What is most wanted is an ample increase
of the supply of good labour at moderate wages;
That this would force lower class labour
to render more service at lower wages,
And make it perforce more serviceable and dependable.
(Labour Commission, Report, 1893)
La storia del Sudafrica europeo è una storia di migrazioni: assistite, pianificate, casuali, volute, imposte, vietate. E’ una storia di migrazioni
definitive, circolari e temporanee, ognuna delle quali ha risposto in modo funzionale e specifico alle esigenze politiche e sociali e alle congiunture economiche che in questo paese si sono andate
esprimendo nel tempo.
A partire dalla prima colonizzazione fino ad arrivare allo sviluppo dei più sofisticati sistemi di reclutamento di manodopera migrante per le miniere, in Sudafrica sono arrivati schiavi, lavoratori
a contratto temporaneo, avventurieri, artigiani, imprenditori, coloni agricoltori. Sono arrivati da quasi tutti i paesi della vecchia Europa, dall’America e dall’Australia, dall’Africa, dall’India
e dalla Cina.
Nonostante le migrazioni siano state uno degli elementi fondanti della costruzione del Sudafrica moderno, esse non hanno riscosso grande interesse tra gli studiosi. Le poche ricerche sul lavoro e
sulla mobilità sono state pubblicate principalmente negli anni ’80. Questi lavori, che sono anche quelli di maggior pregio, sono stati scritti alla luce di una chiave interpretativa di stampo
materialista applicata soprattutto ai sistemi di reclutamento del lavoro migrante africano proveniente sia dalle regioni interne al Sudafrica che dal resto del sub-continente. Intendendo il lavoro
come una componente fondamentale nella comprensione del processo di accumulazione e di consolidamento del capitalismo, questi studi hanno privilegiato la storia delle migrazioni legate alla grande
industria aurifera. Meno indagate, o illuminate di riflesso rispetto ad altri grandi temi storiografici, sono state le storie di ogni altro tipo di mobilità prima e durante la Rivoluzione Mineraria come pure il ruolo giocato dai governi delle colonie sudafricane per soddisfare l’incessante bisogno di braccia in tutti i settori
dell’economia. Ancor meno approfondito il dibattito che ha per lungo tempo visto interessi discordanti e contrapposti circa la volontà di incrementare e favorire l’immigrazione di contadini,
artigiani e operai dal vecchio continente, contro chi voleva assicurata una “scorta” di braccia da lavoro docile, remissiva e a un “costo ragionevole”.
Senza tralasciare accenni alla realtà degli altri paesi sudafricani, concentrerò maggiormente l’attenzione sulla Colonia del Capo da cui ha preso le mosse la colonizzazione europea fino ad arrivare
al 1903, anno che vide per l’ultima volta il parlamento coloniale impegnato nell’organizzazione di un’immigrazione di contadini europei vincolati da un contratto.
L’intenzione è quella di individuare sul lungo periodo alcune questioni ricorrenti che hanno condizionato in modo determinante il mercato del lavoro sudafricano e, di conseguenza, vincolato alle
scelte economiche e politiche di questo paese la sorte di chi ne ha attraversato i confini.
Un’eredità che viene da lontano
In Sudafrica, sin dagli esordi della colonizzazione, lo sbarco degli europei è avvenuto quasi contemporaneamente a quello di migliaia di uomini in regime di schiavitù. A soli tre anni dal 1652,
anno di inizio della dominazione olandese al Capo, gli amministratori della Compagnia delle Indie Orientali Olandesi avevano già pianificato di risolvere il problema della costituzione del
bracciantato agricolo attraverso l’importazione forzata di uomini e donne dal Madagascar e dal Mozambico, dalla Guinea, ma anche da Ceylon, dal Bengala, dal Malabar e dall’Indonesia[1].
La scelta di ricorrere alla manodopera schiavile fu presa dalla Compagnia delle Indie in accordo con i suoi piani di colonizzazione. Il Capo era stato pensato non come una colonia di popolamento,
ma come una semplice stazione di rifornimento per i vascelli in rotta verso i possedimenti olandesi in Oriente. Questo significò il mantenimento di un numero limitato di coloni i quali però non
riuscirono, da soli, ad avviare una florida e promettente agricoltura capace di soddisfare i pur limitati bisogni della Compagnia. Sebbene al Capo non sia mai stata praticata un’agricoltura da
piantagione per le produzioni commerciali, la scarsità delle rese e la difficoltà ambientale dei luoghi impose l’affermazione di ampie unità produttive, basate su un’agricoltura estensiva
caratterizzata dai cereali, dai vigneti e dai grandi pascoli, che richiedevano un cospicuo numero di braccianti. Per le stesse condizioni ambientali, il governo della piccola colonia stabilì che
l’impiego di qualsiasi tipo di manodopera sotto contratto avrebbe fatto zoppicare l’attività agricola durante i primi e difficili anni di assestamento. Contemporaneamente, si continuò a scoraggiare
l’arrivo di coloni dall’Europa.
