Scendono ogni mattina, vanno a rubare il fuoco sacro, portandosi nelle viscere la solidarietà dei compagni e la paura della morte. Fra di loro non colleghi, soltanto compagni… Sveglia alle cinque per cominciare alle sei. Colazione senza padri, usciti come fantasmi discreti a guadagnare la pagnotta. Agli occhi dei bambini, attività segreta, misteriosa e magnifica, che divide l’umanità fra coloro che si alzano con il mondo, con il sole, e coloro che sono partiti prima dell’alba, grandi cospiratori[1].
Alla fine del XIX secolo, la Lorena entrò a far parte delle mete dell’emigrazione italiana. L’impressionante sviluppo dell’industria estrattiva e siderurgica, principalmente nei dipartimenti della Meurthe-et-Moselle e della Moselle, condusse numerosi migranti provenienti dalla penisola in queste terre. Gli stranieri, italiani ma anche belgi, lussemburghesi, polacchi e nordafricani, contribuirono in misura elevatissima ai successi industriali della regione sino agli anni ottanta del Novecento, quando la siderurgia lorenese entrò in una crisi irreversibile. Gli italiani, giunti a partire dal 1890, si mescolarono progressivamente, tra molteplici difficoltà e conflitti, ai lavoratori francesi e immigrati già presenti, andando a formare quella singolare forma di proletariato internazionale – e internazionalista, almeno in una sua parte – tipico della Lorena del ferro. La lunga tradizione migratoria della regione è stata spesso raccontata come un lungo percorso di accoglienza e fusione delle comunità nazionali diverse presenti sul territorio. Tale visione, sostanzialmente benevola nei confronti della comunità d’accoglienza, non deve tuttavia occultare le difficoltà, le battute d’arresto, i sentimenti xenofobi che resero la vita dei migranti spesso dura e dolorosa. Ripercorrere la storia delle migrazioni italiane in Lorena – tra il 1890 e il 1939 – significa anche porsi domande su alcuni aspetti peculiari della storia della regione. Una delle questioni riguarda la presenza della frontiera, luogo fisico e simbolico di contatto tra l’elemento nazionale e quello straniero, per capire se essa abbia giocato un ruolo – e quale – nei percorsi di integrazione degli italiani in Lorena. Il secondo aspetto su cui pare opportuno interrogarsi è il rapporto tra la classe operaia autoctona e quella immigrata, attraverso la mediazione delle organizzazioni sindacali. È, infatti, opinione condivisa che proprio nei sindacati vada ricercata una delle chiavi per spiegare il riuscito inserimento degli italiani nella società lorenese.
Gli anni del decollo industriale in Lorena e l’arrivo degli italiani
Nella prima metà dell’Ottocento, la Lorena era stata una terra prevalentemente agricola. La costruzione degli altiforni e l’introduzione del procedimento Thomas-Gilchrist modificarono strutturalmente e definitivamente il paesaggio e la vita sociale e politica della regione[2]. L’industrializzazione, che coinvolse le terre rimaste francesi e i territori annessi al Reich dopo la guerra franco-prussiana, ebbe come inevitabile corollario una richiesta sempre crescente di manodopera per l’estrazione del minerale e per la sua trasformazione. In una prima fase, fino al 1895-96, la domanda fu sostanzialmente contenuta e completamente soddisfatta dagli abitanti del territorio e dai frontalieri belgi e lussemburghesi. Spesso gli operai provenienti dal Granducato che si recavano nel territorio annesso vivevano, durante la settimana, nelle cités costruite dalle imprese, per poi tornare il sabato e la domenica nella propria abitazione al di là della frontiera[3]. Questi lavoratori sembravano così inseriti in uno di quei processi di mobilità circolare ben descritti dalla storiografia: ancor più, se si tiene conto delle profonde similitudini culturali e sociali tra loro e gli abitanti francesi dei due dipartimenti. In questo senso Piero Galloro ha fatto notare che belgi, lussemburghesi e abitanti dei bacini lorenesi appartenevano, in realtà, a una medesima regione geologica e produttiva, cui solo i conflitti e le necessità politiche avevano imposto delle frontiere. Tale situazione sembrava predisporre l’intera area, quasi naturalmente, alla mobilità transfrontaliera[4].
I primi italiani giunsero in Lorena solamente a partire dagli anni Novanta del XIX secolo, sancendo l’ingresso della regione tra le terre dei ritals [5]. Furono i lavori di costruzione e terrazzamento, sempre più necessari a causa della progressiva industrializzazione, ad accogliere i lavoratori provenienti dalla penisola italiana[6]. Il passaggio da un settore all’altro, tipico delle prime fasi di una migrazione non regolata, introdusse la manodopera italiana nelle fabbriche e, soprattutto, nelle miniere. In questa prima fase, quindi, il reclutamento dei lavoratori stranieri non fu organizzato dalle imprese siderurgiche. Solamente a partire dagli anni dieci gli industriali cominciarono, privatamente, a organizzare i flussi dall’Italia attraverso mediatori e agenti nella penisola. Nonostante tali tentativi, l’immigrazione spontanea restò la principale via d’arrivo degli italiani: reti migratorie si costruirono, conducendo molti immigrati provenienti dagli stessi villaggi dei primi arrivati, nelle fabbriche della Lorena. Nel primo decennio del nuovo secolo venne così a costruirsi una struttura di mestieri che vedeva gli italiani concentrati principalmente nelle miniere, moltiplicatesi dal 1902 nel bacino di Briey, lasciando le imprese siderurgiche al quasi monopolio degli operai francesi e di quelli belgi e lussemburghesi[7].
Una delle caratteristiche principali degli occupati nel settore estrattivo-siderurgico della regione fu, secondo molti studi, l’estrema mobilità nel periodo prebellico. I datori di lavoro cercarono in ogni modo di porre un freno al continuo turn over di lavoratori, attraverso la creazione di opere sociali e città industriali da un lato e l’imposizione di una disciplina di fabbrica dall'altro[8]. Gli sforzi furono tuttavia poco ripagati, poiché, se nei periodi di crisi gli allontanamenti della manodopera erano scarsi, non appena la ripresa si palesava molti operai cercavano condizioni lavorative migliori. Alcuni studiosi hanno interpretato la mobilità dei lavoratori francesi e immigrati come una forma di resistenza alle nuove norme del lavoro industriale. Secondo altre analisi, tuttavia, il forte livello di turn over sarebbe stato al contrario il sintomo della capacità di adattamento degli operai alle nuove esigenze del mondo della fabbrica e della sua necessità di avere una manodopera flessibile. In entrambi i casi, la mobilità diffusa sembra relativizzare l’idea di una contrapposizione marcata tra lavoratori autoctoni e immigrati. Se è vero che, soprattutto nella prima fase di insediamento, la stabilità lavorativa degli italiani era minima, al punto che essi venivano considerati come le hirondelles che arrivano ad aprile e ripartono a ottobre[9], i dati esaminati da Piero Galloro sembrano fornire risultati differenti. Così la durata del soggiorno in fabbrica per il totale dei lavoratori, tra il 1890 e il 1914, era in media di 12 mesi. Gli italiani e i tedeschi vi rimanevano dai 6 agli 8 mesi, mentre i francesi, i belgi e i lussemburghesi circa 14. In questo senso la mobilità degli immigrati italiani, pur superiore a quella delle altre nazionalità, sembrava inserita in quella complessiva della classe operaia della Lorena[10].
