Introduzione
Da ormai una quindicina d’anni, nel dibattito politico italiano ed europeo, l’immigrazione è divenuto uno degli argomenti più discussi ed una delle emergenze prioritarie. Nonostante sia ormai
assodato che l’immigrazione «è una necessità, un dato di fatto, e in quanto tale non negoziabile» [1], le istituzioni comunitarie e nazionali trovano notevoli
difficoltà nell’elaborazione e messa in pratica di politiche atte a stabilizzare la permanenza degli immigrati nei propri paesi.
Il problema viene imputato al fatto che oltre ad una percentuale di immigrati che regolarmente soggiornano e lavorano nelle nostre comunità ci sia un numero, imprecisato ma allarmante, di
clandestini ed irregolari che risiedono entro i nostri confini senza averne diritto, creando forti disagi al normale proseguo della vita dello stato e dei cittadini. Per quanto riguarda l’Italia,
analizzando più da vicino le politiche adottate per far fronte ai disagi attribuiti alla presenza degli immigrati, ciò che si evince è che è mancata la sinergia tra i sistemi locali e le
istituzioni, le quali solo tardivamente hanno riconosciuto la presenza di flussi strutturati di immigrazione: per quasi due decenni sono stati esclusivamente gli enti locali e la Chiesa ad
occuparsi degli immigrati presenti sul proprio territorio. Quando successivamente si è organizzato l’intervento dello Stato, questo si è sviluppato sotto forma di strumenti di controllo, più che di
interventi miranti a far fronte alle esigenze della nuova convivenza, mediante una legislazione sull’immigrazione poco attenta ai diversi percorsi di integrazione (o esclusione) delle realtà locali
e attraverso un uso massiccio delle sanatorie e degli interventi delle forze dell’ordine.
L’inadeguatezza di tali politiche appare chiaramente nel momento in cui si analizzano situazioni concrete di convivenza tra immigrati, popolazione e governo locale. Nelle città, in particolare,
emergono le più grandi contraddizioni.
Seguendo le premesse sopra espresse, in questo articolo si tenterà di capire le motivazioni che hanno portato le attuali politiche italiane a gestire il fenomeno migratorio come un’emergenza.
A tale proposito, dopo aver presentato le peculiarità dell’incontro tra lavoratori immigrati e Stato italiano e le evoluzioni in ambito europeo della libera circolazione degli stranieri, si
prenderà in esame un caso specifico tra le tante emergenze immigrati nelle nostre città: la storia dello Scalo internazionale migranti di Bologna.
Nato nell’ottobre del 2002 dall’idea di un gruppo di immigrati rumeni, di appartenenti al Bologna Social Forum e di alcuni disobbedienti di occupare uno stabile abbandonato delle Ferrovie dello
Stato, l’esperienza dello Scalo internazionale migranti è finita nel marzo 2005 quando l’edificio occupato è stato sfollato.
Quando l’immigrazione non era ancora un’emergenza: una presenza rimasta poco conosciuta
È difficile sapere con precisione quando l’Italia ha iniziato a necessitare di manodopera straniera. Orientativamente si può stabilire che una presenza non insignificante si incontrava già alla
fine degli anni Sessanta.
Come sottolineano alcuni autori, la difficoltà deriva dal fatto che per lungo tempo il nostro paese ha disconosciuto l’esistenza dei flussi migratori, la cui presenza poco documentata e quindi poco
conosciuta, ha avuto per molti anni dimensioni simili se non superiori a quelle registrate negli archivi. Lo stesso vale per i flussi regolari: l’archivio dei permessi di soggiorno del Ministero
degli Interni rappresenta la principale fonte conoscitiva sugli stranieri regolarmente residenti in Italia. Essendo però uno strumento orientato principalmente al controllo di polizia, tale
archivio ha mantenuto per decenni, e quindi contato, anche i dossier di stranieri che probabilmente non erano più nel nostro paese. Inoltre le procedure relative ai lavoratori immigrati
praticamente non esistevano: una volta giunti nel paese e deciso di soggiornarvi, gli stranieri si trovavano ad affrontare due circuiti di procedure «in buona parte indipendenti e frequentemente in
contraddizione» [2], che facevano capo rispettivamente al Ministero degli Interni e al Ministero del Lavoro. Entrambi si trovavano a gestire la presenza degli
stranieri nel quadro di norme che non prevedevano tale presenza. Non era infrequente che lo straniero fosse considerato regolare per un ministero e irregolare per l’altro [3].
Il primo intervento legislativo che tentasse di regolare il fenomeno migratorio in Italia arrivò solo nel 1986, con la legge 943 del 30 dicembre. La decisione di legiferare in tal senso fu solo
parzialmente influenzata dalla crescita della popolazione straniera. Il fattore principale fu di tipo istituzionale.
Nel 1975 l’Italia aveva sottoscritto la Convenzione n. 143 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, volta a contrastare il diffondersi di forme immigratorie irregolari e a riconoscere al
lavoratore straniero parità di diritti con i lavoratori autoctoni. Questa convenzione fu fortemente voluta dall’Italia, interessata a proteggere i propri lavoratori all’estero, molti dei quali
versavano in condizioni di irregolarità o erano oggetto di discriminazioni nell’accesso ai servizi e alle protezioni giuridiche. Questo successo diplomatico rendeva necessario un risvolto in patria
che tardò ben undici anni ad arrivare. Ciò principalmente per due motivi: il primo è che l’immigrazione era ancora abbastanza invisibile sia quantitativamente che mediaticamente, tanto che quando
la legge venne approvata, la notizia fu trattata dai quotidiani italiani nelle pagine interne e senza troppo risalto; il secondo è la competizione tra apparati burocratici nel corso del processo
legislativo: ad ogni passo parlamentare, il provvedimento veniva continuamente modificato, riflettendo i cambiamenti nella bilancia dei poteri tra le burocrazie ministeriali coinvolte.
Con la sua approvazione, la Legge 943/86, rappresentò un indubbio passo avanti nel riconoscimento della presenza di immigrati in Italia, anche se molto
contraddittorio, ma i suoi innumerevoli fallimenti (fallimento delle politiche degli ingressi e assenza di dispositivi volti a stabilizzare ed
integrare la popolazione straniera residente) si sarebbero ripresentati anche nelle successive legislazioni su tale tema.