La rilevanza della popolazione sottomessa crebbe in proporzione all’espansione dei coltivi, arrivando a superare in alcune aree oltre il 50% dell’intera popolazione. Nemmeno un secolo dopo lo
sbarco degli olandesi, nei floridi distretti cerealicoli e viticoli della Colonia del Capo, la quasi totalità dei proprietari terrieri era in possesso di almeno uno schiavo[2]. Il loro numero, che poteva sopravanzare del doppio quello dei coloni europei, portò all’attuazione di rigide misure di controllo, mentre la
semplicità dei metodi di produzione adottati nei campi limitò l’impiego della manodopera schiavile alle sole mansioni generiche e di routine.
Il consolidamento del sistema schiavile andò di pari passo con l’espansione dei coltivi e, di conseguenza, alla progressiva riduzione dei terreni pascolativi destinati alle mandrie degli indigeni
del Capo, i Khoihoi. Il fenomeno minò profondamente la loro struttura economico-sociale e li costrinse a entrare a far parte del nuovo
sistema coloniale. Pur se nominalmente liberi e sotto contratto, anche loro cominciarono presto a subire le stesse forme di coercizione riservate agli schiavi[3].
D’altra parte, l’adozione del sistema schiavile ebbe ripercussioni notevoli anche sui colonizzatori. Il mancato sostegno all’introduzione di manodopera sotto contratto ebbe come primo effetto la
quasi totale assenza tra i coloni di uno strato di lavoratori salariati[4]. Quei pochi tra gli ex soldati della Compagnia che non
possedevano terra per conto proprio costituirono una minoranza che raramente venne destinata ai lavori manuali.
Un altro fattore con ripercussioni di lunga durata fu la nascita, nei distretti agricoli del Capo Occidentale, di un’identità sociale fortemente diffusa che si riconosceva in base all’estensione
dei terreni e al numero di schiavi posseduti. Nonostante non condividessero la stessa origine, i burghers cominciarono presto a manifestare una forte coesione culturale e politica,
soprattutto nei distretti più ricchi del sud-ovest della Colonia. Tra di loro e non solo si consolidò un atteggiamento che portò ogni uomo libero al disprezzo del lavoro manuale.
In questa prima fase della colonizzazione, il rapporto tra schiavo e padrone assunse connotati ambivalenti, fatti di sopraffazione e paternalismo, per giunta intrisi e legittimati da un profondo
senso di giustizia biblica. Al contrario, gli inglesi, giunti nel 1806, portarono con sé una nuova etica e un nuovo modo di concepire l’economia, in cui uomini e merci avrebbero circolato
liberamente[5]. Tra il 1834 e il 1838 la schiavitù fu abolita e fu sostituita dai contratti; i rapporti arbitrari e individualistici
furono soppiantati dal diritto, mentre allo sfruttamento gratuito seguì la razionalità di gestione dell’impresa. Tanto i vecchi coloni quanto i nuovi arrivati, tuttavia, continuarono a dimostrare
una concezione alquanto bizzarra circa “il giusto valore del lavoro”.
La dominazione britannica
Con l’interruzione della tratta degli schiavi, la domanda di forza lavoro venne contenuta attraverso l’esproprio sistematico e la riduzione dell’accesso ai pascoli e ai mezzi di sussistenza delle popolazioni africane. L’espansione dei confini della Colonia del Capo avvenne mentre centinaia di famiglie boere stavano cominciando il Groot Trek, abbandonando i domini britannici per spostarsi al nord, dove avrebbero fondato la Repubblica Sudafricana (Transvaal) e quella dell’Orange Free State. Questi processi di espansione ebbero notevoli ripercussioni sugli equilibri delle popolazioni africane, pressate e obbligate a migrare a loro volta verso nord e a cozzare tra di loro, oppure a stabilire rapporti di dipendenza con le nuove entità territoriali. Fin quando la stabilità dei terreni e la pressione demografica lo permisero, gli africani fecero ricorso al sistema delle migrazioni temporanee per mantenere la loro autonomia e opporre resistenza ai processi di disgregazione del loro sistema agricolo e pastorale[6]. La libertà con cui entravano e uscivano dal mercato del lavoro fu, tuttavia, interpretata dai nuovi colonizzatori come il segnale del mancato sviluppo di “un’etica del lavoro” alla base di ogni società “progressiva”. Nonostante l’applicazione di rigide leggi che obbligavano gli africani a vestirsi all’europea, a pagare le tasse o a essere perseguiti come criminali nel caso in cui avessero rotto il proprio contratto di lavoro, molti braccianti e lavoratori rimasero imprevedibili nelle loro scelte e non svilupparono mai quei “bisogni” che, secondo i nuovi governanti, li avrebbero inseriti in un mercato in cerca di espansione. L’apprendistato obbligatorio, i contratti di mezzadria, il controllo della mobilità, si dimostrarono poco efficaci e garantirono solo in parte la manodopera di cui i farmers avevano bisogno.