Alla vigilia della Grande Guerra, 80.000 lavoratori italiani abitavano ormai in Meurthe-et-Moselle e nella Moselle occupata dai tedeschi. Come altrove si trattava di una popolazione proveniente principalmente dalle regioni del nord – Veneto, Piemonte, Lombardia – anche se esistevano già alcuni flussi dal centro Italia. Gli italiani erano presenti nelle aree minerarie della regione, nel bacino di Longwy e in quello di Briey in Meurthe-et-Moselle e nelle vallate dell’Orne e della Fensch in Moselle. La maggior parte di loro si concentrò in centri piccoli e grandi dei bacini minerari – come Auboué, Joeuf, Villerupt – che videro, già prima del conflitto, una presenza assolutamente straordinaria di immigrati provenienti dalla penisola. Le città principali giocarono un ruolo sostanzialmente secondario, anche se Metz fu un importante luogo di passaggio nonché luogo di impiego per gli operai del settore delle costruzioni. La guerra ebbe tuttavia, in questa regione di confine, un effetto ancora più drammatico che altrove: alla fine del 1914 solo una piccola minoranza di italiani – il 5% in Moselle e il 10% in Meurthe-et-Moselle – risultava ancora residente in terre ormai trasformate in campo di battaglia[11].
Nazionalismo operaio e sindacalizzazione prima del 1914
Il forte potere detenuto dai minatori nei primi anni della rivoluzione industriale, ottenuto grazie a forme d’équipe nell'organizzazione del lavoro in miniera, che rafforzavano la coesione del gruppo, era destinato a diminuire e a modificarsi con l’aumento della produttività e le ristrutturazioni complessive del sistema di produzione dell’acciaio. Gli italiani giocarono in questa complessa partita, che coinvolgeva il nascente movimento operaio e i nuovi imprenditori, un ruolo decisivo. Gli immigrati furono accusati, sin dal loro arrivo, di essere strumenti degli industriali del ferro che volevano, con la loro presenza, indebolire la classe operaia lorenese. Tale accusa, tipica degli atteggiamenti assai poco internazionalisti del movimento operaio della fine del secolo XIX, produsse, soprattutto in Meurthe-et-Moselle, un nazionalismo esacerbato che condusse anche a veri e propri scontri tra operai delle diverse nazionalità[12]. La xenofobia operaia era un fenomeno assai diffuso in tutto il paese, ma in questa regione assunse tratti ancor più accesi. I lavoratori della regione temevano, infatti, che la massiccia introduzione di manodopera straniera conducesse a una diminuzione dei salari e, cosa forse ancor peggiore, alla messa in discussione della loro autonomia e del loro potere contrattuale. Il nazionalismo operaio, in cui si mescolavano volontà protezionistiche, xenofobia tradizionale, sentimento antitedesco – qui molto forte a causa della vicinanza della frontiera e dell’occupazione della Moselle e dell’Alsazia – e antisemitismo, fu presente almeno sino al primo decennio del secolo Ventesimo e alcune sue tracce rimasero anche successivamente. Il sentimento xenofobo non riguardò, tuttavia, solo i ceti operai, ma anche larga parte delle classi medie, sobillate spesso dai giornali popolari. I datori di lavoro, in tale contesto, utilizzarono la xenofobia nei momenti di crisi congiunturale per espellere la manodopera in eccesso[13], ma ne furono anche parzialmente danneggiati, dovendo talora rinunciare all’assunzione di stranieri per non alimentare tensioni[14]. Complessivamente, tuttavia, la xenofobia non impedì l’ingresso di migliaia di italiani nella regione.
La storia della classe operaia nelle regioni minerarie non fu solamente costellata da scontri e dissidi xenofobi. Nel corso del primo decennio del Novecento, infatti, seppur assai lentamente, italiani e francesi contribuirono alla nascita di un sindacalismo, che, per quanto debole e frammentato, fu uno dei prodotti originali di queste terre. Fino ai primi anni del nuovo secolo, gli scioperi erano stati poco frequenti nella regione e avevano visto una partecipazione piuttosto modesta di lavoratori[15]. La nuova ondata di scioperi esplosa nel 1905 si caratterizzò, al contrario, per la tenacia degli scioperanti, la violenza diffusa e i legami stretti con la popolazione dei villaggi[16]. Le rivendicazioni erano quelle classiche, aumento dei salari e mantenimento della propria autonomia, anche se, come in tutta Europa, la febbre socialista della lotta di classe cominciò a diffondersi in queste terre. Artefici principali della diffusione delle nuove idee furono gli “agitatori”, come li definì la stampa conservatrice, socialisti e sindacalisti stabilitisi in Lorena ai primi del secolo. Tra loro vi erano alcuni esponenti della sinistra italiana come Tullio Cavallazzi, inviati dalla Società Umanitaria di Milano, spinti in quelle terre dal numero crescente di lavoratori provenienti dalla penisola[17]. Si compiva così una prima sindacalizzazione degli italiani, che pure pagarono duramente, con molte espulsioni, la loro partecipazione alla lotta. Il sostanziale fallimento degli scioperi del 1905-06 e la successiva revanche padronale indebolirono la classe operaia nel suo complesso[18], ma l’eredità del 1905 rimase nell’immaginario di tutti gli abitanti della Lorena. Esagerata e caricaturale appare, tuttavia, l’interpretazione secondo cui la sindacalizzazione della Lorena sarebbe stata quasi esclusivamente merito – o colpa – degli immigrati[19]. Gli italiani ebbero certo un ruolo importante in questo movimento, ma, come già Bonnet aveva fatto notare, gli scioperi coinvolsero anche imprese nelle quali non vi era, o era molto scarsa, una presenza immigrata[20]. L’idea secondo la quale sarebbero stati gli italiani a importare la lotta di classe era effettivamente stata sostenuta, all’epoca dei fatti, dai giornali borghesi che chiedevano che la situazione fosse risanata a colpi di espulsioni. Era però questo il disperato tentativo delle parti più retrograde del ceto politico e culturale che non volevano vedere la crescente organizzazione sindacale anche in una terra che, fino a quel momento, era apparsa immune dalla febbre socialista.
