Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

La pasta come stereotipo della cucina italiana. Patrimoni simbolici e identità nazionale nell’Italia del Novecento

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Abstract

Pasta is probably the most important and famous element in the Italian cuisine. The pasta has, in the past two centuries, become a symbol of Italy and it's elementary culture world wide, starting with the massive Italian immigration to the USA. It has at the same time been an important contribute to the creation of a national identity for the Italian population. Playing a central role in this process, the possibility of mass consumption as a result of the economical changes in the second half of the twentieth century is anyhow the main reason for it's success.

Introduzione

La cucina di un territorio, di una nazione è sicuramente un’espressione della sua cultura, della sua evoluzione economica, in una parola della sua storia. A partire da tale assunto la diffusione e il consolidamento del consumo di pasta secca di produzione industriale nel periodo a cavallo fra XIX e XX secolo, rappresentano un fenomeno dalle chiare valenze identitarie sul quale può essere interessante interrogarsi per arrivare a comprendere quale tipo di Italia si esprima attraverso una tale scelta d’uso.
L’analisi potrebbe essere condotta in svariate forme. Questo saggio si pone l’obiettivo di affrontare il tema facendo in modo che diversi scenari si aprano uno dopo l’altro, come in una “naturale” sequenza.
Il primo che si pone all’immediata ribalta è quello della crescita dei comparti industriali che permisero la lenta strutturazione di un’economia moderna e di mercato, con le evidenti conseguenze che ciò comportò sulla vita quotidiana e le abitudini collettive.
Già in età giolittiana l’Italia aveva conosciuto un progresso economico di un certo rilievo che l’aveva condotta al raggiungimento di un relativo dinamismo nei rapporti con l’estero e al risveglio di sopite energie sociali e culturali. In modo più accentuato, la parte settentrionale della penisola aveva respirato il clima apparentemente sereno e fiducioso in un prospero avvenire dell’Europa occidentale: quello dell’illusione di un progresso senza incrinature, nell’interdipendenza delle economie. Ma l’illusione si era presto rivelata per ciò che era: il periodo fra le due guerre mondiali rappresentò una radicale battuta d’arresto, tanto che è solo con l’avvento del boom economico che si può iniziare a parlare di un consistente mutamento della realtà italiana.
In primo luogo, lo stacco emerge con il tramonto definitivo della società contadina. Non si tratta di un processo veloce e radicale, ma alla fine degli anni Cinquanta è immediatamente evidente come le sfere dell’immaginario collettivo tendano a sganciarsi dalla campagna e dai suoi ritmi, per approdare verso una realtà più complessa, di non facile gestione né per la società nel suo complesso né per i singoli individui. L’impressione dello studioso che si immerge nella temperie di questa fase storica è quella di trovarsi di fronte ad una nazione in preda ad una specie di vertigine in cui, ad un primo impulso volto ad un’immersione subitanea nelle dimensioni di modernità e benessere, si accompagna la sotterranea percezione di subire, nello stesso tempo, una perdita d’identità. Lo slancio è travolgente: durante gli anni del boom il passato sembra quasi non lasciare alcuna traccia di sé, sostituito da un frenetico entusiasmo per il progresso che pare essere l’unica dimensione dotata di senso positivo. Ed è proprio nel centro di tale fermento che si appunterà lo sguardo.

Un alimento identitario tra sogni e realtà (Anni Cinquanta e Sessanta)