Anche la sanatoria, qui ufficialmente utilizzata per la prima volta, diverrà strumento politico costante e, a detta dei legislatori, inevitabile
[4]. Nel corso degli anni ’90 entrambi gli schieramenti politici, sebbene sotto differenti slogan, avrebbero consolidato un approccio emergenziale alle
questioni migratorie che sarebbero divenute parte centrale della loro propaganda elettorale. Questo processo di politicizzazione delle immigrazioni,
oltre a consolidare un’immagine stereotipata delle realtà degli immigrati, che rimaneva nei fatti un mondo ancora molto poco conosciuta, ha favorito una situazione particolarmente vantaggiosa per
l’immigrazione irregolare e ha penalizzato quella regolare.
Il pensiero della politica emergenziale: l’immigrato è un potenziale nemico
Da quanto riportato dai dati del Ministero degli Interni la spesa pubblica del 2004 per l’inserimento degli immigrati regolari è stato in Italia di 29 milioni di euro, contro i 115 utilizzati per
contrastare l’immigrazione irregolare [5]. Di quest’ultimi il 92% è stato destinato alle attività dei CPT (la sola espulsione coattiva di uno straniero
irregolare dall’Italia si aggira tra gli 845 e i 4.767 euro)[6]. Quindi, mentre le politiche di controllo e di punizione dell’irregolarità godono di ingenti
risorse finanziarie, l’inserimento degli immigrati regolari viene considerato come un investimento di secondaria importanza. La politica italiana sembrerebbe quindi considerare gli immigrati come
persone straniere e pericolose, da allontanare dal proprio territorio.
Ciò è confermato anche dal ritardo con cui si è data una definizione giuridica dell’immigrato.
Il nostro ordinamento, infatti, fino alla Legge 943 del 30 dicembre 1986, non contemplava la figura dell’immigrato, ma solo quella dello straniero prevista dalle norme di pubblica sicurezza del
primo dopoguerra (Testo Unico di polizia del 1931), seguite da una serie di circolari ministeriali che si limitavano ad imporre un controllo sugli stranieri presenti sul territorio nazionale. Al
riguardo Luigi Melica precisa come la definizione giuridica dello straniero, benché fosse tutt’altro che esaurita, abbia contribuito in modo determinante a plasmare una cultura dell’immigrazione, e
più in generale della diversità etnica, precedentemente estranea all’Italia. Per quel che riguarda invece gli organi dello Stato - apparato centralistico, permaneva un retroterra culturale e
giuridico profondamente radicato:
Permaneva (e per certi versi ancora domina) un sistema che, in nome del mantenimento dell’ordine pubblico, additava lo straniero come potenziale nemico da tenere sotto stretta sorveglianza ed in condizione di totale incertezza circa la permanenza all’interno dello Stato. Non era estranea a questa cultura una concezione dello Stato persona che attraverso la sopravvivenza di alcune disposizioni (tra cui, il Testo Unico di Pubblica Sicurezza) manteneva in vita, in questo particolare settore, uno dei capisaldi dell’ideologia fascista, quale appunto la particolare protezione e tutela della personalità dello Stato [7].
L’immagine dello straniero come potenziale nemico viene fedelmente ritrasmessa dal mondo giornalistico. Nelle ricerche svolte all’interno del progetto Etnequal Social Communication sul mondo dell’informazione in Italia, viene presentato un quadro generale dominato da una sconfortante inadeguatezza dei contenuti e dei linguaggi proposti al pubblico [8]. Non solo lo spazio dedicato alla cronaca e alla modalità di ingresso degli immigrati sovrasta quello, scarsissimo, dedicato alla conoscenza di come vivono i lavoratori stranieri in Italia, ma spesso sono le stesse istituzioni (Ministero dell’Interno, organismi di intelligence, forze dell’ordine, etc.) a diffondere stime allarmistiche e quindi lontane dalla realtà, soprattutto rispetto alla presenza islamica in Italia o all’entità degli sbarchi di clandestini. La figura dell’immigrato proposta da tale modello informativo genera paura nel cittadino, il quale spesso finisce per attribuire all’eccessiva presenza straniera nel paese disagi, anche se questi non hanno diretto collegamento con la loro presenza.
A conferma di ciò, da una indagine della Fondazione Censis (2004) su un totale di 2000 intervistati su tutto il territorio nazionale, emerge che nel Meridione un 68,3% degli intervistati vive
l’immigrazione come un problema, a fronte nel Centro-nord di un 40% che invece la vede come meno consistente rispetto ad altre aree del paese [9]. Sarebbero le
condizioni economiche delle regioni del Sud ad accentuare le diffidenze nei confronti dei migranti, percepiti come possibili competitors sul mercato del lavoro ma anche nel sistema di
assistenza pubblica. È infatti al Sud che si concentrano tassi di disoccupazione altissimi soprattutto tra i laureati. Le sacche di disoccupazione si
concentrano in aree logisticamente distanti dalle zone in cui c’è offerta di lavoro a causa dei gravi problemi di collegamento periferico di cui
soffre il nostro paese, complicando conseguentemente l’incontro tra domanda e offerta.
Oltre a queste difficoltà strutturali, si aggiungono altri due ostacoli. Il primo è che nel sistema produttivo italiano l’informalità è molto diffusa e conseguentemente crea posti di lavoro poco
visibili, che spesso non fuoriescono dai circuiti informativi delle reti locali che si basano su rapporti costruiti sul luogo specifico.
Il secondo è che i giovani in Italia si dimostrano refrattari verso i lavori a bassa qualifica, nonostante il nostro paese abbia una forza lavoro tra le
meno istruite dei paesi industrializzati (anche meno istruita di quella costituita dagli immigrati).
È qui in parte che si motiva la necessità di immigrati ossia
l’effetto di questo complesso processo di costruzione sociale: sul piano nazionale sarebbe difficile da sostenere, mentre sul piano locale la manodopera immigrata diventa un fattore a cui a vario modo si ricorre per tamponare contraddizioni e storture relative all’incontro tra domanda e offerta di lavoro [10].
Il dibattito sull’immigrazione negli anni ‘’90: il ruolo del locale nella gestione delle emergenze
Furono le regioni, già dai primi anni ’90, ad assumere spontaneamente un ruolo centrale nella predisposizione di politiche pubbliche a favore degli immigrati che andassero a colmare silenzi e
ritardi dello Stato centrale [11]. La vicinanza del fenomeno immigrazione alle comunità locali spinse i governi regionali a localizzarsi ulteriormente,
creando vere e proprie comunità auto-organizzate. Questa autogestione portò a nette differenze territoriali: solo per fare un esempio, riguardo all’autocertificazione del reddito prevista per
ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, si trovavano questure che non chiedevano nessuna prova, questure che chiedevano prove bancarie e questure che chiedevano il modello 101 [12].
