Nel corso della prima epoca moderna la procedura prevista per lo svolgimento dell’esame di laurea in legge presso lo Studio di Bologna cominciò a subire variazioni significative. Mentre la
normativa di epoca medievale non mutò in maniera sostanziale, l’analisi dei verbali, redatti per tenere memoria del conferimento dei gradi accademici, ha rilevato invece l’affermazione progressiva
di profondi cambiamenti nella pratica. Le numerose deroghe al dettato statutario, concesse dalle commissioni esaminatrici, rappresentano una testimonianza a sostegno di tale tesi, così come
altrettanto determinante è risultato l’esame delle conclusioni pubbliche a stampa che ha permesso di collocare questi documenti all’interno di un preciso iter procedurale adottato dai membri dei
Collegi legali a partire dalla seconda metà del Cinquecento.
L’arcidiacono Antonio Felice Marsigli, cancelliere dello Studio bolognese nel corso degli ultimi decenni del XVII secolo, all’interno della Memoria[1] in cui poneva sotto accusa i pregiudizi dell’Alma Mater, responsabili di aver allontanato l’istituzione dai fasti e dalle glorie di cui si era resa
protagonista nell’epoca medievale, si scagliava contro il Collegio dei Dottori, i lettori e perfino gli scolari, ritenendoli responsabili del degrado di cui stava soffrendo l’Università di Bologna
in epoca moderna a seguito dell’abbandono degli antichi costumi. In particolare, passando in rassegna la serie di pratiche che avevano perso progressivamente il loro valore originario, Marsigli
dedica un paragrafo all’esame di laurea sostenendo come:
«... non pochi sono gli abusi, perche in ora trascurandosi, o con troppa facilità dispensandosi l’uso delle rigorose Costituzioni, si ammettono al dottorato i giovani coll’ommissioni particolarmente delle due importantissime condizioni, che siano preceduti cinque anni di studio in que’ gradi in cui si addottorano e che si sia tenuta la publica conclusione su le Scuole che era il cimento ed il saggio del candidato oltre il facilitarsi molte altre rilevanti particolarità»[2].
Appellandosi alle rigorose Costituzioni rispettate sin dal XIV secolo, il prelato, all’interno della sua opera, accusava i membri facenti parte i Collegi dottorali di aver prodotto uno scadimento del livello degli studi, attraverso la concessione ai candidati all’esame di laurea di numerose deroghe al rigido dettato statutario, allo scopo di aumentare i conferimenti di gradi accademici e, conseguentemente, i profitti appannaggio dei membri delle commissioni esaminatrici.
In realtà lo scollamento tra norma e prassi, denunciato in maniera energica da Marsigli a fine Seicento, affondava le proprie radici nei secoli precedenti, poiché già tra la fine del Quattrocento e lungo l’intero XVI secolo si può identificare, attraverso l’analisi dei verbali di laurea, una svolta nel procedimento che regolava l’acquisizione del titolo dottorale all’interno dello Studio bolognese.
Si tratta di un mutamento che, dall’analisi degli Statuti che regolavano l’attività della Universitas scholarium e dei Collegi dottorali, non emerge in maniera così visibile rispetto a come appare dall’esame della prassi riscontrabile nei Libri segreti, tenuti dai priori dei Collegi, e degli Atti dei Collegi dottorali, redatti dai notai, ove sono conservati i verbali dell’esame che ogni aspirante al dottorato doveva sostenere.
In particolare la presente riflessione sarà condotta sulla procedura messa in atto per quanti aspiravano ad acquisire i gradi accademici in diritto canonico e in civile[3], confrontandola con la norma prevista a tale riguardo.
Le norme prescritte dagli Statuti
All’interno delle diverse redazioni statutarie pervenuteci il tema relativo alla didattica da svolgersi nell’ambito dello Studio bolognese viene costantemente riproposto al fine di dettare regole sia nei confronti degli studenti, sia dei docenti attivi presso l’Alma Mater. Gli Statuti dei Collegi dottorali[4] descrivono il percorso formativo che doveva essere compiuto dagli studenti per poter accedere all’esame di laurea: per il dottorato in diritto canonico era necessario aver studiato leggi civili e canoniche per cinque anni, ridotti a tre se il candidato aveva ottenuto una precedente approvazione presso un altro Studio generale o aveva già sostenuto l’esame privato. Se l’esaminando era bolognese doveva aver letto i Decreti, o le Decretali, o il Libro Sesto e le Clementine per un arco di sei mesi, ma su questo punto venivano ottenute facilmente dispense. Per il diritto civile erano invece prescritti otto anni di studio con l’obbligo di aver sostenuto almeno una disputa. Anche in questo caso erano concesse deroghe alla regola arrivando ad accorciare, talvolta in maniera considerevole, il periodo di studi.
Oltre a frequentare le lezioni, gli studenti erano tenuti a discutere dispute o repetitiones giuridiche propedeutiche all’attività che sarebbero stati chiamati a svolgere all’interno dei tribunali. Riservate in particolare agli scolari forestieri in procinto di terminare il percorso di studi[5], tali dispute erano state infatti istituite per permettere ai giovani di esercitarsi nella prospettiva della discussione dei puncta, affrontata all’interno dell’esame finale, e offrivano la possibilità di far guadagnare agli scolari che le sostenevano, scelti a discrezione del Rettore, una lectura universitatis permettendo loro di ‘far fronte alle spese, non certo leggere, della conventazione ossia della laurea’: l’unica condizione indispensabile richiesta per poter accedere a quest’ultimo privilegio era il possesso dell’età superiore ai venti anni. I giovani in condizioni economiche non agiate, che decidevano di concorrere all’assegnazione di queste letture, sceglievano di argomentare una serie di tesi tratte dai principali testi giuridici su cui avevano compiuto fino a quel momento gli studi. Le dispute venivano discusse in un giorno festivo, lontano dagli orari destinati agli insegnamenti ufficiali, alla presenza di maestri e compagni di studio. Per dare massima pubblicità all’evento, gli studenti erano invitati a far stampare queste tesi per inviarle ai propri docenti e per distribuirle ai presenti nel giorno della discussione di esse. Gli Statuti prevedevano, per il corso di studi legali, che quattro letture su sei fossero riservate agli ultramontani[6], assegnandone quindi una piccola porzione anche agli studenti di origine bolognese. Generalmente le dispute rappresentavano per i giovani designati a discuterle un’occasione per mettere in evidenza le loro abilità e per richiamare con una dedica la benevolenza di qualche potente protettore: una sorta di investimento compiuto nella prospettiva di favorire il proprio destino professionale.
A titolo di esempio si riporta il caso significativo di cui si rese protagonista, a metà del Cinquecento, Gabriele Paleotti il quale, all’età di ventun anni, sostenne una disputa giuridica nella basilica di San Petronio dedicandola al cardinale Alessandro Farnese, nipote di papa Paolo III. I testimoni[7] raccontano come l’evento fosse stato seguito da un pubblico d’eccezione. Presenziò infatti alla cerimonia lo stesso papa Paolo III, il quale si trovava a passare da Bologna per incontrare a Busseto l’imperatore Carlo V. Il pontefice si era fatto accompagnare nel viaggio da un seguito di tutto prestigio composto dal nipote Alessandro, vicecancelliere della Curia romana, a cui le tesi erano dedicate, dal fratello Ottavio e dal cugino Guido Ascanio Sforza. I tre giovani avevano conosciuto la città felsinea all’epoca di un soggiorno di studi compiuto presso il bolognese Collegio Ancarano. Poiché anche Gabriele, insieme ai fratelli, rispondendo ad una logica che ‘mirava a sollecitare lo spirito di competizione’[8], era stato ammesso a frequentare il Collegio presso cui studiavano i cugini del clan Farnese, con quell’atto egli si segnalava all’antico compagno di studi.
L’occasione per il giovane di mettere in evidenza il legame stretto con il nipote del pontefice si ripropose poi a quattro anni di distanza dalla disputa quando, terminati i propri studi giuridici, all’atto di pronunciare le conclusioni pubbliche, al fine di ottenere l’abilitazione alla lettura presso il Ginnasio cittadino, Gabriele ripropose la dedica diretta pochi anni prima al cardinal Farnese[9]: il rapporto instaurato tra Paleotti e i Farnese negli anni della formazione offrì a Gabriele l’opportunità di creare un proficuo sodalizio a vantaggio della propria futura carriera.
