Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Il riscatto degli schiavi a Venezia

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Rianimare il commercio

Osserva il patrizio veneziano Vettor Sandi nei suoi Principi di Storia civile della Repubblica di Venezia (1771):

Se s’avesse a scriver sin da suoi principi la serie delle piraterie de’ Barbareschi Affricani sul mare Mediterraneo, nell’Oceano, e su i mari del Levante, ci mancherebbe la penna più tosto che la materia, poiché converrebbe ascendere ai tempi, non solo della Repubblica Romana antica, ma anche anteriormente di molto; codesto genere di mestiere avendo sempre praticato di professione queste genti abitatrici delle costiere dell’Affrica. Scorgeressimo a codesta occasione quanto sempre abbiano infestate le navigazioni, ed il commerzio altrui, e quanti danni con le loro depredazioni nel corseggiamento abbiano apportati alle persone, ed alle sostanze de’ mercatanti, e dei loro equipaggi [1] .

Il Sandi pubblicava la sua opera in un momento particolare, quello di poco successivo alla sottoscrizione dei trattati tra Venezia e i «Cantoni di Barberia», Algeri, Tunisi e Tripoli, e col Marocco, che garantivano per la bandiera veneta una navigazione mercantile libera dagli attacchi corsari, in cambio del pagamento di una forte somma una tantum e poi di un versamento annuo [2] . Egli, esponente dell’aristocrazia lagunare, aveva potuto vivere in prima persona il dibattito, anche aspro, che si era svolto nei consessi sovrani della Repubblica circa l’opportunità di una pace negoziata, “comprata” in sostanza con l’elargizione di somme cospicue, e non ottenuta in seguito a una netta affermazione militare. Non pochi avevano visto in quelle «capitolazioni» un vulnus intollerabile per l’onore della millenaria Serenissima, degnatasi oltretutto per la prima volta di trattare direttamente, anche se tramite inviati di secondo ordine, con le Reggenze nordafricane. La negoziazione si era protratta per alcuni lustri, tra alterne vicende e problemi, sollevati ora dall’una ora dall’altra delle parti contraenti. Infine,

«pensando la Repubblica Veneziana a por riparo al proprio Commerzio, e ben rilevata con l’esperienza la difficoltà di domar queste genti corsare con le forze, reputò il Senato miglior partito il far anch’esso Trattati di Pace con tutte le Reggenze, Tunisi, Algieri, Tripoli e Marocco. Si conchiusero con le tre prime nell’anno 1764, con l’ultima nel susseguente 1765» [3] .

Questo il significativo punto di arrivo, anche se non si può dire che da quelle date cessassero definitivamente gli scontri, ché, al contrario, frequenti incidenti, originati perlopiù da cavillose interpretazioni dei trattati e da tentativi di parte «barbaresca» di far aumentare le somme pattuite, provocarono sino allo scadere del secolo ripetute spedizioni navali veneziane in Nord-Africa, e nuovi confronti. Meritevole di riflessione è la considerazione del Sandi sull’esigenza di porre «riparo al proprio Commerzio», a suo dire uno dei fattori di maggiore rilievo tra quelli che avevano spinto a un accomodamento. E, in effetti, gli accordi segnarono l’accoglimento da parte del governo veneziano delle pressanti richieste che in questo senso pervenivano, oramai da decenni, da parte delle categorie economiche direttamente impegnate nella piazza marittima lagunare. La Repubblica , intorno alla metà del Settecento, era difatti rimasta uno dei pochi Stati a non avere ancora sottoscritto accordi con i «cantoni barbareschi», e di conseguenza la sua marineria si trovava pesantemente esposta ai danni – in termini di cattura di bastimenti, merci e «schiavizzazione» degli equipaggi – che la guerra di corsa, da quelli praticata, comportava [4] . Le maggiori potenze europee erano invece, oramai da anni, addivenute a intese formali con ciascuna delle Reggenze, convenendo di corrispondere alle medesime periodiche somme di denaro e donativi vari, oltre che, sovente, anche ingenti quantitativi di armi, munizioni e materiali utili alle costruzioni navali; in cambio, le Reggenze avevano preso l’impegno di evitare ogni offesa al naviglio delle controparti [5] .

