Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Immigrazione e legislazione in Germania Ovest. Il caso turco (1961-75)

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1. Immigrazione e struttura sociale tedesca

Dopo la seconda guerra mondiale, la Germania occidentale ha conosciuto un notevole sviluppo economico, favorito da un lato dagli aiuti del piano Marshall, e dall’altro dall’afflusso di immigrati dalle aree meno sviluppate dell’Europa e del Mediterraneo. In seguito alla catastrofe bellica, la ripresa industriale tedesca si è trovata di fronte al problema della carenza di manodopera sia nel settore agricolo, sia, e in modo più decisivo, nei settori industriale, minerario ed edilizio. Per ovviare a tale carenza, passibile di bloccare e vanificare tutti gli sforzi fatti nella ricostruzione materiale e strutturale della Germania ovest e della sua società, i governi tedeschi in accordo con la Dgb (Confederazione dei sindacati tedeschi) aprono le porte del loro paese e delle loro industrie agli immigrati stranieri.

I primi flussi di immigrati, testimonianza della continuità storica delle regioni occidentali della Germania come aree di immigrazione, provengono dalle regioni orientali dell’ex terzo Reich e dai profughi della neonata Repubblica democratica tedesca (Rdt). Il fenomeno, che comincia subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e continua fino all’agosto del 1961, riversa nella Repubblica federale tedesca (Rft) un numero notevole di lavoratori agricoli ma anche molti operai specializzati o semi-specializzati. Una manodopera che è immediatamente assorbita nei programmi di ricostruzione e nelle industrie renane e bavaresi, divenendo il nucleo delle nuove risorse operaie e il primo banco di prova per le politiche di immigrazione sviluppate dal governo federale. Già questo primo flusso di “immigrati” pone infatti il governo federale di fronte a problemi sociali del tutto nuovi, da quello degli alloggi a quello dell’integrazione. Durante gli anni ’50, l’economia e lo sviluppo industriale tedeschi continuano la loro ascesa obbligando gli imprenditori a reclutare sempre nuova manodopera. Tuttavia, vista la situazione demografica deficitaria, il pressoché totale assorbimento dei profughi della Ddr, nonché l’aumento della popolazione non-attiva, causato dall’uscita dal mercato del lavoro di donne, anziani e ragazzi, il governo è costretto a reclutare le nuove risorse operaie fuori dalla Germania. I primi a cogliere questa possibilità sono stati i lavoratori italiani, i quali, grazie all’accordo bilaterale siglato nel 1955, hanno aperto la strada all’immigrazione in Germania ovest.

Negli anni successivi, il governo tedesco ha provveduto a siglare numerosi accordi simili con tutti i paesi del Mediterraneo, e in modo particolare con la Turchia nel 1961. L’arrivo di manodopera turca - inizialmente specializzata, in seguito non qualificata e poco istruita - è diretto prevalentemente verso le fiorenti regioni industriali dell’area renana e meridionale della Germania, dove provoca importanti sconvolgimenti. La maggior parte degli immigrati turchi, infatti, proviene da un’estrazione economico-sociale di tipo agricolo e ha scarsa familiarità con il mondo e le dinamiche del lavoro di fabbrica: un aspetto che ha portato a notevoli problemi sociali, aggravati dall’insufficiente conoscenza della lingua e dei sistemi e modi di vita della società tedesca. L’adattamento a nuovi stili di vita e a nuove regole sociali, di fatto, è il primo problema con cui si confrontano i nuovi arrivati. Un’incognita che rende difficile l’integrazione e la sopravvivenza dei lavoratori stranieri. «Gli immigrati», in effetti, «non devono adattarsi a norme e costumi universalmente accettati: piuttosto si assegna loro un posto nell’ordine sociale della non-eguaglianza. I loro rapporti non sono con l’insieme della società che li ospita, ma con specifici gruppi sociali all’interno di essa»[1]. Per questo motivo, «la divisione della classe operaia nel processo produttivo si riproduce nella sfera sociale»[2]: i lavoratori ottengono lavori e una condizione sociale del più basso livello. Tuttavia, anche la società tedesca subisce decise modificazioni a contatto con l’enorme massa di immigrati che progressivamente arrivano in Germania.
Mentre per gli immigrati si assiste a uno sviluppo sociale univoco, che li relega ai gradi più bassi della società, per i tedeschi si prospettano due dinamiche. Innanzitutto, si assiste a un’ascesa sociale dei lavoratori tedeschi, i quali, grazie alle maggiori qualifiche e ai corsi di specializzazione e formazione, riescono a migliorare la loro posizione, evitando a larghe fasce di popolazione una marcata proletarizzazione. In secondo luogo, la società tedesca occidentale si evolve progressivamente verso una struttura multietnica, multiculturale e pluri-religiosa. Evoluzione che comincerà a porre i suoi primi problemi a partire dagli anni ’70 e ’80, quando il numero degli immigrati aumenta vertiginosamente, è sovvertito il principio della “rotazione” per i migranti e molti di loro decidono di stabilirsi definitivamente in Germania assieme alle loro famiglie. In questo torno di tempo la società tedesca subisce mutamenti determinanti ed è costretta a interrogarsi sul ruolo che le nuove risorse di forza lavoro devono ricoprire.