Entrando più direttamente nel contesto della storia dell’alimentazione, notiamo come esattamente verso la fine degli anni Cinquanta la tavola degli italiani si vesta di abbondanze inedite e, a volte, volutamente eccessive. È come se, in un paese da secoli abituato a gestire la penuria di cibo, solo l’ostentazione del consumo possa rappresentare il lasciapassare per entrare di diritto nel novero delle nazioni fortunate e moderne. Così, dopo decenni di privazioni, ciò che l’Italia coglie maggiormente e ad un livello ampiamente generalizzato della modernità, è la disponibilità di merci, piaceri, surplus. Non si tratta tanto di una scelta ma di un dato derivante dalla contingenza. L’unificazione italiana è un processo che sappiamo benissimo essere avvenuto con lenta gradualità e certo la nascita di una cultura che possa definirsi nazionale in senso decisamente allargato può essere osservata solo nel quindicennio successivo la fine della seconda guerra mondiale.
Pur in un quadro generale di effettiva crescita non è comunque possibile generalizzare. Non è affatto vero che l’abbondanza sia una reale disponibilità per tutti, anche se una buona parte della media e piccola borghesia riesce, più o meno agevolmente, a raggiungere risultati insperati fino a venti anni prima. Eppure, al di là delle difficoltà, conta evidenziare come, anche laddove fame e penuria continuano ad essere delle costanti, si diffonde un immaginario di surplus, di accessibilità e di occasioni per recuperare [1].
Spesso sono le fonti cinematografiche e letterarie a mostrare meglio di altre la dicotomia evidenziata. Se prendiamo, tanto per fare alcuni esempi di rilievo, la Ricotta di Pier Paolo Pasolini o Viaggio in Italia di Guido Piovene, ci rendiamo immediatamente conto di quanto il reale faccia fatica a tenere il passo dell’immaginario. E di come permanga una massa di diseredati, dalle caratteristiche del tutto nuove rispetto al passato, con la costante peculiarità di essere invischiati in una condizione di assoluta miseria. In ogni caso – e bisognerebbe riflettere su quanto tutto ciò possa essere considerato una delle peculiarità del boom economico italiano – quella che si respira è un’atmosfera di ottimismo generalizzato che, pur laddove non risulta fondata da sostanziali presupposti, è in qualche modo il fulcro attorno al quale il miglioramento viene evocato.
In un contesto di tal genere la pasta si impone come alimento identitario, anche e soprattutto perché ben si presta a soddisfare una vasta mole di vantaggi: è un cibo dall’alto valore simbolico fin da tempi piuttosto remoti e quindi depositario del valore della continuità, ma è anche economico, di ottima soddisfazione saziante e nutrizionale, di facile preparazione domestica, di produzione industriale. Il maccarone non è, in questo senso, semplice alimento, ma diventa oggetto, oggetto-merce se vogliamo essere più esatti, su cui è possibile innestare una vasta operazione di identificazione nazionale. Si può affermare che la pasta diventa simbolo, oggetto stereotipico, di una nazione che si pone nel novero dei paesi che hanno raggiunto la modernità attraverso una modalità del tutto particolare: quasi a voler rivendicare per sé un tratto popolare che, pur non cancellando i valori della borghesia, li integra [2].
Per meglio approfondire quanto appena espresso occorre fare un piccolo passo indietro e tornare al 1891, anno di pubblicazione de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi. In quello che è considerato il ricettario italiano per antonomasia, punto di riferimento della cultura gastronomica del paese, i piatti di pasta quasi non sono menzionati e, in generale, la tradizione gastronomica meridionale è ampiamente sottovalutata quali pietanze della tradizione tipica della cucina nazionale.