Nel fondo dei Riformatori dello Studio[10] si sono conservate poco meno di una cinquantina di esemplari di analoghe dispute giuridiche discusse nel corso della seconda metà del Cinquecento. Queste tesi vennero, nella maggior parte dei casi, dedicate a cardinali, ma non mancano esempi in cui furono intitolate a papi e principi italiani. Lo stesso Gabriele Paleotti, che acquisì la porpora cardinalizia nel 1565, fu a sua volta menzionato all’interno di sette dispute discusse da scolari bolognesi tra la fine degli anni Cinquanta e Settanta del XVI secolo. Il richiamo al cardinale bolognese costituì anche per questi giovani l’occasione per mettersi in luce, nella prospettiva di poter acquisire in futuro incarichi di prestigio: due di essi, Alessandro Beroaldo e Francesco Odifredi, infatti guadagnarono in seguito un posto all’interno del capitolo della Metropolitana di Bologna; Cesare Locatelli e Giovanni Battista Lambertini, dopo aver letto nello Studio pubblico bolognese, si trasferirono invece a Roma iniziando la loro carriera curiale in qualità di referendari di Segnatura; mentre Taddeo Sarti, dal governatorato di varie città poste nello Stato della Chiesa, concluse il proprio cursus honorum con la nomina al vescovado di Nepi e Sutri.
Terminato il percorso di studi, svolto seguendo le modalità e i tempi previsti dagli Statuti, gli studenti avevano acquisito tutti i requisiti che avrebbero permesso loro di sottoporsi all’atto
finale, il cui superamento era considerato indispensabile per poter conseguire i gradi accademici.
L’esame di laurea avveniva al cospetto della commissioni esaminatrici, composte da dodici dottori collegiati in diritto canonico e da sedici per il
civile; l’Arcidiacono presenziava in qualità di Cancelliere dello Studio con il compito di conferire le insegne dottorali.
Lo Statuto prescriveva che la prova finale si svolgesse in diverse fasi, la prima delle quali consisteva nella presentazione del candidato in un momento successivo al tentamen e alla dichiarazione della professione di fede, seguiva poi l’assegnazione dei puncta,e si concludeva con l’esame privato e la discussione pubblica[11].
Nei giorni precedenti la cerimonia di laurea i priori convocavano nel tentamen lo studente ‘intra privatos parietes’[12] per accertarne l’idoneità, oppure delegavano l’analisi della sua preparazione ad un dottore che avrebbe riferito direttamente in merito all’esito del colloquio. Seguiva la professione di fede pronunciata dal candidato, in rispetto ai dettami introdotti dal Concilio di Trento, per controllare, attraverso la sottoscrizione di una professio fidei, l’ortodossia religiosa dei giovani che desideravano sottoporsi alla prova finale di laurea. All’atto della presentazione del candidato, che avveniva tre giorni prima rispetto all’esame privato, doveva essere specificato il tipo di laurea che lo studente intendeva conseguire operando una scelta tra il dottorato e la licenza[13] (sebbene quest’ultima, riservata unicamente ai forestieri, sia stata richiesta raramente nel corso dell’intera epoca moderna) e, a seconda dell’origine geografica di esso, vi era l’obbligo di fare riferimento anche al tipo di esame che avrebbe dovuto sostenere: more civium se si trattava di uno studente bolognese, senza alcuna distinzione tra i cittadini e gli abitanti del contado, o more forensium nel caso in cui l’esaminando avesse origini forestiere.
Le due differenti prove d’esame non divergevano sostanzialmente nella forma, variava invece l’entità del deposito da versare ai Collegi legali che era nettamente superiore per i cittadini bolognesi in virtù dei privilegi che costoro avrebbero acquisito con il possesso del titolo dottorale more civium, corrispondenti alla possibilità di chiedere l’aggregazione al Collegio professionale dei dottori, giudici e avvocati oltre che ai Collegi dottorali[14]. Sebbene il costo per conseguire i gradi accademici abbia subito variazioni nell’arco dei tre secoli presi in esame, per il dottorato alla forestiera era comunque richiesto un esborso inferiore di denaro rispetto alla formula more civium, pari a circa 1/3 in meno di quello previsto per i bolognesi.
Mentre i gradi accademici concessi a titolo gratuito erano previsti per talune categorie di studenti forestieri[15], i bolognesi erano esclusi da tale privilegio per cui, dati gli elevati costi da pagare per accedere alla laurea alla cittadina, era prescritto dagli Statuti[16] che, nel caso in cui il candidato dimostrasse di non essere nelle condizioni economiche per poter sostenere tali spese, potesse essere chiesta ai Collegi l’autorizzazione a conseguire il dottorato more forensium. I dispensati, in quest’ultimo caso, dovevano formalmente rinunciare ai privilegi previsti per i laureati more civium, impegnandosi a pagare la differenza di prezzo nel caso in cui successivamente avessero deciso di acquisire il titolo alla bolognese[17].
Ritornando alle differenze che distinguevano il dottorato more civium da quello more forensium, occorre precisare come fosse dettata anche una diversa tempistica entro la quale svolgere la prova per il dottorato[18]. I forestieri avevano infatti a disposizione un’intera giornata per discutere con il proprio promotore i punti che avrebbero successivamente esposto al cospetto dei Collegi dottorali e dell’Arcidiacono. Per i bolognesi questo intervallo di tempo era ridotto a sole dodici ore, per cui l’assegnazione dei puncta avveniva di mattina, mentre nel tardo pomeriggio doveva aver luogo l’esame in forma privata.
Andamento del flusso delle lauree
Un limite imposto ai bolognesi era rappresentato dal numero massimo di studenti che potevano conseguire i gradi accademici all’interno di un anno, a fronte della completa libertà lasciata ai forestieri. Gli antichi Statuti dei Collegi di diritto canonico e civile[19] fin dal medioevo avevano infatti previsto che potesse essere presentato all’esame finale un solo laureato di origine bolognese (escludendo da questo computo i figli, i fratelli e i nipoti dei dottori collegiati, anche se defunti)[20], al fine di mantenere sotto controllo l’accesso alle commissioni esaminatrici e all’insegnamento universitario, quasi esclusivamente riservato ai cittadini originari[21]. All’interno degli Statuti del Collegio di diritto civile, emanati nel 1591, si ritrova sancito tale principio sebbene il numero di bolognesi da poter ammettere all’esame finale fosse stato innalzato a tre.
Sia nella normativa statutaria di età medievale, sia all’interno di quella riformata durante il XVI secolo, venivano quindi concesse deroghe al limite di studenti bolognesi ammissibili all’esame finale, a condizione che i candidati in eccesso avessero ottenuto l’assenso dei dottori collegiati presenti alla seduta[22].
L’analisi dei verbali di laurea[23] ha permesso di seguire, lungo i quasi quattro secoli e mezzo presi in esame, la frequenza con la
quale si fece ricorso a tale deroga.
Nel corso dell’intera età medievale si è potuto constatare come l’ammissione alla laurea, per i bolognesi considerati in eccesso rispetto a quanto previsto dalla norma, fosse registrata con una certa sistematicità, e l’appello a tale dispensa fu utilizzato, in media, da circa poco meno della metà dei laureati bolognesi totali. Lo studio di Anna Laura Trombetti Budriesi ha infatti messo in evidenza il sistema delle dispense concesse ai laureandi in diritto civile tra il 1378 e il 1500 dal quale risulta come 124 studenti, nel corso dell’intero periodo preso in esame, si appellarono a tale deroga su un totale di 228 laureati[24]. Occorre tuttavia sottolineare, a tale proposito, come le dispense concesse a tale titolo, a partire dagli anni Ottanta del Quattrocento, cominciarono a ridursi rispetto a quelle registrate nei decenni precedenti nonostante si fosse mantenuto su livelli relativamente stabili il numero dei laureati cittadini totali, attestatasi sui 15 per decennio.
La tendenza sottolineata, avviatasi alla fine del XV secolo, si intensificò in misura maggiore nel corso degli anni successivi: fin dagli inizi del Cinquecento però la menzione a tale tipo di concessione scompare dai verbali di laurea nonostante permanga sui livelli di fine Quattrocento il numero complessivo di laureati originari della città di Bologna.