Il dopoguerra e il ritorno degli italiani
Alla fine del conflitto mondiale le terre dell’Alsazia-Lorena tornarono alla Francia, con viva soddisfazione di tutti i lorenesi che avevano mal sopportato l’appartenenza al Reich. La nuova situazione, tuttavia, non spense l’antigermanismo che rimase vivo a causa della posizione di confine e delle continue tensioni tra i due paesi. Questo sentimento, molto forte in particolare nei primi anni del dopoguerra, favorì, seppur indirettamente, il ritorno degli italiani quale forza-lavoro per la ricostruzione. Il governo tedesco, con il sostegno dei sindacati dei due paesi, cercò di favorire la presenza di propri lavoratori in terra francese, nella speranza di utilizzarli nel saldo complessivo dei debiti di guerra. L’ostilità di una parte consistente delle forze politiche e della popolazione lorenese impedì tuttavia che flussi di lavoratori dalla Germania sconfitta potessero recarsi nelle terre confinanti[21]. Furono così gli italiani a riprendere il percorso migratorio verso queste terre per essere impiegati nei lavori della ricostruzione e, soprattutto, per rioccupare i posti abbandonati a causa della guerra nelle imprese siderurgiche. Si trattò di una riappropriazione non solo simbolica, poiché, secondo Galloro, circa un terzo degli italiani che si presentarono nel 1919 per essere assunti nel bacino di Briey era già stato impiegato in quella regione in precedenza[22]. Gli industriali del ferro ripresero e migliorarono, in questi anni, le operazioni di reclutamento di manodopera straniera che erano iniziate nel corso del periodo prebellico. Grazie ai trattati firmati dal Governo francese, all’opera della Société générale d’immigration (SGI) e dei singoli imprenditori locali, infatti, nuovi immigrati arrivarono, affiancando le correnti provenienti dal Belgio, dal Lussemburgo e dall’Italia. Gli arrivi individuali e, spesso, clandestini rimasero, tuttavia, assai frequenti[23].
La Lorena, definita sempre più spesso come un “nuovo Klondyke” o come una “Torre di Babele”, accoglieva ormai una cospicua presenza di stranieri provenienti da diversi paesi. Gli italiani rimasero, nonostante il calo riguardante tutte le comunità straniere tra il 1931 e il 1936, la nazionalità maggiormente rappresentata in Lorena[24]. La vera novità del dopoguerra fu, tuttavia, rappresentata dal ragguardevole numero di immigrati provenienti dalla Polonia grazie al reclutamento organizzato. I lavoratori polacchi, quasi 70.000 nella regione nel 1931, come si evince dalle percentuali degli emigranti in Lorena, affiancarono gli italiani nelle miniere di ferro. La migrazione italiana nella regione si caratterizzò per molti elementi di continuità rispetto alla precedente ondata. Comuni restarono le aree di arrivo all’interno dei due dipartimenti: il settore di Thionville e, seppure in misura inferiore, quelli di Metz e Forbach per la Moselle e i due bacini minerari e siderurgici di Longwy e Briey per la Meurthe-et-Moselle. Come già in passato furono principalmente i piccoli e grandi villaggi dei bacini minerari ad accogliere la maggior parte degli italiani: alcuni di questi centri si trasformarono in veri e propri villaggi italiani, poiché gli abitanti stranieri superavano ormai nettamente i residenti francesi. Allo stesso modo non mutarono le origini regionali dei migranti. Piemontesi e veneti rimasero maggioritari, anche se si assistette a sempre più numerosi arrivi dalle regioni centrali, Emilia-Romagna, Marche, Umbria e Abruzzo. Le reti migratorie, che erano già state intessute nel periodo prebellico, ripresero così vigore[25].
Anche dal punto di vista professionale gli elementi di continuità rispetto al passato sembrarono prevalere: il settore estrattivo-siderurgico assorbì la grande maggioranza degli operai italiani, che pure continuarono a essere impiegati, nei primi anni del dopoguerra, anche nel settore edilizio. Fino al 1925 gli italiani rimasero in posizione dominante nelle imprese siderurgiche e nelle miniere; l’arrivo dei polacchi, dopo questa data, modificò parzialmente il quadro della situazione. Anche se non si può parlare di una vera e propria sostituzione da parte dei nuovi arrivati[26], alcuni cambiamenti sembrarono evidenti. Il panorama dei mestieri parve modificarsi lentamente anche nella terra del ferro, come mostrava la diminuzione percentuale degli italiani occupati nelle miniere, passati dal 60% del totale del 1914 al 20% del 1930[27]. La lenta ascesa professionale e sociale dei lavoratori italiani cominciò proprio in questi anni. Tale passaggio non fu affatto lineare e riguardò, spesso, immigrati di seconda generazione, figli di uomini che avevano passato sottoterra anni interi della loro vita. La crisi economica mondiale, che colpì la Lorena a partire dal 1931, rappresentò, in questo senso, un banco di prova fondamentale per gli immigrati italiani. Durante la crisi, infatti, gli imprenditori, dopo aver cercato soluzioni classiche, come la non sostituzione degli operai che si erano allontanati volontariamente, si trovarono costretti a una riduzione del personale. I primi a essere colpiti furono gli operai più anziani e i meno qualificati. Gli immigrati, newcomers per eccellenza, pagarono maggiormente le conseguenze della crisi, anche se in maniera differenziata a seconda della durata della loro permanenza nella regione e del conseguente ruolo svolto nelle professioni. I polacchi furono i più colpiti dai provvedimenti di licenziamento e dai rimpatri, ma anche molti italiani, seppure in proporzioni inferiori, furono costretti a lasciare il lavoro. La proporzione dei lavoratori francesi aumentò così considerevolmente, al punto che essi passarono, negli altiforni, dal 22% del 1931 al 27% del 1932, fino ad arrivare alla percentuale del 38-40% a partire dal 1933[28]. La maggior parte degli immigrati non fece rientro in Italia e diversi furono coloro che cercarono di recarsi nelle regioni agricole francesi per rinverdire la propria origine contadina. Alcuni, inoltre, utilizzarono la crisi come volano per un’ascesa sociale, attraverso il passaggio al commercio, affiancando i vari commercianti, locandieri e negozianti di alimentari, già presenti dagli anni Venti[29].