La pratica del riscatto a Venezia

Analogamente a quanto praticato in altri paesi, la Repubblica di Venezia – pienamente inserita nel mondo mediterraneo della navigazione, del commercio, dello scontro e al tempo stesso della difficile ricerca di un’armonia – aveva per tempo ritenuto opportuno dotarsi di un organismo dedicato a sovrintendere al riscatto e al rimpatrio di coloro che, sudditi veneti o catturati mentre erano al veneto servizio, fossero detenuti nei paesi del Maghreb o in altre località «turche». Nel XVI secolo a Venezia non esisteva però una confraternita specializzata in questo senso, del genere di quelle che andavano strutturandosi in altre parti d’Italia [6] ; l’incombenza di vigilare sulla ricerca dei captivi e sul loro recupero era stata dal Senato affidata, a partire dagli anni 1586- 1588, a un organo pubblico, i Provveditori sopra ospedali e luoghi pii [7] , magistratura di tre nobili esistente da un ventennio con mandato principale di sovrintendere alla gestione degli «ospedali maggiori» della capitale e in generale alle molte opere pie della città lagunare [8] . La motivazione della scelta senatoria, apparentemente incongrua, di affidare l’incarico del riscatto a un magistrato competente in materia ospedaliero-assistenziale, è da ricercarsi, oltre che nell’esigenza di assicurare pure in tale campo «ordine pubblico e stabilità» [9] , in una mentalità che riteneva naturale fornire sostegno all’affrancamento degli «schiavi» di modeste condizioni seguendo la strada consolidata della “carità pubblica e privata”. Per i soggetti di elevata posizione sociale il riscatto poteva procedere lungo altri tradizionali percorsi, quali quello della diplomazia o quello della trattativa con i «padroni», condotta, senza alcun esborso pubblico, dai mediatori di fiducia della famiglia della persona caduta in schiavitù. Per coprire invece le spese incontrate da coloro che non risultavano in grado, a causa di un’attestata condizione di indigenza, di provvedere con i soli beni familiari alla liberazione, o che avevano incontrato la prigionia per una ragione di pubblico servizio, i Provveditori vennero incaricati stabilmente, in base a quanto disposto dalla deliberazione senatoria del 3 giugno 1588 e altri successivi provvedimenti [10] , di «far far cerche in questa città e poner le cassette nelle chiese», di vigilare che altrettanto facessero i rettori (magistrati provinciali) delle località soggette e di far collocare nei principali luoghi di culto «una cassetta con inscritione, che dica “Per la ricuperatione de’ poveri schiavi”» [11] . Il denaro così ottenuto sarebbe stato raccolto in un’apposita «cassa-schiavi», creata nella pubblica zecca e posta sotto la diretta responsabilità del magistrato; in essa sarebbero confluite anche le somme raccolte allo stesso fine da altri organi dell’apparato statale. Il Senato assicurava complessivamente cento ducati di elemosina ordinaria ogni anno, a Natale e a Pasqua, mentre i notai della Dominante, e più avanti pure della Terraferma e dello Stato da Mar, venivano obbligati a ricordare ai testatori l’opportunità di destinare una somma al riscatto. Agli inizi del Seicento, infine, venne fondata in città un’apposita confraternita [12] , dedicata alla Ss.ma Trinità, dedita alla raccolta di fondi e all’organizzazione delle pratiche necessarie per operare la «redenzione» degli schiavi, ma sotto il controllo del magistrato [13] .