Così se è evidente che il ricettario artusiano rimane ancor oggi un fondamentale punto di riferimento della cultura gastronomica italiana, è giusto sottolinearne la dimensione smaccatamente borghese e per lo più tardo ottocentesca, costituita da una realtà domestica e culturale del tutto diversa da quella osservabile alla metà del XX secolo, quando è il popolo che in un certo senso trascina nel proprio rito gastronomico le classi più abbienti, investendole della propria cultura materiale, del proprio gusto. È vero che a partire da Pellegrino Artusi si può parlare di modello alimentare italiano, ma solo nel senso di considerarlo quale esperimento riuscito nella codificazione di un modello che si radica lentamente nel corso del Novecento, anche attraverso processi del tutto estranei alla logica dei ricettario stesso. La presenza di scuole e caserme – che prevedono un servizio di refezione collettiva – sull’intero territorio nazionale è uno dei tanti esempi che possono essere menzionati per cogliere la complessità di una genesi che non può essere imputata ad un solo fattore.
Resta da capire cosa si intende per cultura materiale e gusto del popolo italiano negli anni del boom economico. Certo è facile farsi tentare dall’interpretazione più ingenua, assumendo che possa esistere un legame diretto fra il gusto del consumatore e la tradizione che quel consumo cristallizza nel tempo. Ma nessuno studio di fonti avvalora tale ipotesi.
Si tratta allora di entrare nella logica di un processo complesso, fitto di interrelazioni, i cui agenti caratterizzanti sono la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e la successiva promozione del consumismo tipica dell’epoca. Un fenomeno la cui portata va oltre i confini del nostro territorio nazionale, eppure sarebbe riduttivo equiparare la situazione italiana a quella di altri paesi occidentali. Se considerassimo come termine di paragone la Francia, ad esempio, potremmo osservare come l’immaginario gastronomico-alimentare transalpino fosse caratterizzato da un modello unitario già capillarmente diffuso, sia in senso territoriale che sociale, già dall’Ottocento. In Italia il clima è del tutto diverso: la crescita dei consumi pare innestarsi su un terreno quasi vergine tanto che il mutamento viene percepito come epocale, fondante, scarsamente collegato al passato.
In questa delicata transizione il cinema e la televisione svolgono un compito basilare, che è quello di generalizzare e diffondere l’idea stessa di benessere e portare alla ribalta dei consumi anche gruppi sociali che fino a quel momento non ne avevano beneficiato. Tutto ciò in un clima, politico, culturale e sociale incline ad un relativo appiattimento, ad una sorta di abbassamento del livello del discorso; laddove, invece, la cultura italiana ufficiale, per consuetudine diffusa e prevalentemente ottocentesca, aveva piuttosto teso ad un certo elitarismo.
Prima degli anni Cinquanta solo il fascismo si era interessato alle logiche di funzionamento della società di massa, senza che ciò comportasse il sedimentarsi di significative eredità culturali o sociali. Per lo meno a livello cosciente.
In seguito le particolari difficoltà generatesi durante la seconda guerra mondiale avevano contribuito a diffondere la percezione di un disagio che non era più semplicemente appannaggio dei soli diseredati: la borghesia stessa aveva sperimentato la fame, la disperazione, il razionamento. È fondamentale evocare il clima di miseria che si respirava in Italia alla fine degli anni Quaranta per poter comprendere appieno le modalità della crescita che seguì un decennio più tardi, proprio a partire dal settore alimentare.
Così lungamente rimandata e sospirata la trasformazione ebbe un impatto di rilievo: negli anni del miracolo economico la nazione venne investita da un vento di rinnovamento che sconvolse le abitudini a partire dalle basi stesse dell’esistenza.