Al fine di attenuare le disparità più macroscopiche nell’accesso ai servizi, nel corso degli anni ’90 vennero approvati una serie di provvedimenti ministeriali. Si mirava soprattutto a regolare
l’erogazione delle prestazioni sanitarie agli immigrati irregolari mentre non si davano disposizioni per il trattamento dei regolari. Veniva in questo modo delegata agli enti territoriali la
gestione delle emergenze, mentre si rimandava a livello ministeriale la predisposizione di politiche dei flussi e di integrazione, considerate sostanzialmente questione di interesse nazionale più
che locale [13].
Riguardo a questo stato di cose in Uno schermo contro il razzismo Giovanna Zincone sottolinea come lo Stato italiano si manifesti in forme molto diseguali sul territorio nazionale dando
vita al cosiddetto localismo italiano dei diritti: comparando regioni e città, è riscontrabile una notevole differenza nell’accesso ai
servizi e tra i diritti esercitati dai cittadini.
In questa cornice si riconosce alle organizzazioni religiose e al privato sociale un ruolo cruciale nella erogazione dei servizi, che si è rivelato essere importante al Centro-nord e praticamente
esclusivo al Sud. I comportamenti e l’azione concreta che tali servizi possono svolgere sono fortemente dipendenti dalla relazione che hanno instaurato con la pubblica amministrazione, o meglio
«dalla triangolazione tra amministrazione, privato sociale e forze dell’ordine». Questo fattore incide sul trattamento riservato agli immigrati molto
più del colore della maggioranza al governo locale.
In tale situazione si riconosce alla legge Turco-Napolitano (40/1998), il tentativo più organico e più ambizioso di ristrutturare sistematicamente la legislazione migratoria. Essa si proponeva di
dare coerenza a questo quadro frammentato, partendo proprio dal riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dagli enti locali nell’accoglienza e nell’integrazione sociale degli stranieri. La legge
introdusse una riforma integrata dei sistemi di controllo, di regolarizzazione dei flussi e di integrazione degli stranieri residenti. Introdusse la Carta di soggiorno e lo sponsor, ma anche i
molto contestati centri di permanenza temporanea (CPT). Si prospettò la possibilità di coinvolgere gli Stati d’origine e di transito nella regolarizzazione, prevedendo la possibilità di quote
preferenziali per i cittadini di Stati con i quali sono stati stabiliti accordi. Di particolare importanza il privilegiare un approccio più orientato alla programmazione sul territorio, favorendo
piani di intervento che coinvolgessero l’intera Regione e che dessero luogo a politiche continuative nel tempo. La legge introdusse anche un nuovo strumento di coordinamento tra i vari attori,
pubblici e privati, che a livello locale si occupano di immigrati e cioè i Consigli Territoriali per l’immigrazione (CT), che avrebbero dovuto provvedere all’analisi delle esigenze e alla
promozione di interventi.
Tiziana Caponio sottolinea come la rilevanza e il ruolo di questi organismi sia quantomeno controverso:
la decisione di affidare al Prefetto, e cioè ad un organo privo di competenze in materie di politiche sociali, il compito di assicurare la formazione e il funzionamento dei CT, nonché l’assenza di un fondo apposito a cui poter attingere per la realizzazione di iniziative specifiche, sembra aver minato in partenza la possibilità di influenza sulle decisioni di policy [14].
Nel complesso gli effetti della legge sono stati piuttosto diversificati. Pur registrando un aumento di efficacia nella lotta all’immigrazione clandestina, la politica attiva degli ingressi è stata
portata avanti in modo irregolare. Le quote annuali furono fissate su livelli molto inferiori rispetto al fabbisogno e lo stesso meccanismo dello sponsor è stato utilizzato con il contagocce.
Il 25 luglio 1998, la L. 40/98 divenne Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero, includendo vecchie e nuove
disposizioni più le successive integrazioni. Gli investimenti economici e i primi sperimentali strumenti di integrazione, già depotenziati in sede di approvazione, vennero ulteriormente moderati,
impedendo per il limitato svolgimento di studiarne i risultati [15].
Il fine delle politiche emergenziali: mantenere l’immigrato in una condizione precaria
Secondo le analisi di Andrea de Bonis e Marco Ferrero, le politiche italiane dell’ultimo decennio si basano sull’idea di un’immigrazione portatrice di conflittualità sociale, che ha imposto scelte
ispirate non semplicemente al mero contenimento degli ingressi, bensì anche ad una vessatoria negazione dei diritti degli immigrati già regolarmente soggiornanti [16].
Giovanna Zincone ha coniato per tale situazione il concetto di «interazione a basso conflitto»: limitare i diritti degli immigrati per favorirne l’accettazione da parte della popolazione autoctona,
la quale dovrebbe sentirsi rassicurata dalla subalternità giuridica dei nuovi arrivati. Si genera così un paradosso: la negazione dei diritti è fatta passare come uno strumento di integrazione
mentre si lascia nell’ incertezza la permanenza dell’immigrato nel paese [17].
Questi scopi sono particolarmente evidenti nelle leggi che regolano l’ingresso degli stranieri in Italia che prevedono l’utilizzo del sistema del decreto flussi (quote), compreso il c.c. accertamento di indisponibilità introdotto dalla legge Martelli (39/90). Il sistema, che nel suo insieme è rimasto a lungo inattuato perché poco pratico, ha
visto un ulteriore irrigidimento con le scelte del legislatore del 2002 (Bossi-Fini 98/2000), nonostante varie voci sottolineassero da tempo la sua inadeguatezza [18].
Come si evince da Immigrati e imprese tra diritti e sicurezza. Alcuni spunti propositivi[19], tale irrigidimento è dovuto all’introduzione di una
serie di misure restrittive presentate come proposte alternative nella direttiva comunitaria in materia di ingresso e di soggiorno. Questa legge ha introdotto tre sostanziali differenze rispetto al
precedente Testo Unico: l’elevazione a 6 anni (invece dei 5 precedenti) del periodo di permanenza necessario per il rilascio della Carta di soggiorno; la subordinazione del rilascio di suddetto
documento a condizioni particolarmente rigide; l’innalzamento a 90 giorni antecedenti la scadenza del permesso di soggiorno per la presentazione in questura della relativa domanda di rinnovo.
Analizzando dall’interno tali modifiche si scopre come certe scelte non siano state dettate dalla volontà di razionalizzare e legalizzare queste pratiche, o almeno questa è la percezione degli
addetti ai lavori, che vengono spinti loro stessi ad agire nell’irregolarità [20]. Innanzitutto la scadenza per il rinnovo del permesso di soggiorno portata a
90 giorni: già nel precedente regime, con un termine di 60 giorni, erano le stesse questure a sollecitare il richiedente a presentarsi non prima di 20 giorni dalla scadenza [21].