Con i proventi così raccolti, i Provveditori teoricamente dovevano fornire l’importo necessario per la liberazione di ciascun prigioniero. Essi non si occupavano però di operare materialmente il riscatto, ma erogavano una somma, a rimborso – purtroppo spesso solo parziale – delle spese anticipate dai familiari o dagli altri soggetti che si fossero effettivamente mobilitati. Per scansare il rischio di frodi, una lunga serie di passaggi preventivi mirava ad accertare, con l’ausilio di testimonianze giurate, che il preteso «schiavo» fosse realmente suddito veneto e che si trovasse davvero in schiavitù. Una volta esaurita questa istruttoria, una terminazione (provvedimento) del magistrato, fatta stampare e sottoscritta da almeno due dei nobili in carica, disponeva lo stanziamento del denaro necessario all’affrancamento, che veniva però effettivamente erogato solo a liberazione avvenuta, dietro dettagliata rendicontazione delle spese, dopo che una nuova terminazione e un’altra deposizione giurata di testimoni avessero comprovato la schiavitù, «non meno che con la produzione dell’ordinario cozzetto, che doverà esser tradotto e sottoscritto da publico dragomano» [14] . La procedura era appesantita dal fatto che Venezia preferiva saldare il dovuto solo una volta che i «redenti» fossero giunti salvi in città, il che rendeva difficile trovare persone disposte ad anticipare in contanti quanto occorreva, accollandosi anche il rischio del viaggio. A trattare il riscatto dello «schiavo» nella località di detenzione, essendosi dimostrata irrealizzabile la presenza stabile di un «console in Barbaria», prevista nel 1588, non erano quasi mai degli inviati governativi, ma intermediari – sovente mercanti israeliti colà residenti, o consoli di nazioni estere e principalmente consoli nordici o francesi, dati i rapporti di cooperazione esistenti fra la Francia , l’Impero ottomano e le Reggenze – che vi si dedicavano “professionalmente”, facendosi pagare per la mediazione, da cui traevano un notevole utile personale, senza peraltro essere sempre affidabili. Spesso gli scarsi fondi a disposizione in «cassa-schiavi» si rivelavano insufficienti a coprire ex-post gli stanziamenti già assegnati per ciascun riscatto. Si offrivano così molte occasioni di abuso: ad esempio, quando le promesse di corrispondere denaro al ritorno dalla «schiavitù» venivano fatte a un grande numero di richiedenti (organizzati in specifiche graduatorie), in misura superiore alla reale disponibilità di cassa, al rientro degli affrancati a Venezia le somme non risultavano subito disponibili, e il rimborso tardava alquanto. Era divenuta allora pratica comune per gli ex-«schiavi» vendere per poco prezzo il credito vantato nei confronti della «cassa-schiavi»,

di modo che il danaro destinato ad opera così pia s’è convertito più tosto in fomentare illeciti scandalosi contratti, e già si trovano summe abbondanti a peso del magistrato di questa natura di crediti [15] .

Le modalità illustrate, oltretutto, consentivano di praticare solo un numero limitato di riscatti, e sempre per singoli individui, il che ne aumentava il costo. Al cosiddetto importo di prima compra di uno schiavo andavano poi aggiunti ricarichi per gabelle, spese e dazioni varie dovute nelle Reggenze: il prezzo complessivo si manteneva perciò molto alto.