Ben presto divenne chiaro al governo coloniale che l’instaurarsi di un meccanismo virtuoso per lo sviluppo dei consumi e della produzione si sarebbe ottenuto solamente attraverso l’incremento e il
sostegno dell’immigrazione di nuovi coloni decisi a stabilirsi al Capo in modo definitivo. Durante i primi cinquant’anni di dominazione britannica, il sistema del lavoro sotto contratto e dei
passaggi assistiti aveva portato nella nuova colonia poche migliaia di artigiani e contadini. I numerosi progetti per affermare una classe di agricoltori piccolo-proprietari e di artigiani non
avevano avuto fino a quel momento grande successo. Molti coloni, reclutati tra i veterani di guerra o tra i ceti urbani più modesti, dimostrarono di non avere né le risorse economiche né tanto meno
le capacità per affrontare le difficili condizioni ambientali della Colonia. La maggior parte di loro aveva abbandonato i lotti di terreno assegnati loro a pochi mesi dallo sbarco, per fuggire
nelle città se non addirittura nella lontana Australia. L’immigrazione spontanea non era consistente e il vecchio sistema dell’Indetured Servitude, così ben collaudato nelle altre colonie
inglesi,era stato interpretato dagli abitanti del Capo come una forma di schiavitù “bianca” e come un principio assai deprecabile[7].
Nonostante gli esordi scoraggianti, l’immigrazione dalla madrepatria venne individuata come l’elemento chiave per lo sviluppo della Colonia: in questo modo si sarebbe risolto il problema della
forza lavoro e si sarebbe venuta a creare una competizione positiva tale da migliorare il rapporto tra lavoratori e datori di lavoro. La frontiera sarebbe stata pacificata, le entrate della Colonia
accresciute, il valore della proprietà pubblica e privata stabilito, se solo fosse stato possibile ottenere «un’erogazione di lavoro sufficiente, costante e ad un prezzo ragionevole»[8].
Lo schema migratorio messo in atto tra il 1857 e il 1861 costò alla Colonia del Capo 50,000 sterline e fece sbarcare tra Cape Town e Port Elizabeth circa 10.000 persone[9]. La finalità del governo coloniale era quella di offrire un numero elevato di artigiani e di agricoltori più o meno qualificati che lavorassero sotto
contratto e per questo, a differenza dei precedenti progetti, la legge non venne accompagnata da nessun tipo di agevolazione per l’acquisto di proprietà fondiarie. Con l’eccezione di pochi
vignaioli provenienti dalla Germania, i nuovi arrivati giunsero esclusivamente dalla Gran Bretagna. Il progetto durò pochi anni a causa dell’elevata incidenza economica che comportava per le casse
del governo e per l’ambiguità dei risultati ottenuti[10]. Come capitò anche successivamente, molti dei nuovi arrivati erano stati male
informati sulle condizioni di lavoro e di salario, tanto che si ritrovarono a percepire paghe inferiori a quelle dei paesi di origine. In seguito a ciò, i farmers del Capo sud-occidentale
fecero domanda per provvedere a una «buona offerta di manodopera a basso costo» che arrivasse dall’India, dalla Cina o da altre parti dell’Africa, ponendo fine all’emigrazione
dall’Inghilterra[11]. Tale richiesta giungeva alla luce dell’esperienza appena avviata nella vicina Colonia del Natal, dove i proprietari delle piantagioni di canna da zucchero avevano convinto il governatore a far giungere lavoratori indiani, a causa dell’impossibilità di reclutare
un numero sufficiente di braccianti africani.
Nel 1862 gli Immigration boards di Londra e della Colonia furono chiusi e l’emigrazione verso l’Africa Australe perse di spessore, almeno fino a quando non vennero scoperti i diamanti
nelle regioni del Griqualand West.
Gli esordi della Rivoluzione Mineraria e l’immigrazione assistita dall’Europa
La scoperta dei diamanti del 1867 causò uno stravolgimento di assetti imprevisto e repentino. Le colonie diventarono in pochissimo tempo la meta ambita di migliaia di uomini in cerca di fortuna.
L’effetto moltiplicatore della scoperta dei minerali preziosi creò la necessità di alimentare, sostenere e vestire una popolazione crescente e impose strategie per affrontare con efficacia il
rapido cambiamento[12].
Con una bilancia dei pagamenti finalmente in attivo e una crescente consapevolezza della propria importanza, la Colonia decise di inaugurare una stagione di progresso e sviluppo. I due elementi
alla base di questo programma erano la crescita demografica di popolazione stabile di origine europea e un sistema infrastrutturale adeguato agli standard di civiltà borghese espressi dai valori
della Englishness.
Nel momento in cui si pianificò un fitto programma di lavori pubblici, la stampa, i ceti mercantili e i farmers del paese diedero vita a un ampio dibattito su come affrontare il problema più rilevante della Colonia, quello della scarsa presenza umana[13]. Come scrisse un corrispondente dal distretto orientale del Capo,
Le ferrovie e l’irrigazione possono fare molto, ma le persone possono fare di più. Il paese non vuole essere “stoccato” soltanto con greggi e mandrie ma con esseri umani; questi ultimi e soltanto questi possono fare in modo che i prodotti siano raccolti e le industrie portate avanti in modo tale che queste attività stimolino e paghino per la costruzione delle ferrovie. La necessità del Sudafrica può essere riassunta in un’unica parola, e questa parola è “Popolazione”[14].
Il bisogno di sostenere la crescita della popolazione e, di conseguenza, la disponibilità di forza lavoro, viaggiava, tuttavia, su due livelli distinti: da una parte si desiderava fortemente che il
paese diventasse una “terra di bianchi”, dall’altro vi era il bisogno di soddisfare la domanda di manodopera, possibilmente a un “costo ragionevole”. Nella Colonia non solo mancavano operai
esperti, artigiani qualificati e contadini specializzati, ma, con la scoperta dei diamanti, anche i manovali e i braccianti disertavano il lavoro per andare nelle miniere[15].