2. Immigrazione permanente e temporanea

Vista la rapidità dell’immigrazione turca verso la Rft (fig. 1), l’analisi del caso permette di osservare più chiaramente l’evoluzione da una dinamica migratoria temporanea e individuale a una dinamica familiare e permanente. Quando si parla di immigrazione, infatti, si deve distinguere tra un’immigrazione individuale, maggiormente dipendente dalle necessità del mercato del lavoro, degli industriali e dei bisogni dell’immigrato, e una familiare, connessa a diversi stimoli sociali ed economici, nonché ai mutamenti culturali e dello stile di vita degli immigrati. La durata del soggiorno all’estero, come ricordano Castle e Kosack, è di fondamentale importanza, poiché da essa dipendono il grado di istruzione, il tipo di occupazione e soprattutto i problemi legati all’alloggio e ai servizi sociali[3]. L’importanza di questa constatazione, tuttavia, si situa su di un piano eminentemente sociale e culturale, poiché la permanenza o la temporaneità del soggiorno dei Gastarbeiter muta notevolmente le prospettive e gli approcci, nonché le problematiche, che la società di accoglienza deve adottare per rapportarsi con gli stranieri. In questo frangente la società tedesca si è confrontata con due diverse prospettive riguardo agli immigrati.

Nel periodo dal 1961 al 1975 la società, il governo e gli industriali tedeschi sono convinti di poter controllare l’afflusso degli immigrati senza problemi, in quanto giustificano il reclutamento delle nuove risorse di manodopera come una stringente necessità economico-industriale e sociale. La cifra di questa teoria è la convinzione che l’immigrazione sia solo un fattore temporaneo e congiunturale. Per questo motivo, gli organi dirigenti della Rft considerano l’immigrato, semplicemente, come uno strumento efficace per implementare il mercato del lavoro tedesco, per aumentare i profitti e il Pil e per garantire una stabilità sociale alla popolazione tedesca evitando la fine precoce del boom economico. Nondimeno, questa visione, che rende l’immigrato una sorta di oggetto usa e getta, è presto sovvertita dalla realtà. L’immigrazione, proprio perché fatta da uomini, pone problemi ben diversi e ben più grandi di quelli prospettati inizialmente dagli imprenditori, dai sindacati e dai governi tedeschi. L’afflusso annuale di migliaia di persone provoca degli scompensi notevoli a livello sociale e in modo particolare nelle grandi città industriali. In esse, infatti, si assiste a un progressivo concentramento nei quartieri operai e del centro (o nelle zone a esso limitrofe) di masse cospicue di manodopera straniera[4], le quali formano, più o meno volontariamente, dei veri e propri ghetti. Una segregazione sociale che si affianca a quella lavorativa, in quanto gli immigrati, indipendentemente dalla loro istruzione o specializzazione, sono relegati esclusivamente nei settori e ai livelli più bassi della scala lavorativa, in occupazioni disagevoli, faticose e malsane. Ovvero, in tutti quei settori rimasti scoperti dall’avanzamento gerarchico degli operai tedeschi. Questa forma di ghettizzazione, che si manifesta inizialmente con il problema delle case e degli affitti, si estende a tutti gli aspetti del rapporto tra gli operai turchi e la società tedesca: di fatto, il lavoratore turco, che non ha alle spalle una lunga tradizione da emigrante e non conosce nulla del paese ospitante, a cominciare dalla lingua e dagli usi e costumi culturali e religiosi, si sente rifiutato da una società che lo guarda con disprezzo. Inoltre, anche lo stato federale, che pur negli accordi ha offerto eguali diritti e salari pari a quelli tedeschi, aggrava questa situazione imponendo all’immigrato severe regole di condotta, pena il rimpatrio e la perdita del lavoro.