I tentativi di riforma

A tale situazione, che, per l’eccessiva onerosità e per l’incertezza del successo, era divenuta di oggettiva difficoltà, si tentò di reagire nel primo quarto del XVIII secolo, nel generale contesto di fermento che interessò il mondo della mercatura e della navigazione veneziane. Il commercio marittimo, entrato in grave crisi nel corso dei pluridecennali conflitti di Candia e di Morea, conobbe nel secondo decennio del Settecento, nella ritrovata pace tra la Serenissima e la Porta , una possibile prospettiva di rilancio [16] . Le autorità si applicarono a favorirla, nel tentativo di rianimare le attività mercantili e manifatturiere della piazza veneziana, l’economia insomma della città e dello Stato, che appariva assai ridimensionata rispetto al passato, e soprattutto prostrata da quasi sessant’anni di guerra ininterrotta con gli Ottomani. Alla base delle istanze di riorganizzazione vi furono le necessità di risparmio e di contenimento finanziario, che apparivano oramai improcrastinabili di fronte allo sfacelo delle finanze pubbliche. Il patriziato veneziano, o almeno la sua componente più avveduta, aveva ben compreso come il protrarsi dell’esistenza di organismi e procedure originatisi molti secoli prima fosse di grande ostacolo alle possibilità di ripresa e adeguamento ai parametri di altre ammirate nazioni. Per evitare la paralisi nell’azione dello Stato, che si andava profilando, si erano avviati pertanto in molti settori dell’amministrazione lo studio e la valutazione delle consimili realtà europee, e si erano promossi poi tentativi di innovazione, pur se a volte solo contingenti [17] . Sintomatica di uno spirito nuovo appare la collaborazione che le autorità ricercarono nelle controparti interessate alle riforme in atto. Così accadde anche per il settore della navigazione e del commercio marittimo: il Senato e le magistrature preposte operarono sempre a diretto contatto con le categorie economiche coinvolte, sovente accogliendo proposte e suggerimenti circa le misure da attuarsi. Questi centri d’interesse, anzi, furono in grado di far sentire la propria forza, agendo talora da freno all’azione del governo o boicottando l’applicazione delle misure non condivise. Lo scacchiere in cui, nel primo quarto del ’700, il commercio della Repubblica poteva ancora giocare un ruolo attivo era quello del Mediterraneo orientale; praticare il settore occidentale era giudicato, sin dal tardo Cinquecento, molto rischioso a causa dei corsari, e i tassi d’assicurazione erano divenuti perciò addirittura insostenibili [18] . Nella zona inoltre assumevano rilevanza assoluta e quasi esclusiva i traffici di ben altre potenze, in particolare Francia e Gran Bretagna, le quali, a partire dal secolo XVI, e soprattutto in quello successivo, avevano assunto sempre maggiore importanza, essendo in grado di proporre prezzi concorrenziali rispetto a quelli praticati dai veneziani. Negli ambienti marittimi marciani l’attenzione alla pratica del riscatto era particolarmente intensa, poiché la maggior parte dei captivi era costituita proprio da equipaggi e passeggeri delle navi mercantili, e anche per il fatto che il continuo rischio di assalti da parte dei «barbareschi» condizionava pesantemente la possibilità di sviluppo ed espansione della marineria veneta, e contribuiva non poco al decadimento delle attività portuali e commerciali di Venezia. È in questo contesto che maturò l’ipotesi di ricorrere ai padri Trinitari per l’attività di riscatto, ipotesi che va letta come un episodio di quel processo di adeguamento ai parametri internazionali ritenuti più aggiornati (i religiosi erano attivi soprattutto nella «redenzione» dei sudditi delle monarchie spagnola e francese) che pervase la Repubblica veneta nel corso del primo Settecento, nella complessiva opera di riorganizzazione [19] di tutte le attività marinare. Il numero degli «schiavi» veneziani non era certo paragonabile alle 2500 unità stimate alla fine del ’500, ma comunque si manteneva cospicuo (tra 1725 e 1728 risultavano detenuti a Istanbul 130 sudditi veneti, a Tunisi 213, ad Algeri 112, a Tripoli 149) [20] .

L’ammissione dei padri Trinitari a Venezia

Nell’estate del 1721 i «capi di piazza» e i «parcenevoli» Giovanni Battista Meratti, Demetrio Perulli [21] , Antonio Zuanelli e Angelo Giusto intervennero direttamente in materia di riscatto degli schiavi a Venezia, presentando al doge una «divota suplicatione». Lo spunto per rivolgersi ufficialmente alle autorità era dato dalla constatazione che «languiscono tuttavia, senza trovare chi dia mano al loro riscatto, molti sudditi che o in azione di guerra o in esercizio di traffico restorono miserabile preda de’ barbari», e soprattutto dal fatto che il timore della schiavitù e di un riscatto reso difficile dalle modalità vigenti rendeva arduo il reclutamento di validi marinai, o faceva sì che il compenso da questi richiesto risultasse troppo elevato. I rappresentanti degli armatori e dei mercanti ritenevano indubbiamente giunto il momento di proporre una radicale modifica delle procedure di riscatto, basata soprattutto su considerazioni di economia e di praticità. Elemento di non poco peso era, con tutta evidenza, la scarsità di “tecnici del mare” disposti a correre il rischio della cattura. La proposta di affidare la «redenzione» non più all’alea di iniziative estemporanee, ma al rigore di una procedura celere gestita da un ordine religioso specializzato, quello dei padri Trinitari, poteva indurre forze nuove e qualificate a impegnarsi in campo navale, oltre che conseguire effetti di notevole risparmio:

Portatisi ultimamente due religiosi sacerdoti d’un tal ordine in questa serenissima Dominante, dimostrorono ardente desiderio di prender domicilio proprio sotto l’ombra di questa serenissima Republica. La Spagna , la Francia , la Germania , la Polonia , la Littuania numerano più conventi di questi ottimi padri, come tanti pretiosi vivi capitali per la liberatione de’ propri sudditi. Tengono per debito della loro instituzione il dover impiegare non solo l’intero dell’elemosine che ricevono, ma il terzo stesso delle proprie loro annue rendite nel riscatto de’ schiavi.

