana, Le donne e la modernizzazione. Il neofemminismo degli anni settanta, in Storia dell’Italia repubblicana, III, Torino, Einaudi, 1997, 479.
[20] Manifesto del Collettivo internazione femminista (1973), pubblicato in Donne è Bello, gruppo Anabasi di Milano, 1975.
[21] Alcuni testi del testi del Women Liberation Moviment sono stati tradotti e pubblicati con il titolo di Donna è bello, documenti del Gruppo Anabasi, Milano 1972.
[22] «Effe» nasce nel 1973 come rivista mensile «scritta da donne con occhi di donne»
sotto la direzione di Adele Cambria. L’ultimo numero è del dicembre 1982 (http://www.bibliotecadigi
taledelledonne.it/269/). Più lunga e complicata la vicenda di «Noi donne» rivista storica delle donne italiane, che nasce come foglio nel 1937 e nel 1944 prende la forma di una vera e propria
rivista mensile. (http://www.noidonne.org/
chisiamo.php).
[23] E. Corradi, “Abbiamo abortito tutte!” Gridano le femministe a Padova, «Corriere della Sera», 5 giugno 1973; Ibidem, Perdono giudiziale per la ragazza che ha abortito, «Corriere della Sera», 7 giugno 1973.
[24] L. Percovich, La coscienza nel corpo, cit.
[25] N. Giorda, Fare la differenza. L'esperienza dell'Intercategoriale donne di Torino, 1975-1986, Torino, Angolo Manzoni Editore, 2007.
[26] J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Milano Feltrinelli, 1996.
[27] J. Kingston, Abortion and the law, cit.
[28] G. Galeotti, Storia dell’Aborto, Bologna il Mulino, 2003, 106.
[29] Ibidem, 107.
[30] When Abortion Was a Crime: Women, Medicine, and Law in the United States, 1867-1973, California University Press, s.d.; C. Z.Mooney – M- Hsien Lee, Pre-Roe abortion regulation reform in U.S. States diffusion, reinvention and determination, Colchester Department of government, University of Essex, 1995, 1-39.
[31] When Abortion Was a Crime, cit., 7.
[32] R. Nossiff, Discourse, Party, and Policy: The Case of Abortion, 1965-1972, «Policy Studies Journal», Vol. 26, (1998) II, 244-256.
[33] G. Galeotti, Storia dell’aborto, cit., 106-107.
[34] R. Nossiff, Discourse, Party, and Policy, cit., 249.
[35] C. Z. Mooney – M- Hsien Lee, Pre-Roe abortion regulation reform, cit., 10.
[36] G. Galeotti, Storia dell’aborto, cit., 108.
[37] Il vicino stato del Canada tuttavia, pur producendo una legge avanzata, non segue l’esempio americano e anzi esclude del tutto le donne dalle decisioni, affidando ai medici ogni atto. La legge di fatto permette l’aborto ma ne rimette completamente la decisione al medico e a nessun altro. Le procedure sono semplici, funziona come una qualsiasi altra questione sanitaria. Però le donne non ci sono in nessun momento del percorso della costruzione della legge, cfr. J. Brodie, S. M. Gavigan, J. Jenson, The politics of abortion, Toronto, Oxford University Press, 1992.
[38] G. Graziano, Le lobbies, Bari, Laterza 2002; M. M. Feree at alii, Shaping abortion discourse. Democracy and the public shere in Germany and in the United States, Cambridge, Cambridge University Press 2002, 16-19.
[39] “Roe vs Wade found that abortion is so personal, so consequential that the public has no right to decide for the burdened women. That principle deserves to remain undisturbed”, cfr. M. M. Feree, Shaping abortion discourse, cit., 20.
[40] Legge n. 75-17 del 17 gennaio 1975, nota come “Legge Veil”.
[41] Legge n. 194 del 1978 sull’ ”Interruzione volontaria di gravidanza”.
[42] T. Pitch, Perchè si discute di diritto e diritti, 2004
( http://www.sociologiadip.
unimib.it/mastersqs/
dida1/testitre/tamar.pdf )
[43] Intervista a due studenti universitari di Roma, in E.Banotti, La sfida femminile, cit. 142- 143.
[44] S. Faludi, The Terror Dream: Fear and Fantasy in Post-9/11 America, New York Metropolitan Books, 2007 (trad: Il sesso del terrore. Il maschilismo contemporaneo americano, Milano, ISBN Edizioni, 2007).
[45] T. Pitch, L'embrione e il corpo femminile, 2005
( http://www.costituzionalismo.it/
stampa.asp?
thisfile=art20050522-2.asp )
[46] Il riferimento è ad esempio alla provocatoria azione di Giuliano Ferrara intrapresa nel 2008 con il movimento e la lista elettorale “Aborto? No grazie” che sosteneva la necessità di una moratoria sull’aborto equivalente alla moratoria già esistente sulla pena di morte. La proposta di Ferrara si situa in un contesto più generale, che si lega alle campagne di certa destra americana che da sempre persegue gli abortisti accusandoli di corrompere la società e per questo ne brucia le cliniche e uccide i medici che praticano gli aborti, cfr. G. Ferrara, Fate l’amore non fate l’aborto. La crociata per la moratoria sull’aborto, vol I, Milano, I libri del Foglio, 2008.
[47] D. Barazzetti, C’è posto per me? Lavoro e cura nella società del non lavoro, Milano, Guerini e Associati, 2007.
[48] M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana: da individui a persone, Bologna, Il mulino, 2008. «Conquistare un diritto avrebbe dovuto essere bello» scrive Rossanda «invece l’aborto bello non era», R. Rossanda, L’altra metà del lavoro, «Il manifesto», 1 giugno 2010.
[49] Un’ipotesi di cui parla Emma Baeri che propone un “articolo zero” della
Costituzione che tuteli i diritti inviolabili del corpo, cfr. E. Baeri, Lettera, in http://www.
universitadelledonne.
it/baeri8-2.htm, 8 febbraio 2008.