Per quel che riguarda invece le restrizioni, l’ingresso è subordinato al possesso di mezzi di sostentamento e di un alloggio idoneo, il quale deve sottostare a parametri legali di abitabilità
elevatissimi (concepiti per una popolazione ad altissimo reddito), in presenza di un’attività edilizia pubblica assai più modesta e a una disapplicazione generalizzata delle norme da parte degli
stessi professionisti del settore [22]. Rinnovo e revoca del permesso di soggiorno sono subordinati alla permanenza dei suddetti requisiti, dovendo negare lo
stesso ogni qualvolta il reddito sia insufficiente o l’alloggio divenuto inidoneo (per crescita della famiglia). Funge da mediatore il datore di lavoro, che deve presentare un’apposita
autocertificazione comprovante che l’alloggio del proprio dipendente è idoneo (un nucleo di 3 persone dovrebbe obbligatoriamente vivere in un’abitazione di almeno 60 mq). Per quanto riguarda il
reddito, in sede di rinnovo di permesso i richiedenti, sia che abbiano un impiego o che siano al momento disoccupati, sono fortemente penalizzati. Ciò perché esiste un unico riferimento normativo
per la valutazione dei mezzi di sussistenza che si limita a stabilire
la disponibilità di un reddito, da lavoro o di altra fonte lecita, sufficiente al sostentamento proprio e dei suoi familiari conviventi a carico può essere accertata d’ufficio sulla base di una dichiarazione temporaneamente sostitutiva resa dall’interessato con la richiesta di rinnovo [23].
Le questure però, invece di richiedere i mezzi di sostentamento attuali, come sembra indicare il regolamento, impongono ai richiedenti di documentare quelli pregressi, con l’effetto di negare il
rinnovo anche a quanti sono in possesso di un’occupazione magari ottenuta qualche mese prima della scadenza.
In generale le questure utilizzano il parametro della pensione minima (4.600 euro l’anno) come indicatore del reddito minimo; reddito che cresce in corrispondenza al numero dei familiari a carico
secondo quanto previsto dalle norme sul ricongiungimento familiare. L’aspetto peculiare è che non esistono direttive specifiche sulle modalità di esercizio di tale discrezionalità: gli operatori,
oltre ad adottare questa prassi restrittiva, ignorano altre fonti di reddito lecito pure contemplate dal regolamento [24]. A tale proposito l’ASGI
(Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ha lanciato l’allarme di una pesante retrocessione: se già la legge del 1992 fissava requisiti anacronistici per ottenere la cittadinanza,
considerati i più rigidi d’Europa, con la successiva del 2002 si configura un ritorno per gli immigrati ad una cittadinanza censitaria.
A questa già gravosa situazione si aggiungono i tempi biblici che l’immigrato deve attendere per ottenere il rilascio del primo permesso di soggiorno e il successivo rinnovo. Nella stragrande
maggioranza delle questure, i tempi che intercorrono tra la presentazione della richiesta e l’effettivo rilascio vanno da 3 a 8 mesi, durante i quali i richiedenti il rinnovo dispongono solo della
ricevuta di presentazione della domanda.
Il dibattito europeo da Schengen alla Carta costituzione: l’immigrazione crea consensi solo come problema di sicurezza
La regolazione comunitaria dell’immigrazione è strettamente legata all’evoluzione dell’integrazione europea e, nello specifico, alla libera circolazione degli individui all’interno degli Stati
membri.
Questo processo ha subito un forte impulso durante gli anni ’70, quando alcuni paesi decisero di attivarsi per cooperare in determinati settori di interesse comune. Ciò avveniva attraverso la
creazione di organismi, distinti per area tematica, all’interno dei quali operavano gruppi di lavoro creati ad hoc. Tra questi, particolarmente rilevante fu quello istituito dall’Accordo di
Schengen (14 giugno 1985) e dalla relativa Convenzione di applicazione (19 giugno 1990). Suddetto gruppo, denominato anche “laboratorio Schengen”, si caratterizzava come un tentativo di creare
un’area di libera circolazione all’interno degli Stati firmatari del trattato.
Nella fase iniziale solo un gruppo ristretto di Stati sottoscrisse l’Accordo (Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi), ma poi il numero aumentò con l’adesione dell’Italia (1990), della
Spagna e del Portogallo (1991), della Grecia (1992), dell’Austria (1995), della Danimarca, della Finlandia e della Svezia (1996). Il Regno Unito e l’Irlanda, pur facendo parte della Comunità,
decisero di rimanerne esclusi, mentre Norvegia e Islanda entreranno a farvi parte con lo status particolare di “membri associati” perché non sono membri dell’Unione Europea ma del North Council
(Accordo di libera circolazione tra i paesi dell’Unione nordica). Saskia Sassen sottolinea come i cinque iniziali firmatari dilazionarono la ratifica di un secondo accordo, prevista nel novembre
1989, mirante a costituire un’area di libera circolazione a partire dal 1°gennaio 1992.
A impedire l’esecuzione dell’accordo sarebbero intervenuti problemi quali il segreto bancario, il controllo sul traffico di droga e la protezione dei dati, oltre alla dichiarata difficoltà di
controllare le frontiere esterne sopravvenuta con la caduta del muro di Berlino. Il secondo Accordo Schengen fu finalmente firmato nel giugno del 1990, ma molti problemi rimanevano irrisolti e
l’applicazione delle nuove misure era continuamente rimandata: dal 1 gennaio 1992 al 1 dicembre 1993, quindi al 1 febbraio 1994 [25].
I problemi erano in parte dovuti alla necessità che su alcuni temi intervenissero le istituzioni comunitarie; per contro la Gran Bretagna sosteneva che proprio le difficoltà nel migliorare le
condizioni della libera circolazione e il fatto che le istituzioni della comunità avessero competenza solo in alcune procedure, dimostrassero la sovranità illimitata ed esclusiva dei singoli Stati
nell’affrontare temi quali la lotta al terrorismo, l’immigrazione e la naturalizzazione [26]. Così, dall’adesione all’entrata in vigore delle clausole
dell’accordo i vari Stati hanno visto passaggi graduali (in Italia l’apertura delle frontiere è effettiva solo dal 1998).