La crisi, tuttavia, non comportò un’espulsione di massa degli italiani dalle imprese siderurgiche e dalle miniere, dove essi continuarono a essere fortemente rappresentati. Le classi dirigenti della regione scelsero di non rinunciare alla presenza degli immigrati: la legge del 1932, sulla limitazione della manodopera straniera, fu applicata in Lorena solamente a partire dal 1936. Nelle miniere del ferro, in particolare, la crisi non modificò nel profondo la struttura per nazionalità così come era andata creandosi nel corso dei precedenti decenni. Un prezioso rapporto redatto dall’ingénieur des mines di Nancy nel 1934[30], per cercare di comprendere quale peso potessero avere riduzioni marcate della presenza straniera in applicazione della legge del 1932, mostrava chiaramente quale fosse il peso degli immigrati e quanto difficile potesse essere una loro sostituzione. L’ingegnere concludeva il proprio rapporto, scrivendo:
la limitation de l’emploi des étrangers dans les mines deviendrait une mesure qui pourrait être dangereuse. Il n’est pas certain que les mines pourront recruter le personnel qui leur serait nécessaire à la suite des renvois d’étrangers. Les essais d’emploi de chômeurs de toutes provenances ont été très décevants à cet égard… Nous estimons que la limitation de l’emploi des étrangers présenterait plus d’inconvénients que d’avantages.
Gli stranieri mantennero un ruolo determinante nelle imprese in Lorena e i processi di mobilità sociale sembrarono lentamente affermarsi alla fine degli anni Trenta. Così nel 1936 la Société anonyme des aciéries de Micheville, con sede in una delle città più italiane della Meurthe-et-Moselle, Villerupt, aveva un personale composto quasi per metà da italiani e francesi. Questi ultimi erano quasi totalmente concentrati nel settore impiegatizio mentre gli italiani li superavano ormai non solo nelle miniere ma anche in fabbrica. Una situazione non del tutto differente, con una forte concentrazione di italiani nelle miniere di ferro e nelle imprese metallurgiche, si aveva anche in Moselle, dove nel 1939 il numero di operai metalmeccanici italiani aveva ormai sopravanzato quello dei minatori.
Complessivamente, seguendo le ipotesi avanzate da Piero Galloro, si può sostenere che, a partire dagli anni Venti, si assistette a un’evoluzione sociale non più disegnata, come nel periodo precedente, sulla contrapposizione Francesi/Stranieri quanto piuttosto su quella tra vecchi arrivati e nuovi arrivati. In questo senso le posizioni professionali degli italiani, che restarono comunque principalmente OS, debbono essere inserite nel più ampio quadro delle modifiche che, in questa fase del secolo segnata dall’organizzazione scientifica del lavoro, coinvolsero la classe operaia nel suo complesso[31]. Non può, tuttavia, dimenticarsi che gli italiani, proprio perché presenti da più tempo rispetto ad altri gruppi stranieri, affermarono la propria presenza anche in alcuni settori specifici come l’edilizia, tradizionale sbocco per i migranti italiani, e il piccolo commercio, in particolare in alcuni centri mosellani. Per quel che riguardava il mondo della fabbrica e delle miniere, invece, solamente nel secondo dopoguerra, sempre con grande lentezza e nonostante l’arrivo di nuovi flussi migratori dall’Italia meridionale, l’avanzamento sociale delle nuove generazioni di italiani, spesso naturalizzati, si sarebbe definitivamente concretizzato[32].
L’integrazione e il ruolo del sindacato tra le due guerre
Nel corso degli anni Venti e Trenta, la condizione degli italiani in Lorena si stabilizzò notevolmente, rispetto al periodo precedente caratterizzato da una forte precarietà. Dopo una prima fase, nell’immediato dopoguerra, in cui l’ emigrazione italiana in Francia era stata nuovamente alimentata da giovani celibi, già alla fine degli anni Venti la stampa locale poteva, con sollievo, segnalare il ruolo delle migrazioni familiari, sempre vissute, nella pubblicistica del tempo, come moderatrici degli eccessi della vita dell’emigrante. Le tensioni continuarono, tuttavia, a covare anche nel corso degli anni Venti. Gli italiani, e più frequentemente i polacchi, sembrarono talora racchiudersi in colonie separate, spesso con il favore dei consolati, creando una situazione che le autorità francesi non vedevano certo di buon occhio, preoccupate com’erano che minoranze nazionali venissero a formarsi proprio in una terra di frontiera. Una parte consistente di operai francesi, seppure non con la stessa virulenza dell’anteguerra, continuò inoltre a dimostrarsi ostile nei confronti degli stranieri, visti come concorrenti e potenziali strumenti del padronato.
L’avversione nei confronti degli immigrati crebbe durante la crisi, quando la nuova vague xenofoba che aveva colpito il paese si palesò anche in Lorena. Alla fine degli anni Trenta la possibilità di assimilare, secondo il termine allora utilizzato, le comunità straniere sembrava essere sempre più difficile. Le stesse autorità lorenesi constatarono, con preoccupazione, che molti immigrati tendevano ancora a vivere tra loro, che i più vecchi non parlavano il francese e che molto tempo era ancora necessario per giungere alla loro francesizzazione[33]. Tali difficoltà riguardarono sostanzialmente tutte le nazionalità, anche se gli italiani furono sempre considerati, insieme a belgi e lussemburghesi, più facilmente assimilabili rispetto ai polacchi e agli altri immigrati dall’Europa dell’est. La lunga durata dell’emigrazione italiana sembrava essere l’elemento che, più di ogni altro, favoriva l’integrazione nella comunità nazionale francese[34]. La guerra interruppe il lungo cammino di avvicinamento tra le comunità straniere, costringendo molti italiani a fuggire, verso il Sud-Ovest della Francia[35], dove furono sistemati gli sfollati, o verso l’Italia. Questa volta la situazione era complicata dall’appartenenza al fronte nemico del proprio paese d’origine: se ciò provocò notevoli drammi esistenziali, molti furono coloro che scelsero di restare fedeli al paese che aveva offerto agli emigrati lavoro e protezione. La scelta filofrancese divenne per alcuni anche una scelta politica nell’ambito della guerra europea tra fascismo e antifascismo: numerosi furono coloro che imbracciarono le armi per difendere la Francia, la libertà e anche la loro Italia, certo assai diversa da quella fascista rappresentata dai consoli.