I «parcenevoli» e i mercanti, dunque, venuti a conoscenza che due Trinitari, appartenenti a una famiglia religiosa che da secoli si dedicava specificamente al recupero dei captivi cristiani in Nord-Africa e in tutto l’Impero ottomano, si trovavano in città [22] , ne presentavano al doge le opere, producendo, in allegato alla supplica, numerose pubblicazioni che ne magnificavano i successi ottenuti. Il suggerimento per le autorità, insomma, era che si prendesse in considerazione l’opportunità di affidare in esclusiva a loro la materia del riscatto, «col riflesso del molto interesse che tiene il traffico mercantile nella facilità che con tal mezzo ottener si potesse nella liberatione de’ schiavi che cadessero in mano de’ Barbareschi» [23] . Il vantaggio economico che poteva derivare dall’affidare il riscatto ai Trinitari stava nel fatto che essi erano soliti trattare la liberazione contemporanea di numerosi gruppi di schiavi, o addirittura effettuare una «redenzione generale», secondo l’uso già da tempo rodato per i sudditi di altre nazioni, contenendo in tal modo i prezzi e avvalendosi dei benefici offerti dal fatto di mantenere una rappresentanza fissa nelle Reggenze e dalla conoscenza profonda dell’ambiente. Inoltre i padri non desideravano ricevere nessun compenso, in quanto esponenti di un ordine religioso disinteressato. Unico svantaggio rispetto all’opzione, fino a quel momento prevalsa, di trattare ciascun caso separatamente tramite l’interposizione di singoli privati intermediari, era che i padri chiedevano che le somme occorrenti venissero conferite loro prima della partenza della spedizione, e non a posteriori. Pertanto nel caso, non infrequente, di morte di riscattati anteriormente al ritorno a Venezia, il danno economico sarebbe ricaduto in capo al governo; inoltre, sulle somme in entrata nelle Reggenze era necessario pagare pesanti dazi, anche se spesso i religiosi riuscivano, con sotterfugi, a eludere la tassazione sul denaro che recavano colà per i riscatti [24] .

La proposta avanzata dagli armatori venne trasmessa ai Provveditori sopra monasteri, poiché il Senato ritenne che fosse compito di quest’organismo, e non dei Provveditori sopra ospedali, verificare se sussistessero le condizioni per l’accettazione di un nuovo ordine religioso negli Stati veneti. Probabilmente, però, l’efficienza dei sopra ospedali non era stata valutata positivamente, e difatti nel 1724 la soprintendenza sui riscatti venne in pratica loro sottratta e trasferita in capo proprio ai sopra monasteri. Dopo aver soppesato, per lo spazio di un anno e mezzo, questioni e dubbi relativi alla collocazione dei padri, alla loro sussistenza e alle nuove modalità del riscatto, il magistrato riferì in senso positivo al Senato, che di conseguenza provvide con propria deliberazione [25] del 23 aprile 1723 a stabilire l’ingresso dei Trinitari Scalzi a Venezia e la loro sistemazione in un convento ancora incompiuto della vicina isola litoranea di Pellestrina (terra di pescatori e marinai). I religiosi presero alloggio nel maggio successivo accanto alla chiesa dei Ss. Vito e Modesto, appena eretta, per voto pubblico, nel corso dell’ultima guerra contro i Turchi, e ricevettero una contribuzione statale di 200 ducati all’anno per officiarla debitamente. [26] Regolata così la questione del mantenimento, di particolare rilievo appariva il capitolo V delle condizioni di ammissione, il quale stabiliva

che doveranno tenere, in ordine alle loro costituzioni, una cassa particolare distinta e separata da tutte l’altre della religione e di qualsisia provincia, a sollevo unicamente de’ schiavi, nella qual cassa doveranno riporsi tutte le elemosine che si raccoglieranno in questa città e dominio veneto per il riscatto de’ schiavi: delle quali elemosine nel modo infrascritto, e dell’impiego che si sarà fatto, debbano li padri d’anno in anno presentar al magistrato [sopra monasteri] un conto esatto, in forma probante della quantità [27] .