Allo stato attuale delle conoscenze non siamo in grado di fornire una spiegazione per giustificare tale fenomeno anche se potrebbero essere avanzate alcune ipotesi. L’innalzamento del numero complessivo di bolognesi ammessi all’esame finale, da uno a tre, potrebbe aver giocato un ruolo nel cambiamento del ricorso alla pratica di tale dispensa, tuttavia questa mutazione non può essere ritenuta significativa poiché a partire dalla seconda metà del Cinquecento il numero complessivo di bolognesi laureatisi in diritto duplicò i livelli del periodo precedente arrivando a toccare le 81 unità nel decennio 1590-1599, e le 83 a metà del XVII secolo. Cosa può essere allora cambiato nel meccanismo di concessione dei gradi accademici ai cittadini bolognesi? Un provvedimento emanato a fine Quattrocento, non menzionato nelle redazioni statutarie, può aver legittimato l’abbandono dell’uso di registrare i bolognesi in eccesso ammessi alla laurea. Il fatto però di aver riproposto all’interno degli Statuti dei Collegi riformati nel 1591 il limite del numero di bolognesi da addottorare smentirebbe l’ipotesi di un intervento abrogativo in questo settore. Si può altresì supporre che tale cambiamento può essersi radicato nella pratica per il frequente ricorso alla deroga di laureare un elevato numero di bolognesi in eccesso, tanto da trasformare l’eccezione in regola e al punto di far perdere valore alla concessione data che finì per non essere più registrata[25]. L’unico dato che appare con certezza è rappresentato dall’innalzamento del numero dei graduati di origine bolognese a partire dagli anni Sessanta del Cinquecento che si protrasse fino alla metà del secolo successivo. Nella decade 1660-1669 i valori assoluti dei laureati di origine bolognese invece rientrarono dimezzando le punte toccate nel decennio precedente, mantenendosi su livelli medio-bassi lungo il restante periodo considerato. A tale flessione occorre attribuire un significato diverso se si raffrontano i dati complessivi dei laureati di origine bolognese con i totali dei graduati in diritto anch’essi divisi per decade: quella che, a metà del Seicento, per i bolognesi appare come una diminuzione della presenza all’interno dello Studio cittadino, se raffrontata con le cifre complessive dei laureati, si rivelerà come l’inizio di un aumento di incedenza in termini percentuali che perdurerà incontrastato sui livelli del 25-30% per tutto il periodo successivo. La progressiva regionalizzazione dello Studio bolognese, registratasi a partire dalla seconda metà del XVII secolo, portò infatti un cambiamento nell’equilibrio della componente studentesca: mentre fino agli anni Quaranta del Seicento un ruolo di primo piano era stato ricoperto dai numerosi giovani provenienti da tutti i territori europei (e si è già avuto modo di osservare per Bologna la rilevante presenza di spagnoli e tedeschi)[26], a seguito delle massicce fondazioni universitarie e della chiusura operata, dopo il Concilio di Trento, dalle università poste sotto il controllo della Chiesa cattolica in funzione di un’esclusione dell’accesso ai giovani di fede eterodossa, gli studenti bolognesi si trovarono nella propria città in una posizione di netta maggioranza numerica. Tale vantaggio non si percepisce dall’analisi dei dati assoluti, che evidenzia anzi un calo progressivo del numero dei laureati di origine cittadina, ma assume valore se le cifre che danno conto della presenza dei bolognesi vengono raffrontate con il totale dei laureati. Il grafico mette in evidenza il fenomeno di come la percentuale dei cittadini sui laureati in diritto totali, abbassatasi nel corso del periodo in cui Bologna registrò le punte massime di affluenza da parte di studenti forestieri (dalla metà del Quattrocento fino agli anni Sessanta del XVII secolo), riprese ad essere favorevole per i bolognesi a partire dalla fine del Seicento permanendo tale fino alle soglie della Rivoluzione francese.
Se si passa tuttavia dall’analisi del dato percentuale a quello assoluto il vantaggio registrato dai bolognesi deve essere lievemente ridimensionato. La regionalizzazione del bacino di utenza e un
progressivo scadimento del livello degli studi portò infatti Bologna ad una netta e generale diminuzione del numero dei laureati di cui risentì anche la componente cittadina: dalle punte massime
toccate agli inizi del Seicento, con 639 addottorati complessivamente nel corso del primo decennio del secolo, si scese in un centinaio di anni ai 156 nella decade 1700-1709, per arrivare agli 84
graduati totali registrati a fine secolo.
Anche per i bolognesi, sebbene in misura inferiore rispetto agli stranieri, deve essere registrata la disaffezione allo Studio cittadino, che colpì indistintamente studenti originari e forestieri a
partire dalla seconda metà del Seicento, con particolare riferimento alle materie legali: la crescita di interesse nei confronti delle discipline medico-filosofiche produsse a favore di queste un
parziale spostamento di utenza studentesca, presumibilmente di origine borghese, verificatosi in particolare a metà del Seicento e nel periodo a cavallo tra il XVII e XVIII secolo (grafico 1);
mentre i nobili preferirono rivolgersi ai Collegi d’educazione[27] ad essi riservati, preferiti allo Studio poiché valutati più idonei
ad assolvere il compito di formare in maniera completa i futuri membri delle élites sociali.
L’osservazione dei dati disponibili per un così ampio arco cronologico ha messo in evidenza, così come è stato dimostrato per la laurea concessa ai bolognesi soprannumerari rispetto a quanto previsto dai dettami statutari, l’evoluzione del ricorso ad alcune concessioni le quali, praticate in età medievale, in epoca moderna persero il loro antico valore. Allo stesso modo, all’interno di un così lungo periodo, si può osservare come altre richieste, assenti dai verbali nel corso dei primi secoli dello Studio, si siano progressivamente affermate a partire dai primi decenni del Cinquecento.
Il ricorso all’esenzione delle spese da sostenere per le colazioni da offrire all’Arcidiacono, ai dottori collegiati, oltre agli ufficiali e ai ministri dell’Università[28], veniva invocato dai candidati che non erano in grado di affrontare integralmente gli ingenti costi previsti per il dottorato ma che non volevano tuttavia rinunciare a conseguire il titolo alla bolognese chiedendo quindi che fosse concessa loro solamente una riduzione di spesa. Questo genere di richiesta, avanzata dagli studenti prossimi alla laurea ai membri dei Collegi dottorali[29], ignorata nel corso del medioevo, compare raramente nei verbali redatti nel corso del Cinquecento, per intensificarsi a partire dalla seconda metà del Seicento, perdurando per l’intero corso del XVIII secolo quando il ricorso a questa dispensa si intensificò notevolmente.
Negli ultimi decenni a cavallo tra Cinque e Seicento si era invece diffuso l’uso di chiedere la dilazione del pagamento delle spese da sostenere per il dottorato: Giovanni Bolognini nel maggio 1598 ottenne tale dispensa garantendo il pagamento immediato in contanti di un acconto[30]. Il mese successivo i fratelli Giovanni e Cesare Argeli avanzarono la medesima richiesta ottenendo di pagare un terzo delle spese al momento del dottorato, un terzo dopo un anno e il rimanente l’anno successivo, presentando la fideiussione emessa dal padre Paolo Emilio Argeli e da Ugolino Montorselli[31]. Allo stesso modo, nel 1637, il bolognese Carlo Antonio Gioacchini che, prima di addottorarsi aveva chiesto e ottenuto di sostenere l’esame more forensium (godendo quindi già di una riduzione dei costi), fu ulteriormente agevolato con l’autorizzazione a pagare le spese di dottorato entro un triennio[32].
All’atto della presentazione i candidati che non erano in possesso del requisito dell’età minima prevista dagli Statuti[33], fissata a venti anni, dovevano inoltrare ai Collegi la richiesta di essere ammessi all’esame di laurea motivandola in maniera convincente. Dall’analisi delle dispense concesse dai dottori collegiati si è potuto rilevare la totale assenza del ricorso a questa petizione fino agli anni Ottanta del Cinquecento (con un’unica eccezione all’interno della decade 1520-1529), mentre il periodo nel quale questo tipo di richieste si fece più intenso è ascrivibile tra la fine del XVI secolo e i primi decenni del Seicento, coincidente con il momento di massima espansione dello Studio, per poi rarefarsi nel corso dell’epoca successiva, con una lieve ripresa solo agli inizi del Settecento e negli ultimi decenni del medesimo secolo.