Il periodo tra le due guerre fu anche, per gli immigrati italiani in Lorena, il periodo dell’accesso graduale alla vita politica e sindacale della regione. L’esperienza del 1905 aveva dimostrato alle organizzazioni sindacali francesi che era impossibile organizzare la classe operaia delle regioni minerarie senza fare i conti con la presenza massiccia degli italiani. Nell’immediato dopoguerra la scissione dei comunisti – con la conseguente nascita di due sindacati: CGT e CGTU – fece sentire anche in Lorena il proprio effetto. Il movimento sindacale nella regione fu, tra il 1920 e il 1935, particolarmente debole, raggiungendo un tasso complessivo di sindacalizzazione dell’1,23% in Meurthe-et-Moselle e dell’1,45% in Moselle, contro l’1,82% della media nazionale[36]. Gli anni Venti furono, per la CGT e la CGTU, anni molto difficili, ma sarebbe errato pensare a una desertificazione totale. La loro debolezza li costrinse, paradossalmente, a confrontarsi più di quanto fecero i sindacati di altre aree regionali con le necessità della manodopera straniera.
Negli anni della divisione sindacale, alcune differenze importanti emersero nelle politiche della CGT e della CGTU, tanto a livello nazionale che a livello regionale. Il sindacato unitario, in nome dell’internazionalismo comunista, fu sempre molto attento alle necessità e alle richieste degli operai italiani e polacchi presenti nella regione e si caratterizzò per la presenza nelle proprie fila di molti iscritti provenienti dalla penisola[37]. Due dei principali propagandisti della CGTU, nel corso dei primi anni Venti, erano d’altra parte Marin Rossi e Ernesto Jelmoni, entrambi figli di immigrati italiani giunti in Francia nella precedente ondata migratoria[38]. Complessivamente, il carattere discontinuo della partecipazione alla vita sindacale, che era stata una delle principali caratteristiche del movimento operaio prebellico, si perpetuò anche nel corso degli anni Venti. Brusche fiammate, spesso caratterizzate da scioperi spontanei che i sindacati erano costretti a seguire più che a organizzare, si alternavano a lunghi periodi di apatia e di difficoltà della classe operaia. La sindacalizzazione della regione era, per dirla con le parole di Serge Bonnet, tanto di massa quanto episodica[39]. I lavoratori italiani pagarono molto duramente i primi momenti di lotta con numerose espulsioni e con una vigilanza costante sulle loro attività da parte delle autorità francesi. Il timore principale di queste ultime, e dei loro colleghi italiani, era che nell’area tra Francia e Lussemburgo si creasse una sorta di regione comunista, che garantisse ai militanti passaggi clandestini e fughe. Paradossalmente la politica di espulsioni, sempre più massicce alla fine del decennio, praticate dai due stati confinanti favorì un continuo scambio di personale politico e sindacale, contribuendo a creare un’immagine di instabilità e insicurezza nella regione.
Tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, i sindacati regionali entrarono in una nuova fase di crisi. Nel corso del 1927, la CGT si espresse esplicitamente, come la SFIO, in favore della chiusura delle frontiere per gli operai immigrati. La CGTU rimase sola a difendere i diritti degli stranieri, invitando questi ultimi, sempre più spaventati dalle espulsioni, a continuare il loro impegno nel sindacato in maniera meno visibile[40]. A poco servirono gli sforzi di riorganizzazione e propaganda che pure i comunisti moltiplicarono nel corso di questi anni. Il sopraggiungere della crisi, nel 1931, condusse alla liquidazione dell’intero movimento, francese e immigrato, confederale e unitario. La Lorena divenne terra di contingentamento di manodopera e di licenziamenti. Le partenze degli immigrati, anche italiani, si moltiplicarono. La risposta della CGT alla crisi fu una decisa presa di posizione in favore delle limitazioni da porre all’afflusso di manodopera straniera, sospendendo il principio della solidarietà internazionale tra proletari. La richiesta di limiti non era una novità, ma la posizione ufficiale del sindacato riformista assunse ora tratti assai decisi, spesso non così distanti dalla xenofobia della sua base[41]. Il sindacato comunista fu meno influenzato, almeno a livello di vertice, dal clima di crescente intolleranza, ma non seppe trarre vantaggio dalla situazione, restando rinchiuso in formule rituali e proclami ideologici. Solamente a partire dal febbraio 1934, dopo le manifestazioni di piazza delle destre, i sindacati cominciarono a ridefinire il proprio atteggiamento nei confronti della xenofobia[42]. La CGT e la CGTU furono partecipi del grande movimento che condusse la Francia alla vittoria del Fronte Popolare, giungendo nel marzo 1936 alla riunificazione. La partecipazione degli stranieri, e degli italiani in particolare, alla nuova CGT e alle numerose manifestazioni che, nella primavera e nell’estate di quell’anno, si svolsero nel paese, impressionò gli osservatori[43].
Il movimento del 1936 non fu, in Lorena, un parto improvviso e dall’origine incerta. I padri devono essere ricercati tra quei lavoratori, italiani, francesi e polacchi che, negli anni Venti, si erano mobilitati in maniera episodica e spesso frammentaria e che non cessarono di dare piccoli segni di vita persino negli anni più duri della crisi economica[44]. La crescita del numero dei sindacalizzati fu, tuttavia, impressionante: la CGT della Meurthe-et-Moselle, ad esempio, passò dai 7.000 iscritti del 1935 agli 80.000 del 1937[45]. In tutta la regione, gli aderenti al sindacato raggiunsero, nel 1937, la quota di 215.000: un numero sorprendente soprattutto considerando le difficoltà degli anni precedenti[46]. La lentezza della ricostruzione delle strutture sindacali impedì che la Lorena, anche nelle sue aree storicamente più combattive, fosse in una posizione di avanguardia per quel che riguardava i grandi scioperi del maggio-giugno 1936. Per usare ancora le parole di Serge Bonnet, il processo di sindacalizzazione fu qui tardivo, brutale e passeggero[47]. La sindacalizzazione di massa prese il via a partire dall’estate di quell’anno coinvolgendo lavoratori di tutte le nazionalità e di tutti i settori professionali, anche se particolarmente coinvolti furono il settore della siderurgia, del tessile e la funzione pubblica[48]. Diversamente da quanto era accaduto in passato, le regioni dell’est della Francia furono, in questa fase, tra quelle in cui il tasso di sindacalizzazione era maggiore. Esso raggiunse, infatti, l’11,60% in Moselle e il 14% in Meurthe-et-Moselle, contro una media nazionale del 10,20%[49]. L’adesione alla CGT rappresentò per molti il segno della liberazione. Per gli italiani tale sentimento di rivalsa si dirigeva certamente nei confronti del padronato, ma anche verso una classe politica che spesso aveva reagito ai tentativi di sindacalizzazione degli immigrati con l’arma delle espulsioni. Il valore politico dell’appartenenza al sindacato appariva, in questo senso innegabile, anche perché forte era la volontà di segnalare, con tale adesione, la propria solidarietà al nuovo governo delle sinistre. Allo stesso tempo l’iscrizione di massa a una struttura francese dimostrava la richiesta di integrazione che gli italiani, più degli altri stranieri, avanzavano alla società del paese ospite.