Organizzatisi nella nuova sede, la cui costruzione proseguì ancora per anni, i Trinitari furono pronti a intraprendere le azioni di affrancamento; il 26 maggio 1725 una deliberazione del Senato stabilì che le somme raccolte in Venezia e nello Stato da Terra dovessero essere loro materialmente versate, «onde, unite le summe convenienti per l’effetto desiderato, possano i padri portarsi ne’ paesi degl’infedeli a procurare il riscatto, in cui doveranno esser prefferiti agl’esteri li sudditi nostri» [28] . Il successivo 26 settembre i Provveditori sopra ospedali dovettero accettare che venissero consegnati ai religiosi i denari sino ad allora custoditi nella «cassa-schiavi», e ai Provveditori sopra monasteri le chiavi delle cassette delle elemosine per il riscatto esistenti nelle chiese di Venezia [29] .

Negli stessi mesi in cui i Trinitari giungevano a Pellestrina, si stava sperimentando, per disposizione del Senato, una importante misura tesa a ridurre il rischio di attacchi corsari ai mercantili. Si provava cioè a riprendere il sistema della navigazione in convogli, che prevedeva il raduno a Corfù, due volte l’anno, delle navi da carico destinate a toccare i porti del Levante ottomano (Costantinopoli, Siria ed Egitto), le quali avrebbero poi effettuato tutte insieme il viaggio, sotto la sicura scorta di due navi da guerra. In realtà l’iniziativa dei convogli, ripetutamente proposta, almeno a partire dagli inizi del ’600, come rimedio alla crescente insidia corsara, e realizzata una prima volta nel 1676, ma con esito fallimentare, era aborrita dai mercanti, che temevano i tempi lunghissimi del tragitto di andata e ritorno compiuto da parte di un cospicuo numero di navi, obbligate ad attendersi l’un l’altra e a muoversi tutte assieme, e paventavano soprattutto la discesa dei prezzi provocata dal simultaneo arrivo nei porti di destinazione di grandi volumi di mercanzie. Tale pratica venne ripresa proprio nel luglio 1721 soltanto perché le aggressioni [30] ai mercantili si erano fatte più frequenti [31] .

La prima missione di riscatto dei Trinitari

Si può ipotizzare che le due innovazioni fossero in relazione reciproca: da un lato si mirava a contenere le perdite di navi e di merci (ma si riscontrò presto che la formazione dei convogli, se garantiva un sicuro risparmio sui prezzi d’assicurazione, con un taglio anche di 10 punti e più, dal 12% fino anche al 2%, annullava quasi completamente il vantaggio con le perdite cagionate dalla lentezza del viaggio), dall’altro si volevano razionalizzare le operazioni di recupero degli equipaggi caduti in cattività e facilitarne il rimpatrio a un prezzo più contenuto che in passato. E in questo senso la prima spedizione fu un successo: se essa era potuta apparire dapprima quasi un azzardo, dato che se n’era deciso l’invio pur disponendo di una somma relativamente modesta, la fiducia dimostrata dai religiosi nelle proprie capacità, e probabilmente anche le pressioni della lobby degli armatori, indussero il Senato a stabilire comunque la partenza. La missione si diresse pertanto nell’estate 1726 a Istanbul, capitale ottomana, dove risultavano esistere numerosi «schiavi» veneti, quasi tutti utilizzati dai Turchi come rematori sulle galere; effettivamente i Trinitari padri Maurizio di san Giovanni di Matha e Giuseppe della Madre di Dio riuscirono a riscattarne una cinquantina, al prezzo, giudicato favorevole dal governo, di complessivi ducati 14.441 e soldi 12 valuta corrente, dei quali circa 11.000 raccolti negli stati veneti e gli altri presi a prestito in loco. Il sultano, inoltre, fece dono di tre ulteriori «schiavi» al bailo, l’ambasciatore veneziano che rientrava in patria a conclusione del proprio mandato [32] .