La richiesta di alcune concessioni, quali potevano essere l’accorpamento dell’esame di diritto civile con quello in canonico, e la dichiarazione del corso di studi abbreviato compiuto dal candidato, si trovano registrate nei verbali di laurea fino agli ultimi anni del Quattrocento. Nel corso del periodo successivo tali petizioni si fecero silenti poiché nella pratica venne accorpato l’esame in utroque iure che si svolgeva alla presenza dei membri facenti parte di entrambi i Collegi dottorali di diritto civile e canonico e, riguardo al curriculum studiorum insufficiente, fu inserita all’interno di tutti i verbali una formula con la quale i dottori collegiati dispensavano i candidati dal non aver ripetuto le lezioni e dal non aver udito i Decreti per un anno intero.
L’esame di laurea
Esaurite le varie richieste, inserite all’interno dell’atto di presentazione del candidato, e assegnati i puncta, su cui l’esaminando si doveva preparare coadiuvato dal proprio promotore, era previsto dagli Statuti che i bolognesi fossero sottoposti all’esame privato la sera (a dodici ore di distanza dall’assegnazione dei puncta), mentre per i forestieri era rimandato alla mattina del giorno successivo. Tale prova aveva luogo presso l’aula magna dei Collegi dottorali, ubicata nella sacrestia di San Pietro [34], dove il laureando doveva affrontare, alla presenza dell’Arcidiacono, la commissione esaminatrice composta dai dottori collegiati. Senza avvalersi di alcun sostegno da parte del docente-promotore da cui era stato seguito fino a quel momento, il candidato era chiamato a rispondere alle domande che gli venivano poste dai membri dei Collegi in un ordine che rispettava il principio di anzianità: cominciava quindi il più giovane aggregato per terminare con il decano. A discussione ultimata i collegiati, escluso il promotore, si riunivano per decidere sull’esito dell’esame: due erano le cedole, per ciascuno dei due diritti, poste in mano ai membri della commissione esaminatrice (una per l’approvazione e l’altra per la ‘reprobatio’)[35] da inserire, a seconda del giudizio positivo o negativo assegnato al candidato, all’interno delle urne predisposte ad accogliere i voti. I notai dei Collegi, ultimata la votazione, procedevano all’apertura dei bossoli e al conteggio dei giudizi: veniva considerata superata la prova se il candidato aveva ricevuto almeno 2/3 di voti favorevoli. Nella maggior parte dei casi si è potuto constatare come l’esito della prova fosse positivo e le rare volte in cui un candidato fu respinto costui fu invitato a ritentare l’esame senza imporre alcuna limitazione temporale.
Angelo Gaggi, dottore collegiato e lettore pubblico presso lo Studio cittadino, agli inizi del Settecento compose un’opera sui Collegi legali[36] con l’intento di riproporne una storia passando in rassegna la normativa che fin dall’epoca medievale aveva regolamentato queste istituzioni. All’interno del saggio egli descrisse le diverse fasi che caratterizzavano l’esame di laurea accennando come ‘antiquis temporibus’ non fosse sufficiente il solo esame privato per ottenere la laurea dottorale, ma era necessario che il candidato si sottoponesse al conventus, cioè all’esame pubblico, da sostenersi presso la chiesa di San Pietro, al termine del quale l’Arcidiacono, pronunciato il proprio sermone, avrebbe assegnato al candidato le insegne dottorali (il berretto, il libro e l’anello) secondo un rituale che seguiva molto da vicino quello adottato da imperatori e pontefici per conferire l’investitura nobiliare[37].
Mentre il forestiero, pagando 50 scudi d’oro, se lo desiderava aveva la facoltà di chiedere[38] di poter essere sottoposto al
conventus, discutendo in Collegio altri due punti diversi da quelli trattati nel corso dell’esame privato e in un giorno successivo ad esso, il cittadino, versando anch’egli 50 scudi
d’oro, aveva invece l’obbligo di discutere le tesi pubbliche, a patto che non fosse stato dispensato dal farlo dalla totalità dei dottori collegiati[39].
Lo stesso Gaggi all’interno della propria opera fa riferimento ad antiche deroghe a questo dettato statutario, citando un decreto, datato 30 agosto 1394, che prevedeva il versamento di un deposito
fideiussorio di cento libbre nel caso in cui il candidato volesse rimandare l’esame pubblico entro un certo periodo di tempo (in epoca moderna in genere la proroga era fissata a 6 mesi). Se entro
quel determinato periodo di tempo fissato all’atto del versamento della fideiussione il laureando non avesse assolto l’onere della pubblica l’importo depositato sarebbe stato diviso tra i dottori
collegiati.
Il tema relativo allo svolgimento dell’esame pubblico è stato quindi oggetto di dibattito fin dall’epoca medievale: riuscire in qualche modo ad evitare questa prova costituiva per il candidato
l’occasione di poter alleggerire il peso dell’esame di laurea sia in termini di impegno mentale, sia economico.
Già dagli inizi del Quattrocento sono state rinvenute all’interno dei verbali delle sedute dei Collegi dottorali dispense richieste dagli studenti relativamente all’esame pubblico affinché si
svolgesse in un tempo immediatamente successivo a quello privato e nella sacrestia di San Pietro[40]. Queste richieste si
intensificarono nel corso del secolo arrivando ad essere circa un’ottantina: l’antica cerimonia pubblica, nella quale avveniva il conferimento delle insegne dottorali, associata all’esame privato
perdeva quindi quell’aurea di sacralità attribuitale fin dai tempi antichi.
Alle soglie dell’epoca moderna, l’impressione desunta dall’esame della documentazione va nella direzione di una semplificazione della procedura a scapito dell’esame pubblico.
I verbali di laurea dei primi anni del Cinquecento si aprono infatti con una serie di petizioni, contenute all’interno della presentazione del candidato operata dal promotore, inoltrate ai membri
dei Collegi dottorali, in cui veniva chiesta direttamente la dispensa dal sostenere l’esame pubblico. E il numero di tali richieste, raramente respinte dai membri dei Collegi dottorali, si
intensificò a tal punto che nell’arco di un centinaio di anni il ricorso ad esse si fece sistematico e, ogniqualvolta un candidato superava l’esame privato, automaticamente veniva trascritta dal
notaio la richiesta di esenzione dalla pubblica, che puntualmente veniva concessa dai dottori collegiati[41].
Il periodo a cavallo tra XV e XVI secolo rappresentò quindi un momento di passaggio in cui la procedura dell’esame di laurea cominciò a modificarsi sostanzialmente anche se in maniera graduale:
dalla quattrocentesca richiesta di unione dell’esame pubblico a quello privato, nella quale si potevano cogliere le prime avvisaglie di una perdita d’importanza attribuita al conventus, si
passò in breve alla petizione per ottenere direttamente la dispensa dallo svolgere l’esame pubblico.
Il ricorso al deposito fideiussorio, legittimato per prorogare il tempo fissato da Statuto per lo svolgimento della pubblica successivamente all’esame privato, nel corso dei primi settant’anni del
Cinquecento si fece sempre più frequente: degli 83 laureandi dispensati a tale titolo a partire dal 1515, fino ad arrivare al 1579, 81 ottennero in un tempo successivo, all’interno del periodo
previsto dalla dilazione, la concessione di astenersi dallo svolgere l’esame pubblico, mentre solo due candidati (Tommaso Campeggi e Lelio Ruggeri)[42] lasciarono cadere la richiesta perdendo il deposito fideiussorio versato poiché non affrontarono il conventus ma nemmeno inoltrarono una petizione per esserne
dispensati. Il deposito fideiussorio costituiva quindi per i laureati un escamotage per guadagnare tempo allo scopo di ottenere, entro i sei mesi previsti, la dispensa dall’effettuare le pubbliche
conclusioni.