L’espansione del mercato: emigrazione transoceanica e Grande Guerra

Passando ad esaminare lo specifico del comparto produttivo pastario, osserviamo come già all’inizio del XIX secolo si era assistito al consolidarsi di alcune realtà di produzione industriale di pasta secca: Agnesi, Buitoni, Barilla, De Cecco avevano esordito come attività semi-artigianali di trasformazione della materia prima grano, per poi lentamente risalire la china all’interno di un mercato che, legato per lo più all’autoconsumo tipico della società rurale, possedeva una scarsissima propensione alla crescita [3]. I primi veri segni di slancio e miglioramento si possono notare quando i nostri connazionali all’estero, all’indomani del massiccio flusso migratorio nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, iniziano a consumare pasta e, in generale, prodotti tipici delle loro terre d’origine. Gli emigranti italiani negli Stati Uniti, catapultati in una condizione di relativo benessere, recepiscono immediatamente il modello di incentivo al consumo statunitense, orientandosi, però, su prodotti legati alla propria cultura [4]. Il contadino meridionale appena inurbato sente la necessità di ricostituire un ambiente domestico, quasi paesano, di cui la tavola imbandita dai prodotti della propria terra diventa il simbolo. Attraverso il cibo si attua un’operazione di resistenza all’assimilazione che solo l’evocazione del ricordo struggente e nostalgico della propria terra rende possibile: mangiare le stesse cose, in certi periodi dell’anno e in occasione di particolari festività, costituisce una pratica sociale in grado di rimuovere le frustrazioni causate dallo statuto di minoranza etnica. Gli emigranti, in maniera più rilevante degli italiani che vivono in patria, contribuiscono a far crescere e radicare le attività semi-industriali legate alla trasformazione dei prodotti tipici, che il mercato interno con scarsa probabilità avrebbe potuto mantenere in vita.
Potrebbe apparire paradossale ma alcuni dei riferimenti obbligati della nostra cultura gastronomica presentano una genesi più estera che peninsulare. Del resto non è così difficile comprenderne il motivo: i primi italiani che si sono trovati catapultati nella società dei consumi sono stati proprio coloro che dall’Italia sono stati costretti a fuggire per liberarsi dall’indigenza, e che nei luoghi d’arrivo hanno potuto affermare la propria identità attraverso la realizzazione di desideri d’abbondanza. Il modello alimentare che si impone è frutto dell’interrelazione fra le condizioni di miseria di partenza, la nuova realtà di abbondanza e disponibilità, e la contemporanea necessità di mantenere un vivo rapporto con la propria identità culturale e di gruppo anche grazie ad un processo che potremmo definire di rivendicazione. Sono proprio tali dimensioni, sovrapposte e mischiate insieme, che generano la consuetudine rituale alla base dell’ identità italo-americana [5].
È essenziale comprendere quale potente operazione identitaria si celi dietro l’idea di una cucina della tradizione che si radica nell’uso. Poiché è assolutamente evidente che se di cucina della tradizione dovessimo davvero parlare sulle nostre tavole ci sarebbero polenta, pane, erbaggi e poco altro [6] .
Le piccole e medie imprese pastarie a conduzione famigliare riuscirono a sopravvivere fino al XX secolo quasi esclusivamente grazie alle esportazioni e la loro relativa floridezza, legata del resto al bassissimo impatto dei costi fissi, permise alcuni miglioramenti nelle tecniche produttive. La prima guerra mondiale innestò un rinnovato slancio: per la prima volta nella sua storia l’esercito italiano si trovò impegnato nella necessità di sfamare milioni di soldati al fronte e proprio la pasta secca fu ampiamente utilizzata nella composizione del rancio. All’interno dell’economia di guerra alcune aziende, come ad esempio Barilla che era in posizione logistica perfetta per gli approvvigionamenti, conobbero una poderosa crescita.
Proprio l’economia di guerra, dunque, insieme all’emigrazione transoceanica furono fra i fattori che permisero al settore di trasformazione agro-alimentare (non solo di pasta, ma anche di olio, di conserve, biscotti e vino) di allenarsi alla sopravvivenza pur in presenza di un mercato interno ancora molto debole. Uno dei pochi in cui si svilupparono tradizioni e conoscenze: nelle scelte economiche, di marketing e di comunicazione che gli consentiranno, non appena in Italia si affaccerà un diffuso benessere, di avviare campagne pubblicitarie efficaci [7].
Nel settore agro-alimentare, pastario in particolare, fattori come la semplice disponibilità della materia prima, l’economicità incentivata da una sperimentazione ed innovazione già provate nel tempo, la promozione pubblicitaria, si congiungono con il mutamento del mercato verso una dimensione di massa, permettendo ai consumi di crescere velocemente.