Nel concreto l’area Schengen viene controllata attraverso un organismo di polizia, SI.RE.NE, presente in ogni stato firmatario dell’Accordo che, attraverso una banca dati di Strasburgo (SIS C) e la
relativa copia in ciascun stato membro (SIS N) identifica eventuali soggetti pericolosi che, colti in flagranza di reato, possono essere inseguiti oltre frontiera senza previa autorizzazione
(diritto di inseguimento) o, rimasti indiziati, possono essere oggetto di particolari ricerche oltre frontiera senza previa autorizzazione (diritto di osservazione). Ma l’aspetto
più significativo del sistema Schengen, sottolinea Licastro, è quello di aver avviato in un settore particolare una forma di cooperazione che non era riuscita nel quadro comunitario; «dall’altro
lato però il c.d “laboratorio Schengen” presentava un rilevante deficit, ovvero la mancanza di un controllo giurisdizionale» [27].
Con il trattato sull’Unione Europea (TUE) firmato a Maastricht nel 1992, si decise una costruzione fondata su tre pilastri: il primo riguardava la comunità europea che inglobava tutti i trattati
precedenti (CECA, EURATOM, CEE); nel secondo si introduceva la politica estera e di sicurezza comune (PESC); nel terzo, la cooperazione dei settori di giustizia e degli affari interni. A
quest’ultimo pilastro veniva anche data competenza in materia di immigrazione: in particolare, sulla libera circolazione delle persone.
Tale scopo veniva perseguito attraverso la cooperazione tra Stati membri nei diversi settori di “interesse comune”, che trattavano esclusivamente la questione migratoria come problema di sicurezza
e di ordine interno, con la clausola di operare nel rispetto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (4 novembre 1950) e della Convenzione
relativa allo status di rifugiati (28 luglio 1951). Se Maastricht quindi introdusse importanti novità (partecipazione in qualche modo comunitaria delle istituzioni comunitarie che nel c.d
“laboratorio Schengen” era esclusa; l’istituzionalizzazione della cooperazione tra Stati membri; la possibilità di realizzare la comunitarizzazione di determinati settori di “interesse comune”), si
continuava a lamentare l’assenza di un controllo giurisdizionale con riferimento agli atti del terzo pilastro [28].
In realtà, Mark Gilbert sottolinea che, mentre l’articolo J1 del trattato di Maastricht obbligava gli Stati a definire una comune politica estera e di sicurezza e ad astenersi da «qualsiasi azione
contraria agli interessi dell’Unione o tale da nuocere alla sua efficacia come elemento di coesione nelle relazioni internazionali», nulla nel trattato spiegava come gli Stati membri avrebbero
potuto fare ciò [29]. Dopo Maastricht si concordò che la “vicinanza” geografica sarebbe stato il criterio chiave per l’azione comune da parte degli stati
membri. I Dodici avrebbero tentato di formulare una politica comune verso quelle zone – Europa orientale, Balcani e Medio Oriente – che li riguardavano da vicino. Questa politica si concretizzò in
un rafforzamento della PESC: nel 1995 gli Stati membri si sono trovati concordi nel creare l’Interpol, un punto di smistamento informazioni per facilitare le inchieste trasfrontaliere riguardanti
crimini specifici (droga, immigrazione illegale, riciclaggio di denaro sporco), che entrò in attività nell’ottobre 1998.
Il ricorso all’Interpol è stato incrementato in risposta alla crescente frequenza di crimini trasfrontalieri, e dopo l’11 settembre la cooperazione contro il terrorismo ha dato un’ulteriore spinta
alla realizzazione di politiche comuni nella sfera di tutela dei cittadini [30].
Con il Trattato di Amsterdam (10 novembre 1997) si attuò la «comunitarizzazione» in materia di «visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone» e si
seguì all’incorporazione dell’aquis di Schengen. Sulla comunitarizzazione della politica in materia di immigrazione è significativa l’affermazione di Bruno Nascimbene:
Checché se ne dica dei progressi (o non progressi) compiuti, poco alla volta ed anche in uno spazio relativamente breve di tempo (e dieci anni sono uno spazio relativamente breve) la politica dell’immigrazione è destinata a far parte integrante del diritto comunitario: se vent’anni fa, si riteneva che la politica dell’immigrazione era praticamente esclusa dall’ambito comunitario oggi è destinata a divenirne parte essenziale [31]
Il 29 ottobre 2004 a Roma si è arrivati alla firma del Trattato per una Costituzione europea, che contempla la materia immigrazione all’interno dello “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”. Ad un esame delle disposizioni si nota un maggior interesse, rispetto alla normativa vigente, verso alcune “priorità” definite dal Consiglio europeo straordinario di Tampere (15-16 ottobre 1999), quali la prevenzione e il contrasto dell’immigrazione clandestina, una gestione più efficace dei flussi migratori, la lotta contro la tratta degli esseri umani. Con l’allargamento a 25, Enrica Rigo sottolinea però la diversa posizione esistente tra Regno Unito, Irlanda, Danimarca e i nuovi Stati membri relativamente all’acquis di Schengen:
durante i negoziati per l’allargamento, il governo russo ha insistito per un’applicazione flessibile dell’acquis da parte di Polonia e Lituania o, almeno, per la previsione di deroghe per gli abitanti di Kaliningrad. Tali proposte tuttavia non sono state accettate perché al fine dell’entrata dei paesi candidati nell’EU, il recepimento dell’acquis Schengen è obbligo non sottoponibile a condizioni. Questa situazione mette ancor più in evidenza la posizione ineguale che hanno avuto i paesi candidati nei negoziati di accessione. L’Europa del terzo pilastro infatti, ovvero delle materie inerenti giustizia ed affari interni, un’Europa a c.d. geometria variabile, dove gli stessi paesi membri godono di posizioni differenti, dal momento che Regno Unito, Danimarca e Irlanda non sono vincolate all’acquis di Schengen [32].
Naomi Klein al riguardo parla di un meccanismo per cui all’interno dei continenti-fortezza è stata creata una «gerarchia sociale» nel tentativo di quadrare il cerchio, cioè di trovare un equilibrio tra postulati palesemente contraddittori ma ugualmente vitali: di frontiere sigillate e di facile accesso a una manodopera a basso prezzo disposta ad accettare qualsiasi lavoro; di libero scambio e di indulgenza verso i sentimenti di ostilità verso gli immigrati [33]. Anche nel progetto della Carta costituzionale della Comunità europea «il trattamento dell’immigrazione è impermeato della stessa ambiguità che lo ha sino ad ora caratterizzato» [34]. Mentre viene resa pienamente comunitaria la maggior parte delle norme riguardanti la politica dell’immigrazione (gli artt. III-153 e ss. vogliono garantire una politica comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle “frontiere esterne”, così come la regolamentazione della politica di asilo e di quasi tutte quelle relative all’immigrazione – art.III-167 – inclusa l’integrazione salvo l’eventuale quota flussi che ogni stato voglia mantenere), il progetto della Carta costituzionale non prevede quasi nulla in ordine ai diritti riguardanti lo status giuridico dei lavoratori provenienti da paesi terzi, e in concreto la parte II, che contiene la Carta dei diritti fondamentali della Comunità europea, ignora praticamente la loro esistenza.