La richiesta di astensione dallo svolgimento dell’esame pubblico, trascritta di prassi all’interno dell’atto che riportava l’esito di quello privato, si fece tacita già a partire dalla seconda metà del Cinquecento quando l’accenno all’esenzione dalla pubblica cominciò a comparire solo come una concessione data dai dottori collegiati e riportata all’interno dell’atto con cui veniva conferito al candidato il titolo dottorale, il notaio ometteva pertanto di riportare la trascrizione della richiesta inoltrata dal candidato poiché con molta probabilità il ricorso ad essa da eccezione si era trasformato in regola.
La pratica dell’esenzione dalla discussione pubblica finale si affermò radicandosi a tal punto che l’arcidiacono Antonio Felice Marsigli, negli ultimi decenni del Seicento, intervenne, come è già stato ricordato, in merito a questo argomento. Se il prelato era disposto a soprassedere alla mancanza del requisito dei cinque anni di studio, all’interno del medesimo testo non si dimostrava però altrettanto condiscendente nei confronti delle facili esenzioni concesse per evitare ai giovani laureandi di sostenere l’esame pubblico consigliando di far rimanere ‘sempre fermo l’obligo delle publiche conclusioni o di altro equivalente saggio che seco necessariamente porti il rimettere l’uso tanto importante de’ circoli e delle conferenze in ora affatto perduto con sì grave pregiudizio troppo essendo chiaro che la coltura e la buona disciplina della gioventù non si può conseguire che cò due importanti mezi del tempo e dell’esercizio’[43].
Le parole pronunciate da Marsigli rimasero inascoltate poiché per tutto il corso del Settecento la situazione riportata dai verbali di laurea attesta il perdurare, da parte dei Collegi dottorali, della pratica della concessione della dispensa dall’esame pubblico che si era ormai affermata come consuetudine al di sopra del dettato statutario.
La discussione delle conclusioni finali
Abbiamo potuto constatare come la pratica, affermatasi a partire dai primi anni del Cinquecento, di esimere il candidato all’esame di laurea dal sostenere il conventus in un momento
successivo alla prova svolta in forma privata, divenne consuetudine nel corso del XVII e XVIII secolo. I laureati, dichiarati tali grazie al solo superamento dell’esame privato, entravano in
possesso del titolo richiesto per poter intraprendere una carriera all’interno del vasto ventaglio delle professioni giuridiche.
Il carattere ufficiale, che si identificava nella cerimonia pubblica in cui avveniva conferimento dei gradi accademici, con la concessione della dispensa dal conventus, era quindi venuto
meno: questo fatto rappresenta uno dei principali cambiamenti intervenuti all’interno della cerimonia di laurea nel corso dell’epoca moderna.
L’uso di sottoporre il candidato al conventus non fu però del tutto abbandonato poiché per la maggior parte di laureati si rendeva necessario riprendere la prova pubblica quando intendevano inoltrare una richiesta per ottenere una lettura presso lo Studio, anche se avevano ottenuto la dispensa dallo svolgere il conventus all’atto dell’esame privato. Tale obbligo fu introdotto a partire dal 29 ottobre 1556, data in cui il Senato di Bologna[44], alla presenza del vicelegato Lorenzo Lenzi, stabilì con un partito che nessun dottore cittadino potesse aspirare ad ottenere un insegnamento presso lo Studio bolognese senza essersi preventivamente sottoposto alle pubbliche conclusioni[45]. Il decreto riassumeva, con molta probabilità, l’esito di riflessioni e discussioni condotte all’interno del Senato e di cui è rimasta traccia in un foglio datato 22 settembre 1556, in cui si suggeriva di imporre l’obbligo ai candidati, all’assegnazione di una lettura presso lo Studio, di sottoporsi all’esame pubblico addirittura in un momento precedente a quello dell’addottoramento, richiamando quindi l’antica prassi consolidatasi nel corso dell’epoca medievale: con il partito emanato dal Senato il mese successivo si cercò una mediazione imponendo l’obbligo di assolvere la pubblica dopo aver conseguito i gradi accademici nel solo caso in cui il candidato avesse chiesto di essere ammesso ad esercitare una lettura.
C’è da supporre che tali decisioni passarono, almeno nei primi tempi, pressoché inosservate, dal momento che su 209 conclusioni pubbliche discusse da dottori legisti nel corso dell’età moderna di cui si è trovata notizia, solo 7 sono ascrivibili al primo ventennio di attuazione del provvedimento preso dal Senato.
Fu grazie alle Costituzioni[46] dettate il 20 settembre 1586 dal cardinale Enrico Caetani che l’argomento si ripropose all’attenzione dei dottori, poiché il Legato di Bologna prevedeva, all’interno di esse, una rigida e minuziosa procedura da osservare per la cerimonia pubblica, destinata alla discussione delle tesi finali, per abilitare il laureato all’esercizio della lettura presso lo Studio. La reazione del ceto dottorale si fece immediatamente sentire attraverso la voce di Ferrante Vezza, lettore di diritto civile fin dal 1562, il quale, insieme ad altri dottori non nominati all’interno della memoria, stese un parere in cui si espresse contro l’obbligo imposto della discussione delle pubbliche conclusioni valutandolo come un’inutile perdita di tempo. Nella memoria, quindi, si suggerisce come ‘forse saria bene a levare questa et che fosse rimesso a la loro[47] volontà di disputare et non disputare perché facendolo necessariamente non si procede com’è decreto ma imparano come si dice a mente molto essercitio solo questo il che facendo credono saper poi et putti s’addottorano quando lo faranno volontariamente non lo faranno se non bene provetti come era già solito di farsi’[48]: i dottori sottolineavano come la discussione delle conclusioni finali, divenuta pratica obbligatoria, venisse ormai ripetuta meccanicamente dai candidati senza avere alle spalle una solida preparazione.
Gli stessi dottori protagonisti della polemica contro i provvedimenti sullo Studio presi da Caetani successivamente portarono la questione anche all’attenzione della corte di Roma. Intervenendo su un dettaglio tecnico previsto dalle Costituzioni di Caetani, spedirono al vicelegato e all’Ambasciatore residente a Roma un altro memoriale in cui veniva messa sotto accusa l’intera rigida procedura ed in particolare l’obbligo imposto al candidato di sottoporsi al giudizio di tutti i dottori leggenti attraverso uno scrutinio segreto (che equivaleva ad obbligare il candidato ad una doppia prova: davanti al priore e ai quattro dottori estratti a disputare, e successivamente al cospetto dell’intero Collegio dottorale)[49].
La polemica rimase accesa nel corso degli anni successivi e i dottori tentarono, tra il 1588 e il 1591, di coinvolgere il neoeletto vicelegato Camillo Borghese affinché intercedesse presso il proprio diretto superiore allo scopo di modificare il provvedimento ‘come s’è usato da tanto tempo in qua annullando sopra tutto quell’obbligo dell’imborsatione et di scruttiniare li sostentanti lasciando vive nel resto le sopradette Ordinationi’[50]. Il malcontento dei membri del ceto dottorale si estese contagiando, in ultima istanza, anche gli Assunti di Studio che al cospetto del Senato bolognese lessero una relazione a favore del partito dei dottori, contro le rigide regole imposte dalle Costituzioni di Caetani, concludendo come esse fossero ‘vuolgare fuori d’ogni uso et poco decenti alla riputatione di un Studio così principale come questo’, e suggerendo infine che si sostenessero le conclusioni ‘come s’è osservato da tanto tempo in qua col levare soprattutto quell’obligo dell’imborsatione et facoltà ai dottori di scruttiniare li sostanti come atta a partorire mali effetti’[51].