La pasta in scena: Totò, Sordi e Carosello

Dietro il complesso processo che stiamo cercando di chiarire in poche battute si nasconde un’interessante operazione di promozione che rese possibile a dei “semplici” prodotti di assurgere al ruolo di merci. È pressoché impossibile pensare, o dimostrare, che ci potesse essere un voluto intento programmatico dietro ciò che l’industria dell’immaginario fece per promuovere le sue merci-feticcio, ma certo non si può negare che la cultura visiva di Carosello o di un certo cinema popolare, facesse volentieri leva su oggetti che avevano già il grosso vantaggio di essere mediamente riconoscibili.
Per comprendere appieno ciò che è accaduto occorre rimarcare la portata della fascinazione e della capacità di identificazione accelerate dall’enorme successo ottenuto da alcuni film i cui protagonisti possono essere considerati vere e proprie maschere della cultura popolare. Se prendiamo come soggetti emblematici Totò e Alberto Sordi, riscontriamo come il cibo, la pasta in particolare, diventi a volte protagonista centrale della scena, oggetto di ficcante immediatezza, senza il quale la stessa rappresentazione del personaggio diventerebbe più difficile da inserire all’interno di un quadro certamente stereotipico, ma proprio per questo motivo altamente identificativo.
Si possono fare almeno due notissimi esempi per chiarire la logica del meccanismo di cui parliamo. In Miseria e nobiltà del 1954, Totò festeggia la fine di un periodo di fame e miseria mangiando gli spaghetti in piedi sul tavolo, allo stesso modo in cui lo farebbe Pulcinella : prendendoli con le mani e facendoseli cadere in bocca. È così che viene attualizzato un autentico rituale, consacrandolo, rendendolo disponibile e fruibile ad un pubblico moderno come quello cinematografico. Resta chiaro che non vi è nulla di originale in tutta la scena, che di per sé è una semplice riproposizione di un classico quadro popolare della realtà partenopea [8]. Ma è il nuovo contesto mediatico a cambiare le carte in tavola, poiché la struttura di fondo acquisisce un significato ulteriore, pienamente inserito nel quadro della continuità in cui la maschera ed il suo cibo rituale vengono trasformati, modernizzati.
Tale ragionamento può esser colto ancor meglio andando a curiosare nella genesi di uno dei programmi televisivi più interessanti della nostra storia: Carosello. Il titolo fu quasi sicuramente scelto riecheggiando un celebre film musicale, Carosello napoletano di Ettore Giannini del 1954, che era costruito proprio sulle visioni idilliache e popolari della Napoli di primo Novecento. In più, nella matrice stessa della parola la lingua italiana e il dialetto napoletano si intersecano, stratificando diversi significati e creando rimandi interni. In italiano il carosello è la parata militare, in napoletano sta ad indicare un antico gioco di origine araba o il classico salvadanaio di creta o ancora il nome dei bambini che popolano i vicoli della città. In modo identico anche in Carosello si assiste ad una parata di messaggi pubblicitari che sono rivolti il più delle volte ai bambini e che in generale hanno un sicuro intento ludico, senza però mai dimenticare l’esortazione al risparmio, alla prudenza borghese.
Ma il riscontro di forti rilievi culturali partenopei nella logica di Carosello non si ferma qui: la sigla del programma propone al suo interno uno dei più famosi scorci del lungomare napoletano ed è accompagnato da un motivo – composto da Luciano Emmer – che riecheggia le sonorità di una tarantella. Nel ventennio dal 1957 al 1977, periodo di trasmissione del programma pubblicitario, gli italiani che possiedono un televisore entrano nella modernità mediatica e dei consumi attraverso un contenitore fortemente connotato, nella scia di una tradizione in cui è evidente il richiamo ad una struttura narrativa tipica della Commedia dell’Arte che non accetta i dettami del modello pubblicitario americano. In Carosello, a differenza che nel cinema dove sull’etica predomina sempre l’estetica, l’intento programmatico è forte ed innegabile. La Rai – che, non dobbiamo dimenticare, è televisione di Stato – crea uno spazio rassicurante che permette ad una provinciale ed un po’ingenua realtà nazionale di entrare nel mondo dei consumi di massa attraverso il suggestivo modello, contemporaneamente popolare e colto, della mediterraneità, di cui la città di Napoli diventa punto di riferimento imprescindibile.