Eliseo Aja e Laura Díez ne indicano i motivi: mentre nella prima stesura della Carta dei diritti si omise di disciplinare la materia immigrazione, perché costituiva una problematica di non facile
soluzione dal punto di vista delle competenze comunitarie, nella seconda fase – ossia nell’includersi la Carta nel progetto del Trattato costituzionale – non si volle riaprire alcun dibattito in
tema di immigrazione per non renderne più difficile l’approvazione [35].
Ciò significa che gli extracomunitari residenti nei paesi dell’Unione rimangono figure giuridiche scarsamente definite e di conseguenza mantenute in uno stato di ambiguità. Secondo Zygmunt Bauman
la motivazione risiede nel fatto che «in questi anni, soprattutto in Europa e nelle sue diramazioni oltreoceano, la forte propensione alla paura e la maniacale ossessione per la sicurezza hanno
fatto la più spettacolare delle carriere» e considerato che «oggi il potere politico e il suo establishment, così come la sua conservazione, dipendono in toto dalle tematiche scelte con
cura su cui impostare le loro campagne» [36], gli immigrati si adattano meglio di qualsiasi altra categoria di cattivi, veri o presunti, come pericolo alla
sicurezza. La paura si materializza nelle città dove iniziano ad evidenziarsi certi spazi, nei quali si avverte un tangibile e crescente senso di distacco fra località e persone che sono
fisicamente vicine ma economicamente distanti. Ma è in questi luoghi, che
l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso viene elaborato, assimilato e negoziato. Ed è nei luoghi e grazie ai luoghi che i desideri si sviluppano e prendono forma, alimentati dalla speranza di realizzarsi, rischiano la delusione, e –a dire il vero- il più delle volte vengono delusi [37].
Come inizia e dove finisce un’emergenza: la storia dello Scalo internazionale migranti di Bologna
Emblematica l’esperienza dello Scalo Internazionale migranti di Bologna. La storia inizia nel settembre 2002 quando si decide di sgomberare la baraccopoli della piccola comunità rumena del
Lungoreno. Tra i pareri contrastanti delle varie parti politiche, i rumeni, «la maggior parte dei quali clandestini, ma molti con un lavoro e in attesa di regolarizzazione» [38], vengono sgomberati e messi al vaglio dell’ufficio Immigrazione che dovrà decidere chi far rimanere e chi espellere, secondo quanto previsto dalla Bossi-Fini.
Trenta cittadini rumeni espulsi, immediatamente rimpatriati con un volo per Bucarest: altri dieci colpiti da decreto di espulsione e che dovranno lasciare l’Italia entro cinque giorni; ventitré rumeni rilasciati perché regolarizzabili o in virtù dell’ultima sanatoria o perché arrivati in Italia da pochissimo e quindi in tempo per chiedere ed ottenere il permesso di soggiorno per motivi di turismo; quattro minori affidati ai genitori e quindi obbligati a seguirne le sorti: tre donne (una in stato di gravidanza) e due bambini per i quali si sono attivati i servizi sociali del Comune [39].
Intanto in consiglio comunale il dibattito sulle soluzioni post-sgombero per gli immigrati assume toni accesi: «No espulsioni. Case ai migranti». Il Bologna social forum (BSF) porta in consiglio la
protesta contro la «vergognosa situazione» dei 22 rumeni in attesa di regolarizzazione che nel frattempo vivono nei box dell’ex mercato ortofrutticolo di via Fioravanti [40]. Il problema casa è impellente ed inevitabile, tanto che, oltre alla nascita di altre tendopoli rumene [41], passati un po’ di giorni e
attenuata un po’ la luce dei riflettori, le famiglie tornano a ripopolare il Lungoreno «accampate a qualche centinaio di metri dal villaggio distrutto» [42].
A detta di Riccardo Marchioni, capogruppo del Polo delle Libertà nel consiglio di quartiere e coordinatore dei circoli di Alleanza nazionale dei quartieri Reno, Saffi e Borgo Panigale, la presenza
numerosa e clandestina di immigrati in questa zona è semplice:
Perché è il luogo ideale per il loro smistamento e il conseguente reclutamento per il lavoro nero. Vengono poi scaricati qui anche perché è assai comodo con l’autostrada così vicina. Il famoso caporalato di via Emilia Ponente, davanti al civico 341, continua ad aumentare invece che a diminuire. Basta presentarsi là verso le 7-7:30 di mattina e si può assoldare un esercito di rumeni pronti a qualsiasi tipo di lavoro [43].
Ma a supplire gli interventi mancati ci pensa l’inverno che spazza via gli extracomunitari dalle sponde del fiume, invivibile anche per i più disperati. La situazione non è certo facile e i flussi di rumeni passato il freddo ritornano, come viene testimoniato dai ciclici sgomberi [44] e abbattimenti dei villaggi fantasma [45] che continuano a rinascere. Ma la risposta è sempre la stessa:
In pochi giorni in materia di immigrazione clandestina le forze dell’ordine hanno fatto sfracelli. L’ordine del resto è arrivato direttamente dal ministero: “via i clandestini!”. Così dopo aver imbarcato sull’aereo quaranta dei rumeni che erano accampati nelle baraccopoli lungo il Reno, polizia e carabinieri hanno spedito a casa almeno un’altra trentina di persone. E non si contano, dall’entrata in vigore della Bossi-Fini, i nuovi decreti di espulsione di cui sono stati muniti altri cittadini non in regola [46].
Nel frattempo ai rumeni rimasti è offerta l’ospitalità del centro sociale ex-Mercato 24 di via Fioravanti; qui avvocati, medici (dell’associazione Sokos), studenti lavorano con i migranti per
garantire assistenza legale, sanitaria, sindacale e per seguire le pratiche di regolarizzazione. Molti dei rumeni lavorano in nero come manovali nei cantieri di Bologna e dintorni, sfruttati da
caporali e padroncini: si fa un’opera di sistematica denuncia delle aziende in questione, se queste non mettono in regola i lavoratori immigrati. Nel frattempo si avvia una trattativa con il Comune
per soluzioni abitative che continuano a presentarsi come il vero e proprio problema. Anche perché vivere nel mercato diventa ogni giorno più insostenibile.
Così il 16 ottobre 2002 si decide di occupare il Ferrhotel di via Casarini 23, di proprietà di Trenitalia e da anni abbandonato: nasce lo Scalo Internazionale Migranti.