Le proteste sollevate dai dottori, e appoggiate dagli Assunti di Studio, rimasero inascoltate dal cardinale, rappresentate dell’autorità papale a Bologna, e nelle successive Costituzioni emanate dai legati che succedettero a Caetani vennero rinnovati i principi stabiliti nel 1586 addirittura inasprendoli con nuove prescrizioni. Le Ordinazioni emanate nel 1602 dal vicelegato Marsilio Landriani[52], facendo seguito ad un partito del Senato, stabilirono che gli aspiranti alla lettura non potessero avere meno di 25 anni; all’interno delle Costituzioni stabilite dal cardinale Durazzo nel 1641 fu introdotto l’obbligo di considerare valide le conclusioni finali solamente se discusse entro l’anno all’interno del quale veniva presentata al Senato la petizione da parte del dottore aspirante alla lettura[53], innalzando il numero degli ‘argomentanti’ da cinque a sei fino ad un massimo di otto[54]. Veniva inoltre prescritto l’obbligo, da parte del notaio-cancelliere dell’Università, di redigere un atto contenente tutti i dati necessari per rilasciare all’interessato una fede nel momento in cui questo si sarebbe accinto a richiedere una pubblica lettura. Senza l’attestato sottoscritto da questo ufficiale il dottore non avrebbe infatti potuto concorrere all’assegnazione di alcuna cattedra, a meno che non avesse richiesto e ottenuto una particolare dispensa dalla discussione delle tesi. Tali disposizioni furono poi riprese all’interno delle Ordinazioni emanate nel 1713 dal cardinal legato Lorenzo Casoni[55] senza nessuna variazione sostanziale.
Nell’agosto del 1665 gli Assunti di Studio avevano poi emanato un provvedimento[56] che imponeva l’obbligo di discutere le pubbliche tesi a tutti i dottori provenienti del contado di Bologna deficitari del requisito della cittadinanza, indispensabile per l’esercizio della lettura presso lo Studio cittadino, che con questo atto venivano quindi ad acquisire l’abilitazione dalle origini. I laureati comitatini, in virtù di questa norma, si dovevano sottoporre quindi a una duplice prova per poter aspirare ad entrare nel novero dei docenti attivi presso l’Alma Mater: la discussione che dispensava dal ‘difetto’ delle origini avveniva nella sala degli anziani consoli, al cospetto del gonfaloniere di giustizia e dei senatori, mentre le tesi che abilitavano all’esercizio della lettura venivano presentate dal candidato in un’aula posta all’interno delle Pubbliche Scuole.
Una serie di opuscoli non datati (ma riconducibili alla prima metà del Settecento), conservati presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna[57] e presso l’Archivio di Stato[58], ha permesso di conoscere con maggiore esattezza i tempi e i modi con i quali doveva svolgersi la cerimonia della discussione delle conclusioni. Era previsto, allo scopo di dare pubblica rilevanza all’evento, che il disputante stampasse a proprie spese un foglio che doveva essere affisso nei luoghi pubblici in cui doveva comparire il proprio nome, quello del priore, dei dottori estratti per sostenere la discussione, ed infine la citazione degli argomenti sottoposti a disputa tratti dai testi sui quali si era formato il candidato. Una copia doveva essere consegnata al priore del Collegio e una spettava all’Arcidiacono, ai ‘superiori’ (personaggi ragguardevoli che partecipavano alla cerimonia) erano destinate copie in seta con pizzi d’oro, mentre altre quattrocento copie venivano consegnate ai bidelli dell’Universitas che nel giorno della funzione avevano il compito di distribuirle tra gli astanti. Le spese per addobbare la sala all’interno della quale sarebbe avvenuta la cerimonia ricadevano sul candidato che doveva anche sobbarcarsi i costi delle pietanze da offrire alle autorità intervenute. Il complessivo delle spese variò nelle varie epoche arrivando ad oscillare, nel corso della prima metà del XVIII secolo, da 36.5 lire fino a 41.15 lire.
All’interno dei fascicoli personali dei lettori[59], nelle buste contenenti i verbali stesi in occasione delle aggregazioni ai Collegi dottorali[60], e in quattro buste depositate presso il fondo dei Riformatori dello Studio[61], si sono conservate circa centocinquanta copie di tesi legali discusse in età moderna allo scopo di ottenere l’abilitazione all’insegnamento pubblico[62] e l’incorporazione all’interno delle commissioni d’esame.
L’analisi di tali documenti ha permesso di rilevare due forme standardizzate scelte dai disputanti per divulgare le conclusioni che si sarebbero apprestati a discutere. Una prima, adottata fino alla prima metà del Seicento, si presentava con l’aspetto di un manifesto sul quale campeggiava un’immagine incisa con elementi allegorici all’interno della quale venivano inserite tutte le notizie relative al nome del disputante e agli argomenti da discutere. Nella parte sottostante era invece stampato il nome del personaggio a cui le conclusioni erano dedicate allo scopo, già evidenziato per le dispute giuridiche, di entrare nei suoi favori nel caso in cui il candidato fosse stato nella condizione di dover chiedere un aiuto per ottenere l’incarico della lettura. E così, come si è già potuto evidenziare per le dispute giuridiche, molti sono i nomi che ricorrono all’interno di queste tesi, venivano infatti chiamati in causa papi, cardinali e senatori, ma la figura che più spesso veniva invocata era quella del vessillifero di giustizia che presiedeva il Senato cittadino, organismo dal quale non a caso dipendevano le nomine dei docenti dello Studio[63]. Su questo formato potevano essere introdotte varianti non significative, in alcune tesi infatti non è stata riportata l’incisione, e i fogli più tardi (risalenti al Settecento) hanno l’aspetto di prestampati compilati nelle parti vuote con i dati essenziali per individuare il nome del disputante e gli argomenti da esso trattati.
Un secondo formato, diffusosi a partire dalla seconda metà del XVII secolo, aveva invece l’aspetto di libretto rilegato con carta colorata all’interno del quale la prima pagina era occupata dal nome del candidato e dall’indicazione del personaggio a cui era dedicata la discussione; nelle pagine interne trovava invece spazio la descrizione degli argomenti oggetto di tesi.
L’ultimo foglio del libretto, o il retro del manifesto, erano occupati dal notaio dell’Universitas scholarium che aveva il compito di redigere un breve verbale per comprovare l’effettivo svolgimento della cerimonia nel momento in cui il candidato avesse presentato agli Assunti di Studio i certificati necessari per attestare il possesso di tutti i requisiti richiesti per poter concorrere all’assegnazione di una pubblica cattedra o all’aggregazione ai Collegi legali.
Le tesi finali rappresentavano quindi una sorta di abilitazione della quale doveva essere in possesso il dottore che intendeva rivolgere una supplica al Senato per poter concorrere all’assegnazione di una lettura, ma costituivano anche l’occasione per stabilire o confermare pubblicamente, attraverso la dedica, un legame specifico con il personaggio eminente a cui le conclusioni erano intestate.
Si riporta, a titolo di esempio, il caso esemplare di Tommaso Stanzani il quale offre uno spunto per condurre alcune riflessioni su quanto fossero determinanti nella carriera di un neolaureato le scelte prese ancor prima di iniziare il proprio percorso professionale. Membro di una famiglia bolognese di cartolai e tintori e orfano di padre, Stanzani venne cresciuto da uno zio che esercitava l’arte di speziale. Apparentemente egli non aveva quindi alcuna possibilità di aspirare a raggiungere il successo e la realizzazione professionale poiché, partendo già con il deficit delle umili origini, era stato privato, con la morte del padre, di ulteriori punti di riferimento. Tommaso, due mesi dopo la laurea conseguita nell’aprile 1699, nel giugno di quello stesso anno discusse le conclusioni legali dedicandole a Emilio Zambeccari, il vessillifero di giustizia in carica nel corso di quel bimestre. Esattamente non siamo in grado di definire con esattezza quanto la scelta di onorare il massimo rappresentante del Senato abbia poi influito sulla futura carriera di Stanzani, tuttavia si può supporre un collegamento tra questo implicito atto di grazia richiesto al gonfaloniere in carica e i successi professionali ottenuti in seguito da Tommaso il quale riuscì, nell’arco di un decennio, ad essere nominato cancelliere prima straordinario e poi ordinario del Senato di Bologna.
Dopo le resistenze iniziali opposte, nella seconda metà del Cinquecento, dai membri del ceto dottorale alla reintroduzione delle pubbliche conclusioni come titolo abilitante all’esercizio delle letture presso lo Studio cittadino, la pratica di svolgere le discussioni finali ritornò in breve tempo in auge, vista dai candidati anche come occasione per mettersi in luce tra la massa dei numerosi laureati presso i Collegi dottorali. Una pratica abbandonata e recuperata quindi a completo vantaggio di chi aveva la disponibilità economica per far fronte ai suoi costi elevati, che aveva ormai perso il carattere in origine attribuitole di cerimonia pubblica e solenne attraverso la quale veniva perfezionato il conferimento dei gradi accademici.