Ma torniamo al cinema e passiamo all’Alberto Sordi di Un americano a Roma del 1954. La scena si sposta nella capitale che, proprio in quegli anni, sta subendo una trasformazione radicale per avviarsi a diventare punto di riferimento dell’Italia televisiva e cinematografica: luogo di elaborazione di un immaginario potente, costruito con i materiali della tradizione ma rielaborato attraverso l’uso di nuovi media. Città in costante crescita demografica, legata sempre più a funzioni amministrative e burocratiche che attirano a sé una mole impressionante di piccola borghesia impiegatizia la quale le impone le proprie abitudini domestiche, il modo di abitare, vivere, divertirsi. È proprio a Roma che i tratti originari dalle forti radici popolari si incontrano con la borghesia degli uffici, dando vita ad un’identità originale segnatamente italica. Mai completamente popolare, mai del tutto borghese. Ci troviamo qui di fronte ad un personaggio che ha in sé dei tratti metastorici e stereotipici – basterebbe citare Giuseppe Gioacchino Belli e la sua introduzione ai Sonetti per comprendere l’immobilismo che caratterizza l’anima stessa della plebe romana – ma in una maniera del tutto originale. Il giovane popolano romano con ambizioni di ascesa sociale si trova a contatto con una cultura, quella americana, che lo affascina e lo attrae. Apparire americano è considerato un punto di arrivo, la prova della propria capacità di rinnovarsi, distinguersi. Ma c’è un contesto in cui tale sforzo di rimozione delle proprie origini non può riuscire: è esattamente quello della tavola. Davanti a una porzione di spaghetti già freddi e quindi neanche davvero appetitosi, il personaggio Nando Meniconi soccombe, dimentica i suoi propositi e si butta sul piatto con piglio netto e forte: da abbuffata. È importante puntare l’attenzione alla qualità del gesto che deve essere interpretato come il retaggio di una fame atavica di cui Antonio De Curtis e Alberto Sordi sono ugualmente testimoni. Ma, soprattutto nel film che ha Sordi come protagonista, lo spaghetto riassume la dicotomia fra il desiderio di cambiamento e la volontà di non perdere le proprie radici, in una dimensione dinamica in cui allo stesso personaggio appare chiaro il mutamento intervenuto nella sua esistenza.
Diventa qui evidente come la scelta dell’alimento che si fa di per sé testimone di tale pregnanza di significato non possa essere indifferente: il piatto di pasta è oggetto attorno a cui si costruisce un senso condiviso, senza bisogno di ulteriori suggestioni. Le due scene, ancora oggi rappresentazioni quasi mitiche di una forte identità riconosciuta anche dalle giovani generazioni, costituiscono, a ben vedere, il necessario contraltare alle campagne pubblicitarie che promuovono il consumo di pasta negli anni di Carosello.
Esistono, dunque, alcuni alimenti sul mercato che sono dotati di una sovraesposizione nel contesto dell’immaginario, una fascinazione ulteriore, uno scarto identitario rispetto allo loro semplice oggettività [9]. Non potrebbe spiegarsi altrimenti il motivo per cui un prodotto tradizionalmente meridionale riesca a diventare simbolo della nazione intera, diffondersi con relativa rapidità nel paese, diventare veicolo di ricezione di una unità in un certo senso mai raggiunta prima [10]. Se gli italiani sono sempre stati un popolo deficitario di uniformità e di identità nazionale, non si può negare che ci siano stati momenti e temi, per lo più legati alla cultura materiale e all’immaginario che da essa si genera, che hanno contribuito a creare occasioni di condivisione uniforme, generalizzata, de-territorializzata.
È evidente come una simile affermazione possa apparire vagamente prosaica e forse riduttiva rispetto ad una situazione reale sicuramente più complessa, ma il rischio di sfiorare e magari sfondare il contesto della banalità diventa spesso la norma ogniqualvolta si affrontano i temi della cultura materiale [11]. Nonostante ciò, al di là di ogni rischio, è innegabile come per gli italiani il cibo abbia spesso agito come medium privilegiato per la trasmissione di valori. Tanto che ancora oggi, assieme al sistema moda, il modello della cucina italiana vanta lo statuto di gloria patria, di biglietto di presentazione all’estero [12].