Tale condizione da un lato favorisce il controllo degli immigrati e stimola la “rotazione naturale” degli stranieri, dall’altro pone le basi per le successive problematiche relative all’integrazione. Dal 1975 a oggi, infatti, il governo federale si è scontrato contro problemi sempre crescenti legati all’assimilazione/integrazione degli immigrati che da temporanei sono divenuti permanenti. Questi problemi, acuiti a partire dagli anni ’80 dall’insorgere di spinte razziste e xenofobe, si sono concentrati essenzialmente attorno al gruppo turco, che è divenuto fin dal 1970 quello più consistente. Tuttavia, il governo tedesco non ha dovuto affrontare soltanto problemi contingenti ma anche numerose questioni create dalla sua stessa politica sull’immigrazione, la quale si è dimostrata fino alla legge del 2005 molto deficitaria e rispondente esclusivamente a necessità momentanee.

3. Caratteri dell’immigrazione turca e conflitti socio-sindacali in Rft

Il fenomeno migratorio turco va analizzato diversamente rispetto a tutti gli altri esempi mediterranei. Inizialmente, va considerato il passaggio intermedio provocato dalla massiccia emigrazione dalle campagne orientali dell’Anatolia verso le grandi città del centro (Ankara, Eskişehir e Konia), della costa Egea (Smirne, Akhisar e Balıkesir) e verso Istanbul. Questo fenomeno è importante in quanto stimola due dinamiche decisive per il futuro degli immigrati turchi. Innanzitutto, spinge alla formazione di famiglie mono-nucleari, che in Turchia sono la maggioranza già negli anni ’60[5]; in secondo luogo, questa emigrazione dai centri rurali alle grandi città diventa una sorta di training alla vita in grandi centri urbani quali quelli tedeschi e, per alcuni, al lavoro di fabbrica, visto che nelle vicinanze di queste città si pongono le basi della struttura industriale turca.
I fattori determinanti che hanno spinto i lavoratori turchi a migrare sono essenzialmente la grande richiesta di manodopera della Germania e la notevole pressione demografica, unita alla crescita della disoccupazione, in Turchia. A essi va aggiunto un fattore di carattere politico. Infatti, «from the point of view of foreign policy it has been stressed that in order to strengthen the southern flank of the North Atlantic alliance the foreign labour market should be enlarged to the detriment of the Italians», cosicché «the West Germany’s presence would decrease growing anti-American feelings in Turkey»[6]. Su queste basi, tra il 1961 e il 1973, le agenzie del lavoro turche, associate al Bundesanstalt fur Arbeit (Bfa) inviano in Europa più di 790.000 lavoratori di cui l’80,2% in Germania ovest (il picco sarà raggiunto nel 1971 con l’84,3%). Questo flusso di manodopera non è monolitico e subisce notevoli variazioni a causa dei mutamenti dei mercati del lavoro turco e tedesco. In un primo tempo, infatti, il fenomeno migratorio è caratterizzato dalla prevalenza di uomini giovani e qualificati o semi-qualificati (soprattutto per aver lavorato nelle industrie delle regioni occidentali dell’Anatolia). Successivamente, invece, in concomitanza con la recessione del 1966, che pone fine alla prima fase dell’emigrazione turca, questa tendenza muta a favore di un maggior flusso di manodopera femminile. In questi anni, sia per l’alto tasso di licenziamenti e disoccupazione dei lavoratori turchi, sia per il conseguente aumento dei tempi di attesa per ottenere un impiego in Germania, sia, infine, per la grande ondata di rientri e rimpatri in Turchia, il governo e i lavoratori turchi favoriscono l’emigrazione delle donne, il cui tasso aumenta dall’8% al 24,4%. Un fenomeno stimolato anche dalla crescente necessità del mercato tedesco di manodopera femminile da impiegare in settori emergenti quali le attività elettroniche e alimentari, oltre che in settori come il tessile sempre alla ricerca di operai a basso costo.