L’entusiasmo svanì nei primi mesi del 1938, in seguito alla crisi dell’esperienza frontista. Il padronato, che aveva dovuto accettare nei mesi precedenti il protagonismo della classe operaia, poté cominciare a prendere le proprie rivincite. La CGT cercò ancora di presentarsi come baluardo dei diritti di tutti i lavoratori, compresi gli operai stranieri che, tuttavia, di fronte alla nuova situazione, si ritrassero nuovamente. Alla fine dell’anno la CGT della regione entrò in crisi e si assistette a una vera e propria emorragia di iscritti e all’indebolimento, anche a causa dei provvedimenti governativi, dell’organizzazione. Emblematico fu, in questo senso, lo sciopero del 30 novembre 1938, proclamato dalla CGT contro i decreti-leggi varati dal governo Daladier. Solamente una minoranza di lavoratori partecipò allo sciopero e in alcune aree della regione, in precedenza assai combattive, l’insuccesso fu particolarmente sentito. Al fallimento seguì, ancora una volta, una dura repressione padronale, con licenziamenti, allontanamenti dei sindacalisti – tra cui Marin Rossi – dalle cittadelle operaie e un nuovo forte senso di insicurezza per tutti i lavoratori[50]. Solamente nel secondo dopoguerra, in un contesto certo molto diverso, gli italiani avrebbero ripreso la via della politica e della lotta sindacale nella regione.
Il sindacato lorenese rappresentò, negli anni del Fronte Popolare, un forte sostegno alle rivendicazioni operaie, ma anche un luogo nel quale si compì una vera e propria educazione politica che pure, per alcuni, aveva avuto inizio negli anni precedenti. Senza troppo indulgere alla retorica, si può forse parlare di una sorta di linea rossa che, a partire dagli scioperi del 1905, passando per i tentativi di sindacalizzazione compiuti da riformisti e unitari negli anni Venti e per il grande movimento del 1936-37, condusse al dopoguerra. L’idea dell’esistenza di una forma di continuità nella partecipazione italiana al sindacato non può significare, naturalmente, non cogliere la forte carica innovativa, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, degli anni del Fronte Popolare. I successi elettorali del PCF nella Lorena degli anni Cinquanta e Sessanta sembrano, tuttavia, dare il segno di questa continuità, se essi sono letti, come pare opportuno, considerando il peso del voto degli italiani naturalizzati e dei loro figli.
Conclusione
L’integrazione degli italiani in Lorena, oggi molto celebrata come percorso di successo e talora contrapposta alle presunte difficoltà d’integrazione nelle migrazioni contemporanee[51], fu, nei fatti, un processo lento e ricco di problemi. Solamente nel secondo dopoguerra, pure con nuove difficoltà e contrasti causati dall’arrivo di nuovi flussi migratori dall’Italia meridionale, le giovani generazioni avrebbero rotto definitivamente gli argini della separatezza tra stranieri e autoctoni. La Lorena non rappresentò, insomma, un’eccezione positiva, un modello di integrazione; come ha sostenuto correttamente Didier Francfort, non vi fu uno spirito lorenese più aperto di altri alla mescolanza. I percorsi dei migranti verso l’inserimento nella società d’accoglienza furono, come altrove, il frutto della combinazione di molti elementi differenti tra loro e dell’appartenenza a molteplici famiglie culturali e sociali[52]. Solo in questo senso si può ritenere sia esistita una componente regionale al percorso d’integrazione, che non va ricercata in presunte motivazioni etnico-culturali[53], quanto piuttosto nell’evoluzione politica e sociale della Lorena. La presenza di una classe operaia plurinazionale, l’esistenza, in particolare nella Moselle, di un gran numero di associazioni italiane e polacche, le burrascose vicende politiche e sindacali della regione furono tutti elementi che favorirono una forma specifica di inserimento dei lavoratori immigrati nel paese ospite. Il sindacato, in particolare, fu uno dei più importanti strumenti in questa direzione, anche se la partecipazione dei migranti alla vita delle organizzazioni dei lavoratori non fu, come si è cercato di dimostrare, sempre semplice. Esso rappresentò, tuttavia, uno dei primi elementi di contatto con le classi lavoratrici locali e, per contrasto, con le classi dirigenti e il padronato della Lorena. Le lotte comuni, gli scioperi, la condivisione di una condizione operaia spesso difficile nelle miniere e nelle fabbriche avrebbero creato legami che, seppure scossi dalle ventate xenofobe, nel lungo periodo sarebbero diventati elemento unificante per tutti i lavoratori.
La presenza della frontiera in tale contesto sembra essere un altro elemento non trascurabile nel tentativo di comprendere quale integrazione si ebbe per gli stranieri in queste terre. Ancora secondo Didier Francfort, il carattere frontaliero della regione, la pluralità delle lingue parlate, la durata dei flussi migratori crearono una situazione complessa e originale. Gli stessi italo-lorenesi – ammesso che tale definizione possa essere accettata – avrebbero interiorizzato le divisioni regionali presenti nel territorio: così un italiano residente a Joeuf, nella Meurthe-et-Moselle, avrebbe ritenuto profondamente intriso di cultura germanica un proprio connazionale residente nel vicino comune mosellano di Moyeuvre-Grande[54]. La frontiera avrebbe dunque creato forme di identificazione e di contrapposizione altre e differenti da quelle più classiche, e pure esistenti, tra indigeno e straniero, favorendo, in qualche modo, una coesione sociale regionale o di villaggio. D’altro canto, la presenza di confini che segnarono profondamente le vicende delle popolazioni lorenesi, costringendole spesso a confrontarsi con guerre e occupazioni, favorì, secondo molti, lo svilupparsi di forti sentimenti nazionalisti, non di rado accompagnati da esplosioni xenofobe[55]. Alla luce di queste interpretazioni e ipotesi, appare difficile fornire una risposta definitiva sul ruolo della frontiera nei processi di integrazione degli stranieri, e degli italiani in particolare, nella Lorena siderurgica. La presenza dei confini condizionò, senza dubbio, la vita dei migranti italiani. I lavoratori provenienti dalla penisola ne furono certamente avvantaggiati, ad esempio, nel contesto dell’immediato primo dopoguerra quando la manodopera italiana fu favorita rispetto a quella tedesca. Gli stessi percorsi di politicizzazione e sindacalizzazione dei lavoratori italiani e francesi si giovarono dell’esistenza delle frontiere, che mettevano in contatto movimenti operai di paesi differenti garantendo inoltre, in particolare negli anni Venti, ai militanti espulsi di passare da una parte all’altra dei confini nazionali senza allontanarsi dalla regione. Parallelamente, tuttavia, il forte sentimento antitedesco favorì la crescita di un nazionalismo xenofobo che, specialmente a cavallo tra il XIX e il XX secolo, colpì molti immigrati italiani. Complessivamente, la presenza della frontiera giocò un ruolo a volte anche contraddittorio nei processi di integrazione dei diversi gruppi nazionali presenti sul territorio, ma sarebbe errato pensare che la sua esistenza garantisse da sola una maggiore o minore apertura nei confronti degli stranieri. La storia della siderurgia lorenese sarebbe continuata ancora per qualche decennio, sino a concludersi, dopo lotte sociali e illusioni operaie, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso[56].