Da Napoli a Milano: alimentazione e identità nazionale nel secondo dopoguerra

Per dare un quadro davvero completo dei motivi per i quali il Novecento possa considerarsi momento di trionfo della pasta nella dieta degli italiani, rimangono ancora da analizzare i nodi centrali dell’urbanizzazione e dei movimenti migratori interni. Il necessario complemento, o forse sarebbe meglio dire il vero motore del boom economico, era la crescita produttiva che creò il triangolo industriale: vera e propria locomotiva trainante del miracolo. Miracolo che non sarebbe mai avvenuto senza il contenimento del costo del lavoro che l’Italia poté mantenere per lunghi anni solo grazie alla presenza di un serbatoio di manodopera non specializzata – per lo più proveniente dalle campagne più depresse e dal Sud – tendente ad impedire il configurarsi di una conflittualità salariale che rimase pressoché un’utopia almeno fino alla fine degli anni Sessanta.
Fu in città come Torino o Milano che i contadini meridionali si trasformarono in operai, ma il loro sradicamento dalle terre d’origine non comportò passiva subalternità alle logiche di una cultura agli antipodi come quella settentrionale. Il fenomeno della migrazione interna, a volte sottovalutato dalla storiografia italiana dell’alimentazione, è stato probabilmente uno dei punti cruciali su cui si è giocata la carta dell’identità alimentare unitaria. Se è, infatti, certamente vero che il Nord Italia ha puntato molte delle sue carte sulla modernizzazione economica del paese, è altrettanto vero che dal punto di vista culturale, nel senso simbolico e dell’immaginario, ha costruito, almeno nel corso del XX secolo, molto meno del Sud.
E ciò è in parte accaduto proprio perché le città del Nord hanno costruito se stesse utilizzando materia prima che proveniva da un altrove lontano e davvero differente. Già gli antropologi hanno ampiamente dimostrato come nella logica delle costruzioni simboliche collettive la nostalgia, intesa come volontà di ritorno a una non meglio definita origine, possa agire da potente leva. Nel fenomeno della migrazione interna la resistenza individuale e famigliare ad un ambiente considerato estraneo e ostile, ha avuto come conseguenza la messa in moto di prepotenti valenze evocative della propria identità. Così se è vero che il tessuto tradizionale del Mezzogiorno si frantuma nella sua realtà territoriale di partenza, in verità ciò non significa che scompare, ma piuttosto che si sposta per spendersi come moneta corrente alle logiche del discorso identitario collettivo.
Come già era accaduto ai loro nonni che erano migrati oltreoceano a cavallo fra XIX e XX secolo, anche i meridionali emigrati al Nord a metà del Novecento riscoprono nella cucina prima e nella famiglia poi il nucleo attorno cui costruire la resistenza all’assimilazione [13].

Conclusioni

È dunque possibile sostenere che la vocazione identitaria della pasta possa essere il motivo, unico o prevalente, del suo trionfo?
La risposta è certamente negativa e si è qui cercato di mostrarlo. Come hanno più volte evidenziato gran parte degli storici dell’alimentazione, nessun alimento riesce a sopravvivere a lungo nell’uso se non è adattabile alle circostanze di vita di colui che lo consuma. Come era già accaduto nella Napoli del XVII secolo i maccheroni dimostrano la loro capacità di essere sintesi perfetta di economicità, disponibilità al consumo e cultura: qualità di cui anche l’Italia del XX secolo si avvantaggia, soprattutto quando, a partire dagli anni Sessanta, prende il via la rivoluzione nel campo della distribuzione, compaiono le prime catene di supermercato e le donne, sempre meno relegate ad un ruolo puramente domestico, hanno la necessità di un cibo di gusto ma anche di semplice e veloce preparazione.
Nessun presupposto esclusivamente culturale avrebbe mai potuto prevalere sulla necessità di un alimento che fosse conforme alle necessità di un tempo storico, di una società in mutamento. Anche se rimane evidente che la ricchezza culturale di un cibo agisce sempre come valore aggiunto per la sua diffusione.