Il collettivo di autogestione racconta:
è innanzitutto il tentativo difficile e non lineare, di dare vita ad un’esperienza comune di occupazione ed autogestione, che in primo luogo dia una risposta ai bisogni materiali di decine di migranti, e che, su questa base, intraprenda percorsi di emancipazione individuale e collettiva [47].
La denuncia non va solo alla Bossi-Fini ma anche al governo locale:
le cosiddette istituzioni cittadine, nonostante i numerosi incontri, le manifestazioni, i presidi, le interruzioni dei Consigli Comunali, sono rimaste in questi mesi latitanti, rendendosi a loro modo clandestine, se per clandestinità intendiamo la totale assenza di un progetto, di un’idea o della semplice volontà di dare soluzione dignitosa a questa situazione [48].
Inizia una difficile convivenza che vede ben presto i cittadini del quartiere lanciare un ultimatum: «chiediamo lo sgombero immediato dell’edificio e un urgente sopralluogo da parte della polizia municipale e vigili del fuoco» [49]; «Facciamo come i No Global, che questa gente la protegge: forse hanno ragione loro, l’unico modo per ottenere risultati è scendere in piazza» [50]. Ma ci tengono a precisare
non siamo razzisti. La sera non possiamo uscire. Abbiamo dovuto blindare porte e finestre, perché ce li troviamo in casa. Le donne si fanno il bidè alla fontana di via De’ Crescenzi. Le stesse che poi mandano i bambini a rubare. E la polizia là dentro, neppure si azzarda ad entrare, a malapena ci passa davanti [51].
Intanto all’interno del Ferrhotel, dove gli abitanti continuano ad aumentare, si cerca di inventarsi qualcosa:
Lo Scalo Internazionale Migranti è soprattutto una importantissima esperienza politica: qui, non stante mille difficoltà dovute alle differenze ed anche ai problemi quotidiani di autogestione, italiani e migranti stanno costruendo assieme un progetto ed una lotta reale [52].
Le attività sono realizzate attraverso l’esperienza del Cantiere, «cioè un luogo volutamente accessibile ai migranti anche non residenti nello Scalo, in grado di fornire una risposta concreta ai
bisogni di questi cittadini, soprattutto dal punto di vista medico e legale» [53]. Se queste iniziative rappresentano una conquista e una concreta azione di
miglioramento della vita di alcuni immigrati, un fallimento totale risulta invece l’integrazione e la comunicazione con i cittadini. Mentre i cittadini continuano a sporgere denunce [54], la «patata bollente» del Ferrhotel, discussa in giunta comunale non sembra trovare soluzione. Mille dissidi tra schieramenti, e il problema di fondo rimane lo
stesso: la casa.
Nonostante ciò, la vicesindaco Adriana Scaramuzzino si dimostra ottimista: annuncia soluzioni abitative per i regolari del Ferrhotel che in tempi brevissimi verrà sgomberato per risistemare la
struttura e farci poi rientrare gli aventi diritto.
Era il 30 luglio 2004. Lo sgombero sarebbe avvenuto il 10 marzo 2005 [55]. Nel rovente periodo intercorso, nessuna soluzione abitativa è stata trovata per i
rumeni del Ferrhotel, che da via Casarini il 10 marzo 2006 sono stati spostati ad altra struttura – l’ex clinica Villa Salus - dall’altro lato della città, nel quartiere Savena.
Sembra siano previste 170-180 persone al massimo. Ci sarà una portineria sociale con tre operatori da 15,25 euro l’ora a testa. Non solo: anche una vigilanza da 23 euro all’ora più iva. Divieto di sosta sulla strada e vigili urbani che lo faranno rispettare fino alle rimozioni… [56]
La settimana precedente lo sgombero, Scaramuzzino annuncia che è l’unica strada possibile ed accusa la mancata collaborazione dei comuni dell’hinterland, al 90% di centrosinistra. I toni sono
sempre quelli dell’emergenza come ribadiscono le parole del sindaco Sergio Cofferati: «Serve una soluzione molto rapida e di emergenza perché la situazione di degrado in via Casarini è peggiorata
ancora nelle ultime settimane» [57]. Aggiunge, inoltre, che le proteste dei cittadini sono state avanzate «con toni fuori luogo e spropositati» e per
acquietare le proteste dei residenti del quartiere Savena [58] conferma che Villa Salus sarà una soluzione temporanea.
Villa Salus è ancora lì. Il Ferrhotel si è solo spostato, in attesa che una nuova emergenza lo muova verso un’altra destinazione temporanea.
Note
[1] Z. Bauman, Fiducia e paura nelle città, Bologna, il Mulino, 2005, 23.
[2] A. Colombo, G. Sciortino, Gli immigrati in Italia. Assimilati od esclusi:gli immigrati, gli italiani, le politiche, Bologna, il Mulino, 2004, 52.
[3] Ibid., 52.
[4] Cfr. L. Turco, I nuovi italiani. L’immigrazione, i pregiudizi, la convivenza, Milano, Mondadori, 2005.
[5] Dati: Dossier Statistico Caritas/Migrantes 2005, Roma, Idos, 2005.
[6] A. Colombo, G. Sciortino, Gli immigrati in Italia cit., 48.
[7] L. Melica, Lo straniero extracomunitario. Valori costituzionali e identità culturale, Torino, Giappichelli, 1996, 127.
[8] M. Bigotto, V. Martino, Se la notizia è clandestina. Il Monitor su informazione e immigrazione, in: M.Bigotto, V. Martino (eds.), Fuori luogo. L’immigrazione e i media italiani, Roma, Luigi Pellegrini, 2004, 13.
[9] Censis, Azione di sistema per lo studio dell’immigrazione nel Mezzogiorno, Noi e gli altri: il comune senso dell’immigrazione, Roma, 2004.
[10] M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Bologna, il Mulino, 2005, 139.
[11] A. Patroni Griffi, I diritti dello straniero tra Costituzione e politiche regionali, in: L. Chieffi (ed.), Diritti sociali tra regionalismo e prospettive federali, Padova, Cedam, 1999, 350-51.
[12] G. Zincone, Uno schermo contro il razzismo, Roma, Donzelli, 1994, 23.
[13] T. Caponio, Governo locale e immigrazione in Italia tra servizi di welfare e politiche di sviluppo, in: Le istituzioni del federalismo,
5 (2004), 826:
www.regione.emilia
-romagna.it/affari
ist/federalismo/
num5_04.htm.
[14] Ibid., 804.
[15] Cfr. A. Colombo, G. Sciortino, Gli immigrati in Italia cit., 61-74.