[1] A. Filippetti, Gli ultimi giorni della classe operaia, Milano, Marco Tropea, 28-29.
[2] S. Bonnet, R. Humbert, La ligne rouge des hauts-fourneaux. Grèves dans le fer lorrain en 1905, Paris, Denoël, 1981, 14.
[3] P.-D. Galloro, Ouvriers du fer, princes du vent. Histoire des flux de main-d’oeuvre dans la sidérurgie lorraine, Metz, Serpenoise, 2001, 27-29.
[4] P.-D. Galloro, La frontière à l’épreuve de la mobilité ouvrière en Lorraine (1880-1914), in : J.M. Demarolle (sous la direction de), Frontières (?) en Europe occidentale et médiane de l’antiquité à l’an 2000, Metz, Centre de Recherche “Histoire et Civilisation de l’Europe Occidentale”, 2001, 417.
[5] M. L. Antenucci, Parcours d’Italie en Moselle. Histoire des immigrations italiennes, 1870-1940, Metz, Serpenoise, 2004, 40.
[6] Molti italiani, poi impiegati nelle fabbriche siderurgiche della famiglia De Wendel, lavorarono nel corso degli anni Ottanta alla costruzione della stazione di Metz e ai lavori di fortificazione voluti dai tedeschi nella Lorena annessa. P.-D. Galloro, Ouvriers du fer,cit., 36.
[7] G. Noiriel, Longwy. Immigrés et prolétaires 1880-1980, Paris, Presses Universitaires de France, 1984, 69.
[8] Ivi, 74-75.
[9] S. Bonnet, R. Humbert, La ligne rouge des hauts-fourneaux,cit., 189-190.
[10] P.-D. Galloro, Ouvriers du fer,cit., 84.
[11] M. L. Antenucci, Parcours, cit., 100.
[12] Sulla xenofobia operaia in Lorena si vedano Y. Lequin, La mosaïque France. Histoire des étrangers et de l’immigration en France, Paris, Larousse, 1992, 395, P.-D. Galloro, Ouvriers du fer, cit., 39-41 e G. Noiriel, Longwy, cit., 78-80.
[13] G. Noiriel, Longwy, cit., 78.
[14] P.-D. Galloro, Ouvriers du fer, cit., 39.
[15] Fino al 1905, secondo le stime di Bonnet e Humbert, gli scioperi erano stati mai più di dieci all’anno con mai più di 1.800 scioperanti, salvo nel 1893. Nel 1905 si ebbero invece 25 scioperi e 7.355 scioperanti, anche se il vero picco si ebbe nel 1906 con 31 scioperi e 13.922 scioperanti. S. Bonnet, R. Humbert, La ligne rouge des hauts-fourneaux, cit., 6-7.
[16] Ivi, 122-123 e G. Noiriel, Longwy, cit., 84-85.
[17] S. Bonnet, C. Santini, H. Barthelemy, Les Italiens dans l’arrondissement de Briey avant 1914, «Annales de l’Est», 1 (1962), 48n.
[18] Le difficili condizioni di lavoro e di vita degli operai italiani furono denunciate da Monsignor Bonomelli nel 1912 in un’intervista al Secolo che fece molto scalpore e nel 1914 nel suo Journal de voyage, pubblicato dopo la morte del religioso. A. Perotti, La situation des immigrés italiens dans le bassin minier et sidérurgique du Luxembourg et de Lorraine avant 1914, «Studi Emigrazione», XXXVII, 138 (2000), 377-404.
[19] C. Liauzu, Histoire des migrations en Méditerranée occidentale, Bruxelles, Editions Complexe, 1996, 196.
[20] È il caso delle industrie siderurgiche di Pont-à-Mousson e Neuves-Maisons, cfr. S. Bonnet, R. Humbert, La ligne rouge des hauts-fourneaux, cit., 185.
[21] R. Schor, L’opinion française et les étrangers, 1919-1939, Paris, Publications de la Sorbonne, 1985, 84-87.
[22] P.-D. Galloro, Ouvriers du fer, cit., 98.
[23] G. Noiriel, Longwy, cit., 166-167.
[24] Secondo alcune stime gli immigrati provenienti dalla penisola sarebbero stati circa 100.000 nel 1931, G. Noiriel, Les immigrés italiens en Lorraine pendant l’entre-deux-guerres: du rejet xénophobe aux stratégies d'intégration,In: P. Milza, Les Italiens en France de 1914 à 1940, Roma, Ecole Française de Rome, 1986, 612.
[25] Più di un terzo delle famiglie di Hussigny provenivano, ad esempio, da 4 villaggi presso Montefeltro e in particolare da Santa Agata del Feltrio. Il 90% degli emigrati da Pennabilli si erano recati a Longlaville. Gli italiani di Villerupt provenivano da Gubbio e Fabriano. G. Noiriel, Longwy, cit., 221. Sulla presenza abruzzese si veda P.-D. Galloro, Ouvriers du fer, cit., 120
[26] Ivi, 117-19.
[27] G. Noirel, Longwy, cit., 130. Secondo Hermann Schäfer, in realtà, nel territorio mosellano l’ascesa sociale degli italiani era iniziata già nel corso della prima ondata migratoria, H. Schäfer, L’immigrazione italiana nell’impero tedesco (1890-1914), in: B. Bezza (a cura di), Gli italiani fuori d’Italia, Milano, Franco Angeli, 1983, 744. Si veda anche M. L. Antenucci, Parcours, cit., 69-70.