Agli inizi degli anni ’70 i Landlords del Natal lamentarono ancora di non avere abbastanza braccia per tagliare le canne da zucchero, mentre le bacche del caffè cadevano e marcivano per
terra senza che ci fosse nessuno a raccoglierle[16]. Ogni progetto per l’estensione delle piantagioni doveva essere rimandato fino a
quando il governo non avesse provveduto a sostenere economicamente l’arrivo di nuovi braccianti dall’India o dall’Africa portoghese, garantendo così una «adeguata e costante riserva di
lavoro»[17]. Nella Colonia del Capo, i proprietari terrieri versavano in una condizione simile[18].
La ricerca di bacini di manodopera alternativi a quello sudafricano avrebbe consentito di rispondere alle esigenze dei coltivatori e di contenere il costo del lavoro ma si andava a scontrare con
gli ideali di progresso sostenuti da chi, nel lungo periodo, non considerava un beneficio l’introduzione di una classe di braccianti disomogenea e “variopinta”. Secondo la stampa liberale, in una
colonia che piangeva per la mancanza di braccia, la presenza di una folta popolazione di nativi rappresentava il più grande freno nella corsa allo sviluppo[19]. Gli africani, lavorando per una sterlina al mese, costituivano una tentazione irresistibile per i farmers. Tra i proprietari terrieri era diffusa l’opinione che
a un contadino europeo si dovessero almeno il triplo del salario e vitto e alloggio di qualità superiori in ragione dei suoi più elevati standard di vita. Sulla lunga distanza, il mero risparmio di
denaro si sarebbe, tuttavia, trasformato in una perdita in termini morali e di civilizzazione[20]. D’altra parte, per gli agrari,
l’aumento dei costi di gestione appariva altrettanto ingiustificato. Il mantenimento di un simile atteggiamento convinse però molti liberali a credere che il Sudafrica fosse destinato a rimanere un
paese non attrattivo per gli europei, perché nessuno sarebbe sbarcato per lavorare a 5 scellini al giorno con l’idea di rimanere un colono alle dipendenze altrui. Lo stesso problema sembrava
riguardare gli operai inglesi diventati così rari da dettare legge ai datori di lavoro[21].
Con l’agricoltura quasi sull’orlo del collasso e l’imminente inizio dei lavori ferroviari, il governo del Capo fu posto di fronte alla necessità di agire in fretta. Ignorando le critiche, si
decise a pianificare un nuovo progetto per sponsorizzare l’emigrazione di manodopera qualificata e semi-qualificata dal vecchio continente. Facendo affidamento su una situazione finanziaria
positiva, vennero stanziate ingenti risorse per invogliare a emigrare tanto gli operai qualificati quanto intere famiglie di contadini. Tra il 1873 e il 1883, sbarcarono al Capo oltre 22.000
persone, nella stragrande maggioranza di sesso maschile[22]. Circa la metà giunsero sotto contratto, per lavorare all’ampliamento del
sistema ferroviario e per entrare nei corpi di polizia (Government Emigrants); altri per prendere possesso di lotti di terreno da coltivare (Agricultural Settlers). Il resto
arrivò su chiamata con un passaggio per nave pagato per metà dal governo e per metà dal datore di lavoro (Aided Emigrants).
La selezione degli immigrati fu affidata a un agente del governo della Colonia, che stabilì la sua sede a Londra. Per i primi tre anni di attività, le energie maggiori vennero rivolte
principalmente alla scelta degli operai, più o meno qualificati, per i lavori ferroviari. Benché le retribuzioni in Inghilterra fossero in aumento e ci fosse una concorrenza accanita da parte di
altre colonie dell’Impero, gli ingaggi vennero fatti esclusivamente in Gran Bretagna[23]. Sin dai primi sbarchi, gli operai inglesi
sollevarono un gran numero di questioni per l’orario di lavoro, le paghe e gli alloggi. Tutti lamentarono la loro scarsa informazione circa l’altissimo costo della vita nella Colonia. Inoltre la
proposta di ingaggio era estremamente rigida a causa del contratto che li vincolava ai lavori pubblici per tre anni, senza libertà di gettarsi nel mercato del lavoro alla ricerca della miglior
offerta[24]. Per rendere più allettante la forma contrattuale, vennero apportate delle modifiche per cui il passaggio gratuito era
garantito in cambio di un obbligo di servizio che variava dai 3 ai 6 mesi, con la possibilità, una volta scaduti i termini, di essere riassunti o di cercare altrove. La decisione di rendere il
mercato del lavoro più elastico e di aumentare i salari per la manodopera dal 30 fino al 100% destabilizzò però ancora di più la situazione interna, scatenando una concorrenza spietata per
l’accaparramento del lavoro bracciantile tra agricoltori, imprenditori minerari e il Dipartimento per i Lavori Pubblici.