Note
[1] Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, Gozzadini, ms. 105, n. 8, Memorie per riparare i pregiudizi dell’Università dello Studio di Bologna e ridurlo ad una facile e perfetta riforma.
[2] Ivi, 1-2.
[3] Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASBo), Studio, Libri segreti del Collegio di diritto canonico, r. 126-127;129-139; Libri segreti del Collegio di diritto civile, r. 137-138;140-149; Atti del Collegio di diritto canonico, r. 22-25; 45-65; Atti del Collegio di diritto civile, r. 27-44; 66-90.
[4] C. Malagola, Statuti delle Università e dei Collegi dello Studio bolognese, Bologna, Zanichelli, 1888, XV.
[5] Anche i docenti erano tenuti per Statuto a sottoporsi a disputationes all’interno delle loro lezioni, su quest’argomento si consultino gli scritti di M. Bellomo, Legere, repetere, disputare. Introduzione ad una ricerca sulle ‘Quaestiones’ civilistiche, in Aspetti dell’insegnamento giuridico nelle università medievale. I. Le ‘Quaestiones disputatae’, Reggio Calabria, edizioni Parallelo 38, 1974, 13-81; Id., Saggio sull’università nell’età del diritto comune, Catania, editrice Giannotta, 1979.
[6] Ossia agli scolari transalpini.
[7] L’episodio è stato recentemente citato da Z. Zanardi, Ancora sulle tesi dei lettori dello Studio bolognese: una raccolta sconosciuta del XVI secolo, «La Bibliofilia», 105/2 (2003), 117-166 riprendendolo dalla monografia dedicata al cardinale Paleotti da P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1959, vol. I, 57 il quale ha tratto l’informazione dal manoscritto sulla Vita ed attioni del cardinale G. Paleotti conservato presso l’Archivio Isolani.
[8] G. Brizzi, Statuti di collegio. Gli statuti del Collegio Ancarano di Bologna, in: A. Romano (ed.), Gli Statuti universitari: tradizione dei testi e valenze politiche (Atti del Convegno internazionale di studi. Messina-Milazzo, 13-18 aprile 2004), Bologna, CLUEB, 2007, 834.
[9] ASBo, Riformatori dello Studio, b. 58, 3, 1 marzo 1547.
[10] ASBo, Riformatori dello Studio, Tesi e dispute di scolari e dottori, b. 58. Per ulteriori dettagli si consulti l’inventario C. Salterini (ed.) L’Archivio dei riformatori dello Studio, Bologna, Istituto per la storia dell’Università, 1997.
[11] L’iter di laurea è stato accuratamente descritto da A. Sorbelli, Il ‘Liber secretus iuris caesarei’ dell’Università di Bologna. Volume II: 1421-1450. Con una introduzione sull’esame nell’Università durante il Medioevo, Bologna, Istituto per la storia dell’Università di Bologna, 1942, 99-108.
[12] Constitutiones Sacri Collegii iuris pontifici civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11; Constitutiones almi Collegii iuris civilis inclitae civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11: ‘De aetate et qualitate ac ordine examinandorum’.
[13] Mentre la licenza conferiva unicamente la facultas ubique docendi, con il dottorato veniva riconosciuta al laureato la capacità autoritativa e decisionale indispensabile per farsi interprete della legge, attraverso l’emanazione di consilia e ricoprendo incarichi pubblici.
[14] Gli Statuti del Comune di Bologna già in epoca medievale erano intervenuti a tutela dei cittadini bolognesi per regolamentare questa materia prevedendo come su questi ultimi «non graventur vel gravari possint aliquibus oneribus vel angariis aliquibus aliter nec in plus quod gravantur forenses scolares volentes pervenire ad dictas examinationes», sebbene la rubrica si concludesse lasciando piena autonomia decisionale ai Collegi dottorali: «salvis tamen et sempre reservatis constitutionibus Collegii doctorum iuris civilis et doctorum iuris canonici»: Statuti del Comune di Bologna 1376, l. III, r. 7; 1389, l. III, r. 7; 1454, l. V pubblicati da G. Morelli, De Studio scolarium civitatis Bononie manutenendo. Gli Statuti del Comune (1335-1454) per la tutela dello Studio e delle Università degli scolari, «L’Archiginnasio», 76 (1981), 135, 149, 161.
[15] Si trascura in questa sede l’approfondimento di questa tematica rinviando a M. T. Guerrini, ‘Qui voluerit in iure promoveri’. I laureati in diritto nello Studio di Bologna (1501-1796), Bologna, CLUEB, 2005, 18-19, 33-34.
[16] Constitutiones Sacri Collegii iuris pontifici civitatis Bononiae, anno 1591, r. 21, ‘De consuetudinibus Collegii’.
[17] A. Gaggi, Collegii bononiensis doctorum pontificii scilicet et caesarei iuris origo et dotes, Bononiae 1710: «Paupere bononiensis promovetur, cum solutione solvi solita per forensem, si renunciaverit privilegii doctorum bononinsium, et gratiam obtinuerit, nemine penitus reclamante et etiam concessus fuit, ut possit doctorari, uti forensis, animo tamen supplendi et dilatio honorari non admittitur nisi per omnes fabas albas».
[18] Constitutiones almi Collegii iuris civilis inclitae civitatis Bononiae e Constitutiones Sacri Collegii iuris pontifici civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11.
[19] C. Malagola, Statuti delle Università e dei Collegi dello Studio bolognese, cit., r. 12 e r. 21.
[20] Un’addizione del 1451 restrinse ulteriormente tale deroga ammettendo solo i discendenti diretti dei nipoti ed escludendo quindi i figli dei fratelli dei dottori collegiati.
[21] G. Morelli, I Collegi di diritto nello Studio di Bologna tra XIV e XVII secolo, «Il carrobbio», 8 (1982), 250-258, in particolare p. 254.
[22] Constitutiones almi Collegii iuris civilis inclitae civitatis Bononiae, anno 1591, r. 15.
[23] Editi in estratto per il periodo medievale da Albano Sorbelli e Celestino Piana, A. Sorbelli (ed.), Il ‘Liber secretus iuris caesarei’ dell'Università di Bologna. Volume I: 1378-1420. Con una introduzione sull'origine dei Collegi dei Dottori, Bologna, Istituto per la storia dell’Università di Bologna, 1938; A. Sorbelli (ed.), Il ‘Liber secretus iuris caesarei’ dell'Università di Bologna . Volume II: 1421-1450. Con una introduzione sull'esame nell'università durante il medioevo, Bologna, Istituto per la storia dell’Università di Bologna, 1942; C. Piana (ed.), Il ‘Liber secretus iuris caesarei’ dell'Università di Bologna 1451-1500, Milano, Giuffrè, 1984; C. Piana (ed.), Il ‘Liber secretus iuris pontificii’ dell'Università di Bologna (1451-1500), Milano, Giuffrè, 1989.
[24] A.L. Trombetti Budriesi, L’esame di laurea presso lo Studio bolognese. Laureati in diritto civile nel secolo XV, in: G. Brizzi, A.I. Pini (eds.), Studenti e Università degli studenti dal XII al XIX secolo, «Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna», n.s. VI (1988), 139-191. In particolare si confrontino le tabelle riportate alle p.182-183. Per il periodo successivo mi sono avvalsa del lavoro di schedatura condotto sui laureati in diritto civile e canonico fino al 1796: M. T. Guerrini, ‘Qui voluerit in iure promoveri …’. I laureati in diritto nello Studio di Bologna (1501-1796), cit.
[25] L’unica eccezione è stata registrata nel corso degli anni Quaranta del Quattrocento quando, in occasione della laurea di Ludovico Antonio Galli Bibiena, Carlo Giuseppe Negrini e Antonio Giorni laureatisi in utroque iure, i primi due, il 25 giugno 1743 e l’ultimo a tre giorni di distanza, dai verbali di laurea emerge la menzione alla dispensa concessa a costoro in quanto considerati eccedenti rispetto al numero di bolognesi previsti per quell’anno: M. T. Guerrini, ‘Qui voluerit in iure promoveri’, schede 8871, 8872, 8873.
[26] M.T. Guerrini, ‘Qui voluerit in iure promoveri’, cit., 57-76.