A questo mutamento se ne somma un altro ancor più sostanziale per la società turca e strettamente connesso all’evoluzione del mercato del lavoro tedesco. A partire dagli anni ’60, ma soprattutto durante gli anni ’70-’80, con la progressiva modificazione e sviluppo dell’industria tedesca verso sistemi di lavoro e produzione standardizzati e automatizzati, aumenta il numero dei lavoratori non-qualificati (unskilled) reclutato dalle imprese tedesche. La richiesta sempre più massiccia di operai non qualificati stimola enormemente il flusso di manodopera turca verso la Germania federale, visto l’alto tasso di disoccupazione presente in Turchia, ma al tempo stesso abbassa ulteriormente i livelli di sostenibilità del lavoro per gli immigrati nella Rft. Questa nuova ondata migratoria, fra l’altro, non allenta la pressione della disoccupazione turca, in quanto l’aumento demografico vertiginoso e la conseguente migrazione verso i grandi centri occidentali non diminuiscono in proporzione, vanificando la valvola di sfogo rappresentata dall’emigrazione. Inoltre, nonostante il numero crescente di migranti non qualificati e i provvedimenti governativi in materia, la Turchia dovrà costantemente sopperire al brain drain di personale qualificato e semi-qualificato, difficilmente rimpiazzabile, che abbandona il paese per trovare fortuna e sicurezza nella fiorente economia tedesca.
Per quanto riguarda la tutela, gli immigrati turchi in Rft sono protetti, almeno sulla carta, dalle norme comprese nei Bilateral Agreement (1961-64), dalla normativa della Cee e dalle leggi tedesche, le quali si basano sul “principio di assoluta eguaglianza di trattamento”, ovvero sulla clausola: “eguale salario per eguale lavoro”. Tuttavia, la condizione di equità salariale non sarà mai rispettata poiché nei settori in cui sono impiegati i lavoratori turchi la manodopera tedesca è pressoché assente. Questo indubbio vantaggio per gli imprenditori si somma a due tipologie di problematiche che relegano gli immigrati turchi al livello più basso della scala operaia e sociale. Infatti, analizzando la situazione della manodopera turca si può osservare, da un lato, una conoscenza nulla o quasi delle leggi di welfare della Rft e, soprattutto, delle norme di sicurezza sul lavoro, condizione che abbassa decisamente il livello di attenzione e prudenza, permettendo ai datori di lavoro di utilizzare i lavoratori turchi in occupazioni usuranti, degradanti, “sporche”, malsane e poco sicure. Dall’altro lato, il vantaggio degli imprenditori si accentua se si prende in considerazione l’altra problematica fondamentale relativa alla sicurezza sociale e lavorativa degli immigrati, ovvero le leggi sulla territorialità e gli Aliens acts.