La Rivoluzione Mineraria e la possibile immigrazione dal resto del mondo
Le ingenti risorse spese per invogliare gli operai ad affluire dal vecchio continente non diedero i risultati sperati: una volta finiti gli ingaggi, questi abbandonavano la Colonia per altri
lavori, per tornare a casa o per migrare nuovamente. Per i parlamentari più sensibili ai problemi dei farmers, la Colonia del Capo aveva davvero poco da offrire agli europei ad eccezione
di paghe eccessivamente elevate che avevano l’unico fine di impoverire le risorse del paese e di rendere troppo alto il costo del lavoro. Gli operai giunti con passaggio gratuito potevano
difficilmente trasformarsi in settlers permanenti dal momento che non c’era terra disponibile a buon mercato. Ciò impediva loro di accedere alla proprietà fondiaria o, quanto meno, li
obbligava a stabilirsi nei centri urbani. D’altronde ai nuovi arrivati risultava del tutto incomprensibile il modo in cui i proprietari trattavano i braccianti e gli operai di colore che per
ragioni di costo venivano largamente preferiti a loro[25].
Rimaneva poi insoluto il problema della manodopera generica che scarseggiava per ogni tipo di impiego. Gli europei, anche quelli dequalificati, costavano troppo mentre gli africani continuavano a
preferire i campi diamantiferi, dove si poteva guadagnare più che altrove[26]. Un problema che, sommato alle difficoltà di trasporto e
alle grandi distanze che separavano gli uomini dai cantieri, aveva causato lo scarso successo di numerose contrattazioni portate avanti con i capi tribù all’interno e all’esterno dei confini della
Colonia. Nel 1874, di ben 6000 uomini promessi e attesi, ne arrivarono a destinazione soltanto 27.
Qualcuno pensò di proporre al Parlamento del Capo addirittura l’ingaggio di un certo numero di afroamericani, ma, per circa un anno e mezzo, il dibattito più acceso si svolse intorno alla necessità
o meno di introdurre braccianti dalla Cina e dall’India per ogni genere di attività[27]. I cinesi potevano lavorare «più
economicamente di qualsiasi altra razza» e sarebbero stati impiegati sulle ferrovie con un contratto quinquennale che, una volta scaduto, li avrebbe obbligati a fare ritorno al proprio paese
senza possibilità di mettere radici nella Colonia. Gli altri, in quanto lavoratori docili e versatili, sarebbero stati impiegati nelle farms come contadini, pastori e domestici. Lavorando
sotto la supervisione dei più esperti operai britannici, avrebbero costituito una valida e stimolante concorrenza alla manodopera di colore già presente nella Colonia, abbassandone il costo e le
pretese[28].
Ad eccezione dei rappresentanti degli agricoltori e di alcuni appaltatori impegnati nella costruzione delle ferrovie, l’arrivo dei cinesi e degli indiani venne avvertito come un pericolo da una
buona parte dell’opinione pubblica, terrorizzata dall’idea di introdurre nel paese un ulteriore elemento di diversificazione etnica. Solamente in pochi riuscirono a vedere con chiarezza qual era il
vero problema. L’essere favorevoli ai cinesi piuttosto che agli indiani non significava apprezzarne veramente le qualità e rispettarne i diritti, ma rappresentava solo un altro modo per risparmiare
risorse. Secondo alcuni, il problema dei cinesi era direttamente collegato alla questione interna e al rapporto stabilitosi tra i bianchi colonizzatori e gli africani. Come recitava la lettera di
un lettore del «Daily News», la così detta “civilizzazione”, aveva trasformato “il nero” in uno straniero nella sua stessa terra. Lo aveva costretto a emigrare verso l’interno o ad arrendersi
all’uomo bianco come suo schiavo, forzandolo a vestirsi come avevano scelto per lui e a lavorare nel modo e per quanto gli veniva imposto. Visto che questo lungo processo tardava a consolidarsi e
che non era più possibile aspettare, si era deciso di ripiegare sui cinesi che lavoravano meglio e a meno[29]. Al contrario, secondo
molti, di lavoratori al Capo ve ne erano più che in abbondanza ma bisognava pagarli in modo adeguato. La Colonia avrebbe prosperato nella stessa proporzione in cui avrebbero prosperato i suoi
lavoratori. Un fatto che sembrava lontano a verificarsi[30].
Nel 1876 il Ministro dei Lavori pubblici J. X. Merriman presentò al parlamento una fitta relazione in cui evidenziò lo stretto legame che intercorreva tra i problemi del lavoro e quelli
dell’immigrazione esordendo con queste parole:
Al Capo di Buona Speranza, l’immigrazione è considerata esclusivamente come un mezzo per soddisfare le esigenze congiunturali di un mercato del lavoro in cerca di manodopera a prezzi contenuti. Mentre i Governi della Nuova Zelanda e delle altre colonie spargono diffusamente tra i probabili emigranti le più allettanti promesse, come le alte paghe che potranno assicurarsi in questi paesi; mentre a Victoria, un fervente spirito democratico ha bloccato con il veto ogni progetto di emigrazione assistita dallo Stato con il fine specifico di mantenere alti i salari, qui al Capo il Governo è chiamato a “cercare umanità dalla Cina al Perù”, nella speranza di creare e alimentare una classe di lavoratori a basso costo che per nostra fortuna accettino questa condizione da iloti, senza manifestare quella scomoda velleità rappresentata dall’ambizione di migliorare la propria condizione. [..] L’esperienza altrui può comunque rivelarsi non assoluta, ed è forse possibile che in questo paese l’arrivo di una classe di lavoratori barbari e a buon mercato rappresenti la nostra occasione per ottenere e superare i risultati raggiunti dagli europei in colonie come Victoria, l’Australia del Sud e la Nuova Zelanda[31].