Nel maggio del 1727 i «redenti», per la più parte soldati, bombardieri e marinai caduti in mano ottomana a Corfù e in Morea nel corso della guerra conclusasi ormai da quasi dieci anni, ma anche alcune donne, giunsero in Laguna. Provenendo da paese soggetto a contumacia, essi fecero la quarantena nel Lazzaretto prima di essere autorizzati a sbarcare in città. I religiosi chiesero per tempo alle autorità veneziane di dare solennità a un evento, il riscatto collettivo di un notevole numero di soggetti, in precedenza ben di rado verificatosi a Venezia, «onde apparisca generalmente quanto abbondante sii stato il frutto dell’insigne munificenza e prottezione dell’eccellentissimo Senato, e come ottimamente impiegate le contribuzioni de’ particolari per un’opera tanto meritoria» [33] . Mancava però agli organi di governo un modello cui attingere nella memoria della tradizionale pratica commemorativa e processionale della Repubblica. Supplirono gli stessi Trinitari, proponendo al Senato una memoria indicante le modalità seguite dal loro ordine, almeno dal XV secolo, in altri contesti italiani ed europei. E così avvenne che anche a Venezia si decise di dare alle stampe la nota con i nomi dei liberati e di far loro compiere una maestosa processione, come spesso avveniva altrove. La processione fu organizzata in modo da rendere evidente a tutti che il rientro degli ex-captivi costituiva a ogni effetto un pieno reinserimento degli stessi nella sfera sociale, religiosa e professionale d’origine [34] .

Conclusione

Trascorsi alcuni anni, e conclusasi positivamente anche una nuova spedizione dei Trinitari a Tripoli, con la quale si ottenne la liberazione di altri 24 «schiavi» veneti per 8.238 ducati [35] , oltre che di 6 lombardi pagati a parte, i rapporti, mai troppo facili, tra la Scuola cittadina della SS.ma Trinità, gli organi della Repubblica e quei religiosi entrarono in crisi. Ciò avvenne, probabilmente non a caso, in coincidenza con un ulteriore tentativo di riorganizzazione delle attività mercantili veneziane. Nel 1736, difatti, il Senato, verificato il mancato decollo della navigazione in convoglio, rivelatasi eccessivamente onerosa, e del resto mai completamente accettata dagli armatori, deliberò di passare alla costruzione di appositi bastimenti da carico, le cosiddette navi atte, dotate di un congruo numero di bocche da fuoco (24 cannoni) e teoricamente in grado di difendersi in modo autonomo dagli attacchi corsari grazie ai militi imbarcati. Le agevolazioni offerte dallo Stato per la costruzione delle navi atte (fornitura a prezzi di favore del legname, possibilità di usufruire gratuitamente delle maestranze dell’Arsenale per la costruzione, elargizione a titolo gratuito dei cannoni e parziale copertura pubblica della spesa per i militari) e per il loro impiego in navigazione commerciale (esenzione parziale o totale dai dazi d’uscita, forte riduzione – del 15% o addirittura del 50% – del dazio d’entrata, ulteriori tagli sui dazi di carico e scarico e sui diritti portuali), garantirono per almeno due decenni una certa sicurezza e quindi una parziale ripresa della piazza veneziana, e consentirono un incremento dell’attività mercantile in Levante. Le navi atte poterono addirittura riaffacciarsi su quelle rotte di Ponente che ormai da troppi anni erano state abbandonate a causa della presenza corsara (a meno di non rinunciare al vessillo di San Marco per battere bandiera francese, ponendosi così sotto la protezione, un po’ umiliante, dei buoni rapporti franco-ottomani) [36] . Contemporaneamente, la constatazione che i Trinitari avevano in animo di aggregare il convento di Pellestrina alla c.d. «provincia piemontese» del loro ordine, e soprattutto che intendevano trasferire in una cassa comune a tutta la provincia – senza l’autorizzazione del governo veneziano e in violazione del capitolo V delle condizioni d’ammissione – i fondi affidati loro a beneficio esclusivo del riscatto dei sudditi veneti o di coloro che fossero stati catturati mentre erano al veneto servizio, fece sì che il Senato decidesse di conferire nuovamente l’amministrazione della «cassa-schiavi» ai Provveditori sopra ospedali e luoghi pii, e di tornare quindi, per la gestione dei riscatti, alla situazione ante 1723:

sia preso che resti levata ogn’aministrazione di dette elemosine a’ padri sudetti, e restituito il pristino primiero uso che si faceva sotto la direzione del magistrato sopra ospedali […], e sia incaricato con il suo zelo d’accudire nel modo di tanto tempo pratticato ad un’opera così pia et utile agl’oggetti della carità del Senato, rifferendo qual ne fosse il metodo in passato tenuto per lume, e per quelle ultronee deliberazioni che convenissero [37] .