Il principio della territorialità prevede l’estensione dei diritti legali a tutti i cittadini e agli stranieri residenti in un territorio statale riconosciuto. Questo, però, rimane solo un assunto teorico. Gli immigrati, infatti, 1) non ottengono l’assistenza sanitaria, l’assicurazione anti-infortunistica e il sussidio di disoccupazione perché non-residenti nel territorio della Rft; 2) hanno numerose difficoltà nella riscossione delle pensioni maturate all’estero, poiché mentre in Turchia l’età pensionabile è a 55 anni, in Germania è a 63-67 anni; 3) godono di un limitato sostegno per la cura dei figli, soprattutto quelli rimasti in Turchia, vista l’esiguità degli aiuti forniti dal welfare state a questo riguardo. I problemi d’integrazione non dipendono esclusivamente dai limiti del principio di territorialità, ma traggono origine anche dagli Aliens acts: uno strumento utilizzato dal governo per controllare e indirizzare i flussi di manodopera, attraverso la concessione e la revoca arbitrarie dei permessi di lavoro e soggiorno. Infatti, «the criteria inherent in the law permit, the issue or denial of the prolongation of permit of residence [are] according to “personal, political, and economic factors, as well as the interest of labour market”»[7]. Questa arbitrarietà finisce così per impedire sia la mobilità occupazionale sia quella personale, aumentando il potere di coercizione dei datori di lavoro e il livello di segregazione degli immigrati, costretti a rimanere per tutta la durata del soggiorno all’estero nei distretti in cui sono emessi i due permessi.

Se le politiche messe in atto dalla Rft non tutelano abbastanza gli immigrati turchi, ancor meno lo fanno le politiche comunitarie della Cee. A partire dal 1957, infatti, la Comunità europea stabilisce la libera circolazione dei cittadini degli stati membri, anche per motivi di lavoro. Tuttavia, questa legislazione, seguita dal regolamento 1612/68 del 1968 e poi dall’accordo di Shengen del 1985, pesa principalmente sugli immigrati extraeuropei, i quali in assenza di un vero e proprio mercato del lavoro europeo si vedono negare tutti i diritti sociali e civili, compreso quello di mobilità. Le disposizioni della Cee, infatti, contribuiscono ad aumentare le politiche di organizzazione e controllo dei flussi migratori, impedendo contemporaneamente le migrazioni interne.
Inoltre, a partire dagli anni ’70, quando le crisi bloccano e rallentano l’afflusso dei migranti turchi, questi fattori favoriscono l’immigrazione clandestina e il racket a essa collegato. Uno sviluppo che produrrà gravi conseguenze. Infatti i clandestini non godono di alcun diritto, nemmeno quelli formali garantiti ai loro connazionali immigrati legalmente, e incoraggiano inconsapevolmente lo sfruttamento di tutta la manodopera immigrata provocando un malumore diffuso tra gli operai tedeschi. La necessità di lavorare e l’assenza di diritti sono la causa del loro sfruttamento che comporta un monte ore lavorative maggiore, con minore sicurezza e salari bassissimi, i quali vanno a influenzare anche i salari della manodopera tedesca, che si trova in competizione con questa nuova forza lavoro e vede abbassarsi il suo status economico-sociale. Questa situazione provoca numerose divisioni tra i lavoratori e anche tra i sindacati, che non riescono a ottenere la fiducia della maggioranza degli operai immigrati. La classe operaia tende a suddividersi secondo logiche nazionaliste fornendo così ai datori di lavoro maggior potere contrattuale e favorendo, di conseguenza, lo sfruttamento di tutta la categoria, ma in modo particolare dei livelli più bassi, ovvero degli immigrati. Nondimeno, una parte dei sindacati, non potendo arrestare il flusso migratorio, tenta di tutelare la manodopera immigrata, attraverso consultori, uffici legali, aiuti salariali e offerte abitative.

Note

[1] S. Castle, G. Kosack, Immigrazione e struttura di classe in Europa Occidentale, Milano, Franco Angeli, 1976, 16.

[2] Ibid., 17.

[3] Ibid., 56-58.

[4] Cfr. J. O’Loughlin, Distribution and Migration of Foreigners in German Cities, «Geographical Review», 70/3 (1980), 253-275.

[5] A questo proposito cfr. M.B. Kıray, The family of the Immigrant worker, in N. Abadan-Unat (ed.), Turkish workers in Europe 1960-1975, a socio-economic reappraisal, Leiden, Brill, 1976, 210-234.

[6] N. Abadan-Unat, Turkish migration to Europe, 1960-1975: a balance sheet of achievements and failures, in Abadan-Unat (ed.), Turkish workers in Europe, cit., 6.

[7] Ibid., 35.