Il problema degli “iloti” cinesi si risolse da solo a causa dei costi proibitivi del loro trasporto; al contrario ci si orientò verso i “barbari” relativamente più a buon mercato del Mozambico o
delle regioni di frontiera. Nel 1876, a causa della siccità e della magrezza dei raccolti, il numero degli africani che prese lavoro nei cantieri del Capo o che vi fece ritorno aumentò
sensibilmente.
Mentre si esaudiva il desiderio di creare un esercito di manodopera di riserva, gli agenti per l’immigrazione continuarono a battere il continente europeo alla ricerca degli operai qualificati che
ne sarebbero stati a capo.
La Colonia del Capo verso il nuovo secolo
Gli sforzi messi in atto dal governo del Capo riuscirono a fatica a soddisfare le esigenze di lavoro temporaneo per la realizzazione del sistema ferroviario fino al 1882, anno in cui l’economia
della Colonia mostrò di soffrire di forte instabilità. La depressione durò fino al 1886, mettendo a nudo le debolezze strutturali del paese e colpendo ogni settore produttivo, dall’industria
mineraria ai mercati azionari, dall’allevamento all’agricoltura, fino a toccare il piccolo commercio e il settore edilizio. «La posizione dei lavoratori casuali da precaria divenne disperata; una
situazione aggravata dagli 8 anni di crescita demografica artificiale dovuta all’applicazione dei programmi di immigrazione assistita»[32]. Molti degli africani ingaggiati per i lavori pubblici fecero ritorno ai propri villaggi, mentre, tra gli europei, chi aveva ancora dei risparmi emigrò in Nuova Zelanda o in
Australia. Rimasero al Capo solo quelli che non si poterono permettere una tale mobilità.
La ripresa avvenne con la scoperta dell’oro nel Witwatersrand, nel Transvaal. Come per i diamanti di Kimberley nei primi anni ‘70, gli operai e i nuovi immigrati cominciarono a prendere la strada
che portava verso la giovane Repubblica Sudafricana in cerca di una paga che poteva superare di cinque volte quelle del Capo. Di nuovo si presentò il problema della penuria di manodopera nella
Colonia e, nel 1893, venne insediata una commissione parlamentare per investigare il problema. Secondo le testimonianze e i pareri raccolti, la mancanza di una “riserva” adeguata di forza lavoro
era dovuta alle condizioni di vita di un paese, in cui la crescita spontanea dei frutti, la facilità di cacciare ancora selvaggina e la possibilità di mantenersi al limite della sopravvivenza
conteneva la crescita dei desideri e dei bisogni, tenendo lontano dal lavoro gli africani tanto quanto i bianchi “decaduti”[33]. La
commissione riscontrò che i neri del Sudafrica erano molto più favorevoli a lasciare i propri villaggi per andare a lavorare nelle miniere che non nelle farms. Ne conseguiva che sarebbe
stato più opportuno affidarsi a un’immigrazione sotto contratto (indentured) per il lavoro temporaneo necessario nelle fasi più intense della produzione agricola, facendo arrivare
braccianti da Zanzibar, dalla Sierra Leone o dai territori dell’Africa Tedesca. Gli indiani, che erano divenuti un supporto fondamentale per l’economia del Natal, venivano vivamente sconsigliati,
mentre rimaneva aperta la questione del lavoro qualificato e non qualificato dall’Europa. Era condivisa l’idea che l’agricoltura del paese si potesse condurre solo nel modo più “economico”
possibile. Si raccomandava perciò di ottenere «braccianti della classe più bassa, da mantenere con una paga ai limiti della sopravvivenza», che comunque, sarebbe andata bene «a questo genere di
lavoratori»[34]. Le esigenze più sofisticate dei contadini europei e l’ambizione a migliorare il loro status rendevano
scettici i commissari; sebbene rimanesse diffusa l’immagine del contadino tedesco industrioso e frugale, era altrettanto salda l’idea che dopo qualche anno passato in affitto o sotto contratto,
questo avrebbe abbandonato la condizione di servant per diventare egli stesso un master; quello che invece serviva ai farmers era «forza lavoro, non concorrenti»[35]. Le soluzioni vennero individuate nella necessità di sviluppare i bisogni della popolazione, forzando gli africani e i «bianchi poveri» a
vestirsi in modo appropriato e a promuovere la loro igiene personale visto che «i nativi non stavano progredendo in civilizzazione» e che «i bisogni e il lavoro necessario per soddisfarli»[36] erano la pietra fondante alla base di ogni società organizzata.
Da questo momento in poi gli investimenti da parte del governo della Colonia per supportare l’emigrazione europea diminuirono sensibilmente[37].