[28] P.-D. Galloro, Ouvriers du fer, cit., 203.
[29] Secondo un rapporto del 1938 ad esempio il 75% degli italiani in Moselle sarebbe stato impiegato in lavori industriali, ma ben il 25% sarebbe stato impiegato nel commercio e nella piccola imprenditoria. Rapport N. 8510/38 du 5 décembre 1938 par le Commissaire Divisionnaire de Metz au Préfet de la Moselle, ADM 304 M 159.
[30] Rapport de l’Ingénieur des Mines de l’arrondissement de Nancy du 13 novembre 1934, ADMM, 10 M 35.
[31] P.-D. Galloro, Ouvriers du fer, cit., 155.
[32] Sulla presenza italiana in Lorena nel secondo dopoguerra si veda P.-D. Galloro, Les flux de main-d’œuvre italienne dans la sidérurgie lorraine. Analyse spatiale et démographique (1945-1968), «Studi Emigrazione», XXXIX, 146 (2002), 335-347.
[33] Rapport du 10 janvier 1939 par le Sous-Préfet de Briey au Préfet de Nancy, ADMM, 1 Z 56 e Rapport N. 4366 du 14 décembre 1938 par le Commissaire de Police de Villerupt au Sous-Préfet de Briey, ADMM, 1 Z 56.
[34] Rapport N. 8510/38 du 5 décembre 1938 par le Commissaire Divisionnaire de Metz au Préfet de la Moselle, ADM 304 M 159 e Rapport du 10 janvier 1939 par le Sous-Préfet de Briey au Préfet de Nancy, ADMM, 1 Z 56.
[35] Durante la fase di neutralità dell’Italia erano le stesse autorità francesi a desiderare che gli italiani restassero in Francia, cfr. Telespresso N. 11307 del 9 settembre 1939 dal Console di Nancy all’Ambasciata d’Italia, MAE, Rappresentanza italiana in Francia (1861-1950), b. 303.
[36] A. Prost, La C.G.T. à l’époque du Front Populaire 1934-1939. Essai de description numérique, Paris, Presses de la Fondation Nationale de Sciences Politiques, 1964, 218-219. Per la Meurthe-et-Moselle, J. C. Magrinelli, Y. Magrinelli, Antifascisme et Parti communiste en Meurthe-et-Moselle, Jarville, Imprimerie SNIC, 41.
[37] A Villerupt e Hussigny gli italiani sarebbero stati addirittura maggioritari nel sindacato. Y. Lequin (sous la direction de), La mosaïque, cit., 409.
[38] G. Noiriel, Longwy, cit., 251. Si vedano anche E. Kagan, S. Bonnet, Les militants ouvriers de Meurthe et Moselle. Dictionnaire biographique, Nancy, 1973, 47 e J. C. Magrinelli, Y. Magrinelli, Antifascisme et Parti communiste, cit., 43.
[39] S. Bonnet, Sociologie politique et religieuse de la Lorraine, Paris, Armand Colin, 1972, 353. Si veda anche G. Noiriel, Longwy, cit., 262.
[40] Circulaire du 11 janvier 1928 par la 3ème Union Régionale des Syndicats Unitaires. Secrétariat Inter-Régional de la MOE, AN F7 13249.
[41] R. Schor, L’opinion française, cit., 556-564 e 578-579.
[42] R. Schor, Racisme et xénophobie dans le mouvement ouvrier français avant 1939, «Nouvelle Revue Socialiste», janvier-février 1984, 86.
[43] Nel corso dei mesi il numero di aderenti alla CGT passò dai circa 800.000 dell’inizio del 1936 ai 4 milioni di iscritti del 1937. A. Prost, La C.G.T. à l’époque du Front Populaire, cit., 37-42. Gli stranieri sarebbero passati, nello stesso periodo, da 50.000 a 400.000: la metà di loro sarebbe stata di nazionalità italiana e un quarto di nazionalità polacca, cfr. M. Dreyfus, Immigration et syndicalisme, «Les Cahiers de l’Institut C.G.T. d’histoire sociale», 64 (décembre 1997), 8 e R. Schor, Le Front Populaire et les étrangers en France : une espérance déçue, «GRECO 13. Recherches sur les migrations internationales», 3 (1981), 8.
[44] S. Bonnet, Sociologie politique, cit., 353.
[45] J. C. Magrinelli, Y. Magrinelli, Antifascisme et Parti communiste, cit., 101.
[46] S. Bonnet, Sociologie politique, cit., 353 e F. Roth, Le temps des guerres mondiales, cit., 429.
[47] S. Bonnet, Sociologie politique, cit., 353 e G. Noiriel, Longwy, cit., 284-285.
[48] F. Roth, Le temps des guerres mondiales, In : M. Parisse (sous la direction de), Histoire de la Lorraine, Toulouse, Privat, 1977, 429.
[49] A. Prost, La C.G.T. à l’époque, cit., 218-219.
[50] J. C. Magrinelli, Y. Magrinelli, Antifascisme et Parti communiste, cit., 122 e G. Noiriel, Longwy, cit., 294-295.
[51] L. Delmas, Lorraine du fer. Terre d’immigrés, In : Institut d’histoire sociale minière, Mineurs immigrés. Histoire, témoignage, XIXe-XXe siècle,Montreuil, VO Editions, 2000, 85.
[52] D. Francfort, La Lorraine : modèle d’intégration ?, «Historiens et Géographes», 384 (octobre-novembre 2003), 295.
[53] Dell’esistenza di aspetti culturali che avrebbero favorito l’accoglienza da parte degli abitanti della regione sembra convinto, invece, Del Fabbro, cfr. R. Del Fabbro, Emigrazione proletaria italiana in Germania all’inizio del XX secolo, In: J. Petersen (a cura di), L’emigrazione tra Italia e Germania, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1993, 30-31.
[54] D. Francfort, La Lorraine: modèle d’intégration ?, cit., 290.
[55] S. Bonnet, Sociologie politique, cit., 14.
[56] P. Raggi, Le discours sur l’intégration par le travail chez les anciens mineurs de fer de Lorraine, In : V. Ferry, P.-D. Galloro, G. Noiriel, 20 ans de discours sur l’intégration, Paris, L’Harmattan, 2005, 167. Sulla crisi degli anni Ottanta si veda G. Noiriel, Longwy, cit., 393-396.