[27] G. Brizzi, La formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento. I 'seminaria nobilium' nell'Italia Centro Settentrionale, Bologna, Il Mulino, 1976.
[28] Previste dagli Statuti del Collegio di diritto canonico e civile del 1591 alla r. 21 e descritte in maniera dettagliata da A. Dallolio, Il collegio Comelli in Bologna, cit., 85: «Dando le colazioni a SS.ri dottori devono essere un piatto reale ciascheduno di maiolica fina con un paio di guanti di Roma. N. 4 pani di zuccaro di libbra 1 veneziana, e n. 12 candele di cera veneziana di once 3 l’una, e più alli ministri che sono n. 11, cioè 4 bidelli, 3 nottari, custode del Collegio, sagristano, sotto sagristano, e campanaro di S. Pietro, un piatto di capone di maiolica fina con un paio di guandi di Roma, due pani di zuccaro di libbra 1, e n. 6 candele di cera di Venezia di once 3 l’una a ciascheduno».
[29] Si segnala a questo proposito il rifiuto ricevuto nel 1736 da Michele Girolamo Zocca il quale il 23 aprile di quell’anno, essendo prossimo all’esame di laurea, presentò la richiesta di astenersi dal pagamento delle colazioni. Il 27 aprile i Collegi dottorali espressero un parere negativo e quindi il 7 maggio 1736 Michele Girolamo si addottorò more civium sostenendo il costo completo delle spese previste: ASBo, Studio, Libro segreto del Collegio di diritto civile, b. 147, c. 76r-v.
[30] ASBo, Studio, Atti del Collegio di diritto civile, b. 38, c. 47v, 29 maggio 1598.
[31] ASBo, Studio, Atti del Collegio di diritto civile, b. 38, c. 51v, 18 giugno 1598.
[32] ASBo, Studio, Atti del Collegio di diritto canonico, b. 45, c. 75r, 12 maggio 1637.
[33] Constitutiones Sacri Collegii doctorum iuris civilis civitatis Bononie, in C. Malagola, Statuti delle Università e dei Collegi dello Studio bolognese, anno 1397, r. 10 e 12; Constitutiones Sacri Collegii iuris pontifici civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11; Constitutiones almi Collegii iuris civilis inclitae civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11.
[34] M. Fanti, Una memoria per l’antica sede dei Collegi dei dottori dello Studio bolognese, «Strenna storica bolognese», 46 (1996), 321-327.
[35] La votazione era considerata valida se vi erano presenti almeno sette dottori collegiati: Constitutiones Sacri Collegii iuris pontifici civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11; Constitutiones almi Collegii iuris civilis inclitae civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11.
[36] A. Gaggi, Collegii bononiensis doctorum pontificii scilicet et caesarei iuris origo et dotes, cit.
[37] S. Di Noto Marrella, ‘Doctores’. Contributo alla storia degli intellettuali nella dottrina del diritto comune, Padova, CEDAM, 1994, vol. I, 160.
[38] Gli Statuti si esprimono chiaramente a proposito di tale questione prescrivendo come ‘forensis autem si quis vellet’: Constitutiones almi Collegii iuris civilis inclitae civitatis Bononiae e Constitutiones Sacri Collegii iuris pontifici civitatis Bononiae, anno 1591, r. 11, ‘De aetate et qualitate ac ordine examinandorum’. Sono pochi i forestieri in età moderna che decisero di sottoporsi anche all’esame pubblico, per lo più ascrivibili ai primi anni del Cinquecento.
[39] ‘... bononiensis ... teneatur ex quo cum eo non fuisset dispensatum iuxta solitum per omnia alba suffragia de non subendo dicto publico examine’: Ivi.
[40] Il dato è riportato da A.L. Trombetti Budriesi, L’esame di laurea presso lo Studio bolognese, cit., 182-183
[41] Già dagli inizi del ‘600 nei verbali di laurea ricorre con frequenza il richiamo, ormai entrato a far parte della consuetudine, alla concessione della dispensa dalla pubblica, così come testimoniano gli atti redatti in occasione del dottorato di Antonio Maria Roffeni (ASBo, Studio, b. 132, Libro segreto del Collegio di diritto canonico, c. 70, 1613: ‘fuit dispensatum super publica de more’) e di quello conferito ad Alessandro Ghisilieri (Ivi, c. 194, 1639: ‘dispensatus prius a publica ut moris est’).
[42] Sia Tommaso Campeggi (laureatosi il 9 agosto 1512: M. T. Guerrini, ‘Qui voluerit in iure promoveri’, cit., n. 212), sia Lelio Ruggeri (addottoratosi il 23 giugno 1561: M. T. Guerrini, ‘Qui voluerit in iure promoveri’, cit., n. 1770).
[43] Memorie per riparare i pregiudizi dell’Università dello Studio di Bologna, cit., 2.
[44] Responsabile fin dal medioevo delle nomine dei lettori.
[45] Delle tesi finali a stampa si sono fino ad oggi occupati A. Sorbelli, Intorno alle prime tesi universitarie a stampa, «Gutenberg Jahrburch», 1941, 118-125; C. Salterini (ed.), L'archivio dei Riformatori dello Studio, cit.; Z. Zanardi, Bononia manifesta. Catalogo dei bandi, editti, costituzioni e provvedimenti diversi, stampati dal XVI secolo per Bologna e il suo territorio, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1996, 19; Id., Ancora sulle tesi dei lettori dello Studio bolognese: una raccolta sconosciuta del XVI secolo, «La Bibliofilía», 105/2 (2003), 117-166.
[46] ASBo, Senato, Partiti, vol. 11, f. 131, 20 septembris 1586, ‘Studii rotolorum seu constitutionum reformationis approbatio’.
[47] Alla volontà dei dottori interessati ad acquisire l’abilitazione all’insegnamento pubblico.
[48] ASBo, Assunteria di Studio, Leggi e decreti sullo Studio, b. 1, ‘Parere del dott. Vezza e d’altri intorno allo Studio e alle ordinazioni fatte e stabilite dal card. Gaetani’.
[49] Ivi.
[50] Ivi, ‘Lettera a monsignor vicelegato Borghese’.
[51] Ivi, ‘Rilatione in Senato dei signori Assunti allo Studio’.
[52] Ivi.
[53] Ordinationi fatte et stabilite per conservare le dignità et reputatione del Studio di Bologna, Bologna 1641, par. 2.
[54] Ivi, par. 11.
[55] Ordinazioni rinovate e rispettivamente riformate per conservare la dignità e riputazione dello Studio di Bologna, Bologna 1713.
[56] ASBo, Senato, Filze, n. 7, c. 305. La notizia è riportata da G. Angelozzi – C. Casanova, Diventare cittadini. La cittadinanza ‘ex privilegio’ a Bologna (secoli XVI-XVII), Bologna, Comune di Bologna, 2000, 81.
[57] Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Gozzadini, ms. 105, Nota di quello occorre di spesa et altro per occasione d’un sig. dottore leggista che voglia difendere conclusioni su le publiche Scuole di Bologna.
[58] ASBo, Studio, Università unite, Stampe varie dell’Università, b. 413.
[59] ASBo, Assunteria di Studio, Requisiti dei lettori, b. 92-121.
[60] ASBo, Studio, Registri dei processi di aggregazione ad ambo i Collegi, b. 96-107 (1506-1662); Registri dei processi di aggregazione al Collegio canonico, b. 108-116 (1670-1790); Registri dei processi di aggregazione al Collegio civile, b. 117-125 (117-125).
[61] ASBo, Riformatori dello Studio, Tesi e dispute di scolari e dottori, b. 58; Tesi e conclusioni dei lettori legisti e artisti, b. 60-61-62.
[62] Alcune copie si sono poi conservate anche presso ASBo, Studio, Università dei leggisti, Recapiti, b. 367-371; presso Università unite, b. 413-413 ter.; e in Studio, Collegi legali, b. 159: ‘Dediche di conclusioni ai Collegi e all’Accademia dei Gelati’.
[63] Dai primi decenni del Settecento fu imposto l’obbligo di dedicare le conclusioni finali unicamente al vessillifero di giustizia, agli anziani consoli e ai senatori bolognesi, abolendo la dedica a qualsiasi altro personaggio eminente.