[16] A. De Bonis, M. Ferrero, Dalla cittadinanza etno-nazionale alla cittadinanza di residenza, «Diritto Immigrazione e cittadinanza», 2 (2004), 54-55.
[17] G. Zincone, Secondo rapporto sull’immigrazione in Italia, Bologna, il Mulino, 2001.
[18] W. Passerini, La porta stretta delle quote:alle imprese serve il doppio, «Il sole 24 ore», 4 novembre 2005; Puntare sulle competenze, «Il sole 24 ore», 4 novembre 2005; L. Grion, Gli industriali chiedono più immigrati. “Il sistema delle quote non funziona”, «La Repubblica», 10 marzo 2005; M. Deaglio, Servono più immigrati. Non tagliare il ramo che ci sostiene, «La Stampa», 23 maggio 2001.
[19] L. Melica, Immigrazioni e imprese tra diritti e sicurezza. Alcuni spunti propositivi, marzo 2005, 11:
www.alef.fvg.it/
immigrazione/temi
/imprendo/
melica2005.pdf.
[20] Ibidem.
[21] Ibid., 10-11.
[22] P. Morozzo della Rocca, Il diritto all’unità familiare in Europa tra “allargamento” dei confini e “restringimento” dei diritti, «Diritto Immigrazione e cittadinanza», 4 (2004).
[23] Arti. 13 del regolamento attuativo.
[24] L. Melica, Immigrazioni e imprese cit., 12-13.
[25] S. Sassen, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa, Milano, Feltrinelli, 1996, 119-23.
[26] M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea, Roma-Bari, Laterza, 2005, 167-69.
[27] G. Licastro, Dalla cooperazione intergovernativa al Trattato-Costituzione. L’evoluzione della politica comunitaria in materia di immigrazione,
3:
www.poliziadistato
.it/chisiamo/
territorio/reparti
/immigrazione/
archivio_forum.htm.
[28]Ibid., 4-5.
[29] M. Gilbert, Storia politica dell’integrazione europea cit., 182.
[30] Ibid., 191.
[31] B. Nascimbene, Cittadini comunitari e cittadini dei Paesi terzi dopo il Trattato di Amsterdam, in: A. Del Vecchio (ed.), La cittadinanza europea, Atti del convegno organizzato dall’Osservatorio sulle Istituzioni Internazionali e Comunitarie della LUISS (Roma, 26 marzo 1998), Milano, 1997, 57.
[32] E. Rigo, Problemi posti al recepimento dell’acquis communitaire in materia di immigrazione, asilo e soggiorno nei paesi candidati all’ingresso nella
UE, Relazione presentata al seminario di ricerca organizzato dal Centro interdipendente di ricerca sui diritti umani, Università Cà Foscari, I diritti umani come sfida allo spazio di libertà
sicurezza e giustizia (Venezia, 23 gennaio 2004), 4:
http://venus.
unive.it/cde/
040123RigoVE.pdf.
[33] N. Klein, Fortress continent, «The Guardian», 16 gennaio 2003, 23.
[34] E. Aja, L. Diaz, La normativa sull’immigrazione negli Stati e nella comunità europea, in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», 1 (2005), 29.
[35] Ibid., 30.
[36] Z. Bauman, Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza, 72.
[37] Z. Bauman, Fiducia e paura nelle città cit., 3.
[38] E. Naldi, Addio con le ruspe al villaggio rumeno, «Il resto del Carlino Bologna», 20 settembre 2002.
[39] La baraccopoli lungo il Reno. E altri dieci clandestini sono stati muniti di decreto di espulsione. Già a Bucarest trenta rumeni, «Il resto del Carlino Bologna», 21 settembre 2002.
[40] Ibidem.
[41] R. Bartolomei, Navile/Famiglie clandestine in otto piccoli “igloo”. E nel parco delle Caserme Rosse spunta un’altra tendopoli rumena, «Il resto del Carlino Bologna», 3 ottobre 2002.
[42] M. Bonvenzi, La baraccopoli. Vivono tra i rifiuti sotto il Pontelungo, in «Il resto del Carlino Bologna», 27 settembre 2002.
[43] M. Alvisi, Borgo Panigale. “È qui il crocevia del lavoro nero”, «Il resto del Carlino Bologna», 27 settembre 2002.
[44] IL quartiere. Il presidente del Navile, Mozzanti, chiede maggior severità. “Fuori tutti gli abusivi”, «Il resto del Carlino Bologna», 6 aprile 2004.
[45] M. Bonvenzi, Sgombero. Blitz di polizia, vigili urbani ed Hera. Repulisti al campo Rom. In azione le ruspe: via rottami e carcasse, «Il resto del Carlino Bologna», 6 aprile 2004.
[46] B. Marsiglia, Superlavoro per polizia e carabinieri con la «Bossi-Fini». E contro gli irregolari espulsioni a raffica, «Il resto del Carlino Bologna», 27 settembre 2002.
[47] Assemblea dello Scalo internazionale migranti, A proposito dello Scalo Internazionale Migranti..., Bologna, luglio 2003:
www.meltingpot.
org/articolo939.html .
[48] Ibidem.
[49] L. Privato, Quartiere Porto. Residenti infuriati. “Via il Ferrhotel o sarà rivolta. Qui non si vive più”, «Il resto del Carlino Bologna», 23 luglio 2004.
[50] Ibidem.
[51] Ibidem.
[52] Assemblea autogestita dello Scalo internazionale migranti, A proposito dello Scalo Internazionale Migranti... cit.
[53] Ibidem.
[54] L. Privato, Porta Lame. Con una nuova denuncia si alzano i toni della polemica dei residenti contro i nomadi. «Mureremo il Ferrhotel”. Il portavoce del comitato: “Regolari o no, devono andarsene tutti”, «Il resto del Carlino Bologna», 27 luglio 2004.
[55] R. Bartolomei, Ferrhotel. Sistemazione possibile fuori città. Il vicesindaco annuncia la ristrutturazione dello stabile. “Cerchiamo nuovi alloggi”, «Il resto del Carlino Bologna», 30 luglio 2004.
[56] R. Bartolomei, Comune. Attacchi da destra, perplessità a sinistra: il trasloco dei rom è un caso politico. Villa Salus è scontro, «Il resto del Carlino Bologna», 22 febbraio 2005.
[57] L. Orsi, Villa Salus. Il sindaco Cofferati. “La tradizione di accoglienza sarà mantenuta”, «Il resto del Carlino Bologna», 2 marzo 2005.
[58] Protesta al Savena. «Non vogliamo i rumeni a Villa Salus», «Il resto del Carlino Bologna», 1 marzo 2005.