Il settore agricolo continuò a lamentare gravi difficoltà per tutti gli anni ’90. Nel settore vitivinicolo delle regioni del Western Cape, la fillossera continuava a far marcire le viti e alcuni
tra gli agrari più facoltosi del distretto, supportati dai capitali inglesi della Cape Orchard Company, decisero di diversificare le colture impiantando alberi da frutto e di
agrumi[38]. Rimaneva però irrisolto il problema della manodopera specializzata per l’arboricoltura. Nel 1897, l’ex ministro dei Lavori
Pubblici J.X. Merriman pensò agli italiani per sviluppare in modo promettente la coltura degli alberi da frutta. Considerata la crescita del settore e i progressi incoraggianti, scrisse così in una
sua corrispondenza privata:
Credo però che la questione della manodopera sarà di nuovo un grande problema. Nessuno dei nuovi arrivati che sono affluiti a migliaia, sembra avere alcuna voglia di legarsi alla terra. Loro si accalcano in città e incrementano le fila dei consumatori. I Cafri sono praticamente inutili per questo tipo di coltivazione e per giunta sono difficili da gestire. Ai Coolies, ai cinesi e ai giapponesi non si deve neppure pensare perché nel momento in cui dovessero arrivare, potremmo dire pure addio alla pallida speranza di far diventare questo paese una terra per bianchi. [..] Ho pensato molto agli italiani. Sono penosamente poveri, operosi ed esperti in particolare di frutteti e vigneti[39].
Gli agricoltori del Capo – con l’ex Ministro in testa – dovettero aspettare la fine della guerra anglo-boera e la pacificazione dell’intero Sudafrica prima di poter presentare in parlamento la proposta per lo stanziamento di 10,000 sterline per far arrivare dall’Italia settentrionale dalle trecento alle quattrocento famiglie di contadini. Il dibattito parlamentare si svolse tra l’ottobre e il novembre 1902 mostrando nuovamente in quale grande dilemma si stesse dibattendo la Colonia: scegliere tra il lavoro degli asiatici o quello degli italiani. Prevalsero gli italiani che erano cristiani e industriosi e che, sebbene non fossero proprio in cima alla lista delle preferenze, si trovavano pur sempre «nella grande e vittoriosa corrente della civiltà bianca»[40]. Prevalsero anche perché erano note le condizioni in cui versavano in Italia e soprattutto a quali compensi erano abituati. Fu elaborata una proposta articolata che prevedeva un contratto di tre anni con un compenso giornaliero di due scellini e mezzo per gli uomini e di uno scellino e qualche pence per le donne, una settimana lavorativa di 6 giorni, contro i 5 usualmente praticati nel paese, e una trattenuta settimanale sulla paga a forma di garanzia contro la rottura anticipata del contratto. Di fronte a tale cifra, considerata ai limiti della sopravvivenza, si oppose non solo l’ispettore inviato dal Commissariato per l’Emigrazione italiana, ma anche una buona parte dell’opinione pubblica locale che giudicò la proposta come un modo «spregiudicato, inopportuno e biasimevole di degradare il lavoro dell’uomo e della donna bianchi»[41]. Il progetto non andò mai in porto. Alla richiesta fatta dal governo italiano di aumentare i compensi di almeno il doppio, i farmers risposero che a 5 scellini avrebbero potuto trovare manodopera bianca di qualsiasi tipo e che il loro obbiettivo principale non era quello di ottenere lavoro europeo, bensì lavoro e di quello che costasse meno[42].
Note
[1] N. Worden, Slavery in Dutch South Africa, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, 44-47.
[2] Ivi, 8-13.
[3] Ivi, 141-142 e R. Ross, The changing legal position of the Khoisan in the Cape Colony, 1625-1795, «African Perspectives», 2 (1979), 67-87.
[4] Sul ricorso all’Indentured Servitude nelle colonie inglesi si veda D. Souden, English Indentured Servants and the Trans-Atlantic Colonial Economy, in: S. Marks, P. Richardson (eds.), International Labour Migration. Historical Perspectives, Middlesex, University of London, 1984.
[5] R. Ross,‘Rather Mental than Physical’. Emancipation & the Cape Economy, in: N. Worden, C. Crais (eds.), Breaking the Chains. Slavery and its Legacy in the Nineteenth-Century Cape Colony, Johannesburg, Witwatersrand University Press, 1994.
[6] P. Delius, Migrant labour and the Pedi, 1840-80, in: S. Marks, A. Atmore (eds.), Economy and society in pre-industrial South Africa, Longman, London, 1980 e J. Kimble, Labour Migration in Basutoland, 1870 – 1885, in: S. Marks, R. Rathbone (eds.), Industrialisation and Social Change in South Africa. Class formation, culure, consciusness, 1870-1930, London, Longman, 1982.
[7] J. Stone, Colonist or Uitlander? A Study of the British Immigrant in South Africa, Oxford, Claredon Press, 1973, 95.
[8] Cape of Good Hope, Report of the Committee appointed by the House of Assembly to take under consideration His Excellency the Governor’s recommendation concerning immigration, 1856.
[9] Non c’è accordo sul numero effettivo dei nuovi arrivati. Esmè Bull ha contato circa 12.000 immigrati tra il 1857 e il 1861, mentre John Stone fa riferimento a poco meno di 10.000. Si veda E. Bull, Aided Immigration from Britain to South Africa: 1857 to 1867, Pretoria, Human Science Research Council, 1991, 12 e J. Stone, Colonist or Uitlander?, cit., 112.