Note

[1] In realtà è giusto notare come il meccanismo che stiamo osservando sia del tutto usuale nel campo delle evoluzioni dei sistemi alimentari. In generale quando un modello nutrizionale esce da situazioni di perenne scarsità tende immediatamente ad arricchirsi di componenti psicologiche e morali. L’analisi di tale interrelazione, un tema classico nello studio dell’alimentazione, può essere ricostruita grazie ad approfondimenti di storici, sociologi e antropologi. Solo per citare un esempio fra i più famosi pubblicati in Italia, si può citare M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1999.

[2] Le abitudini alimentari non hanno mai cessato di essere terreno di distinzione e di assimilazione sociale. Vedi P. Bourdieu, La Distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, il Mulino, 2000.

[3] Per approfondire le modalità di crescita, soprattutto tecnologica, dell’industria pastaria si veda F. Sabban, S. Serventi, La pasta. Storia di un cibo universale, Roma-Bari, Laterza, 2000.

[4] Processo di assimilazione e resistenza che è stato ben analizzato in D.R. Gabaccia, We are what we eat: ethnic food and the making of Americans, Cambridge, Harward University Press, 1998.

[5] La sociologia ha ben approfondito l’importanza della cucina per la costruzione identitaria dei popoli, soprattutto nei momenti di transizione. Per questo si veda M. Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Bologna, il Mulino 1985 o anche I, Cook, P. Crang, The world on a plate: culinary culture, displacement and geographical knowledge, in «Journal of Material Culture», 1 (1996), 131-54.

[6] Per comprendere le condizioni alimentari degli italiani fra XIX e XX secolo si veda P. Sorcinelli, Gli Italiani e il cibo, Milano, Bruno Mondadori, 1999.

[7] Le industrie produttrici di pasta avevano già sperimentato, fin dall’inizio del secolo, campagne pubblicitarie ricorrendo a raffinata cartellonistica, concorsi a premi, raccolte di figurine.

[8] Un’analisi storica insuperata su Napoli come città capitale dei maccheroni è sempre E. Sereni, I napoletani da “mangiafoglia” a “mangiamaccheroni”: note di storia di alimentazione nel Mezzogiorno (già in Cronache Meridionali, 1958, poi in Terra nuova e buoi rossi, Torino, Einaudi 1981), Lecce, Argo, 1998. Già nel saggio compariva un invito pressante dell’autore a considerare con sguardo critico quella che lui definiva la «metafisica dei costumi napoletani».

[9] R. Barthes è stato fra i primi ad evidenziare come il comportamento alimentare sia un vero e proprio sistema di comunicazione, inquadrabile non solo come attività svolta a soddisfare un bisogno, un piacere, una norma dietetica ma anche a rispondere ad esigenze latenti d’ordine estetico e psicologico. Emblematico a questo proposito è Pour une Psychosociologie de l’alimentation contemporaine, «Annales ESC», 16 (trad. it. in Scritti, Einaudi, Torino, 1961, 31-41). Un’utile sintesi sulle molte prospettive che il tema alimentare può aprire alle scienze sociali si può trovare in R. Sassatelli, L’alimentazione: gusti, pratiche e politiche, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 4 (2004).

[10] Una sintesi delle circostanze che hanno portato la pasta a cibo identitario nazionale si può trovare anche in F. La Cecla, La pasta e la pizza, Bologna, il Mulino, 1998.

[11] A proposito di tale rischio e della necessità di sfidarlo con gli opportuni strumenti metodologici si veda Daniel Roche, Histoire des choses banales. Naissance de la consommation dans les sociétés traditionnelles (XVIIe-XIXe siècle), Paris, Fayard, 1997 (trad. it.: Storia delle cose banali. La nascita del consumo in Occidente, Roma, Editori Riuniti, 1999).

[12] Una ricostruzione storica di lungo periodo su questo tema è certamente in A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari, Laterza, 2002; più legata invece all’idea di «dieta mediterranea» è V. Teti, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Roma, Meltemi, 1999.

[13] M. Filippa (a cura di), Il cibo dell'altro. Movimenti migratori e culture alimentari nella Torino del Novecento, Roma, Edizioni Lavoro, 2003.