[10] Cape Colony Papers (da qui in avanti CCP), A.67 – ’60, Petition of Certain Inhabitants of the Town and Division of Worchester, 1860; CCP, G. 29 – ’61, Report of the Immigration board, Cape Town, on the working of the Immigration Scheme, 1861; CCP, G.37 –’61, Report on the Immigration Board at Port Elizabeth, 1861.
[11] CCP, A.38 –’62, Petition to the President and members of the Legislative Council. Inhabitants of the division of Groot Drakenstein, 1862 e CCP, A39 – ’62, Petition to the President and members of the Legislative Council. Inhabitants of Wellington, 1862.
[12] S. Marks, R. Rathbone (eds.), Industrialization and Social Change, 12.
[13] CCP, G.42 –’76, Census of the Colony of the Cape of Good Hope. march, 1875, Part I. – Summaries, 1877, 4-6.
[14] «Standard and Mail», 26 agosto 1873.
[15] Si vedano, tra gli articoli più significativi: Occasional Notes, «Cape Argus», 19 agosto 1871, 2; Life at the Diamond Fields, «Cape Argus», 30 marzo 1972, 3; Correspondence, «Cape Argus», 24 maggio 1873, 3.
[16] Natal, «Cape Argus», 9 marzo 1871, 3; Natal , «Cape Argus», 28 ottobre 1871, 3.
[17] Adequate and reliable supply of labour, «Standard and Mail», 3 luglio 1871, 3.
[18] Il paradosso della compresenza di scarsità di manodopera e di salari compressi è stato ben argomentato in C.H. Feintein, An Economic History, cit., 67-70.
[19]Public Meeting at Graham’s Town. The Labour Queston, «Standard and Mail», 14 settembre 1872, 2-4.
[20] C. H. Feistein, An Economic History, cit., 33
[21] A.J. Purkis, The politics, capital and labour of railway-building in the Cape Colony, 1870-1885, Oxford, Thesis D. Phil, University of Oxford, Faculty of Modern History, 1979.
[22] CCP, G. 58 –’84, Cape of Good Hope, Ministerial Department of Crown Lands and Public Works, Report of the Immigration Agents at London, East London and Cape Town for the Year 1883, 1884, 3.
[23] Si veda la voluminosa corrispondenza contenuta in Cape Town Archives Repository (KAB), Public Work Department (PWD), vol. 2/277. Si veda poi CCP, G. 8 –’76, Memorandum on Immigration and Labour Supply - Report on European Labour, T.E. Fuller to the Honourable J.X. Merriman, 14 gennaio 1876.
[24] «Cape Argus», 26 febbraio 1874, 3.
[25] CCP, House of Assembly, Debates, 11 giugno 1874.
[26] R. Turrel, Kimberley: Labour and Compounds, 1871-1888, in: S. Marks, R. Rathbone (eds.), Industrialisation and Social Change, cit., 50-51.
[27] CCP, G.39 –’75, Correspondence and papers on the subject of Emigration from India and China.
[28] In proposito si vedano i numerosissimi articoli apparsi sul «Cape Argus» e sul «Cape Town Daily News and General Advertiser» (Daily News) tra il 1875 e il 1876.
[29] Correspondence. The Chinese, “The Argus” and “The Standard and Mail”, «Daily News», 21 gennaio 1876, 3.
[30] Correspondence, « Cape Argus», 24 maggio 1873, 3.
[31] CCP, G.8 –’76, Ministerial department of Crown Lands and Public Works, No. V., Immigration. Report on Immigration and Labour Supply for the year 1875.
[32] V. Bickford Smith, Ethnic Pride and Racial Prejudice in Victorian Cape Town. Group identity and social practice, 1875-1902, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, 93-94.
[33] Il problema della penuria di manodopera fu affrontato anche in sede di dibattito parlamentare. Si veda CCP, Debates in the House of Assembly, 28 giugno 1890, 89-90 e 13 agosto 1890, 288-289.
[34] CCP, G.39 –’93, Labour Commission, cit., XXI. Una visione d’altronde ben nota in parlamento. Si veda CCP, Debates in the House of Assembly, 2 giugno 1891, 17-21.
[35] CCP, G. 39-’93, Labour Commission, cit., XXI.
[36] Ivi, XIX.
[37] Si veda in proposito E. Bull, Aided Immigration, cit., 17-18.
[38] K. Brown, Progressivism, Agriculture and Conservation in the Cape Colony, circa 1902 – 1908, Oxford, D.Phil. Thesis, Wadham College, 2002, 50-53.
[39] V. Solomon (ed.), Selections from the Correspondence of Percey Alport Molteno 1892-1914, Cape Town, Van Riebeek Society, 1981, 45-46, cit. in: C. Ottaviano, Italians in South Africa, in: L’emigrazione italiana. 1870-1970. Atti dei colloqui di Roma, Roma, Direzione Generale per gli Archivi, 2002, vol. II, 789.
[40] Si legga a proposito la corrispondenza inviata da Londra ad un quotidiano romano, Emigrazione e Lavoro italiano, «La Tribuna», 22 ottobre 1902, 1.
[41] The Owl Cake. For half a kafirating wages, «The Owl», 12 dicembre 1902, 1.
[42] Western Province Board of Horticulture, Special meeting. Italian labour scheme, «Agricultural Journal of the Cape of Good Hope», 22 (1903), 421- 422.