La drastica misura stabilita dal governo provocò allora, da parte dei padri Trinitari, la scelta di lasciare il territorio della Repubblica [38] . Venezia tornava così, dopo poco più di un decennio di parentesi, alle sue abitudini consolidate. I Trinitari si occuparono nuovamente della liberazione degli «schiavi» veneti, ma con modalità completamente diverse, solo a partire dal 1762, ancora una volta in coincidenza con espresse richieste da parte degli armatori – «secondando le brame dei commercianti» [39] – e con le esigenze di risparmio manifestate dal governo nel momento in cui si giungeva finalmente alla sottoscrizione del sospirato trattato di pace tra la Repubblica e le Reggenze ricordato in apertura.

Riferimenti archivistici

Archivio di Stato di Venezia (ASVe):
  • Provveditori sopra ospedali e luoghi pii (PPOOLLPP)
  • Provveditori sopra monasteri (PPMM)
  • Senato, Deliberazioni, Mar (SM)

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Note

[1] V. Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia, II, Venezia, Coletti, 1771, 226.

[2] Il problema relativo ai rapporti con le Reggenze nel Settecento investì vari Stati italiani, ad esempio il Regno di Napoli: cfr. T. Filesi, Un secolo di rapporti tra Napoli e Tripoli: 1734-1835, Napoli, Giannini, 1983; M. Mafrici, Mezzogiorno e pirateria nell’età moderna (secoli XVI-XVIII), Napoli, E.S.I., 1995.

[3] Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia, cit., II, 232.

[4] Sulla schiavitù mediterranea la bibliografia è vastissima: un orientamento è fornito in S. Bono, La schiavitù nel Mediterraneo moderno. Storia di una storia, «Cahiers de la Méditerranée », 65 (2002), L'esclavage en Méditerranée à l'époque moderne. URL: http://cdlm.revues.org/ document28.html. Per un quadro di sintesi, cfr. S. Bono, Corsari nel Mediterraneo. Cristiani e musulmani tra guerra, schiavitù e commercio, Milano, Mondadori, 1993; M. Lenci, Corsari. Guerra, schiavi, rinnegati nel Mediterraneo, Roma, Carocci, 2006; G. Fiume, Schiavitù mediterranee. Corsari, rinnegati e santi di età moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2009.

[5] D. Panzac, Une activité en trompe l’œil: la guerre de course a Tripoli de Barbarie dans la seconde moitié du XVIIIe siècle, «Revue de l’occident musulman et de la Méditerranée », 47/1 (1988), 130-131 e 139 (126-141); M. Greene, Beyond the Northern Invasion: the Mediterranean in the Seventeenth Century, «Past and Present», 174 (2002), 62 (42-71).

[6] Per qualche esempio italiano, cfr. S. Bono, L'Arciconfraternita del Gonfalone di Roma e il riscatto degli schiavi dai musulmani, «Capitolium», 32/9 (1957), 20-24; G. Boccadamo, La Redenzione dei Cattivi a Napoli nel Cinquecento. Lo Statuto di una Confraternita, Napoli 1985; M. Lenci, Riscatti di schiavi cristiani dal Maghreb. La Compagnia della SS. Pietà di Lucca (secoli XVII-XIX), «Società e Storia», 31 (1986), 53-80; R. Sarti, Bolognesi schiavi dei “Turchi” e schiavi “turchi” a Bologna tra Cinque e Settecento: alterità etnico-religiosa e riduzione in schiavitù, «Quaderni storici», 2 (2001), 437-474.

[7] Su assistenza e sanità a Venezia in età moderna ci si limita a rimandare a Aikema, Meijers 1989, e alla bibliografia citata. Sui Provveditori sopra ospedali e luoghi pii, per la specifica attività di riscatto degli schiavi, cfr. Davis 2000, 454-487.

[8] I compiti del magistrato sono specificati molto chiaramente nella parte (=deliberazione) istitutiva dello stesso a opera del Senato veneziano, 1561 luglio 24: Archivio di Stato di Venezia (ASVe), Provveditori sopra ospedali e luoghi pii (PPOOLLPP), busta (b.) 1, «Capitolare I», sub data.

[9] B. Pullan, La nuova filantropia nella Venezia cinquecentesca, in B. Aikema, D. Meijers (eds.), Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna 1474-1797, Venezia, Arsenale Editrice, 1989, 28.

[10] ASVe, PPOOLLPP, b. 1, «Capitolare I», sub data. Cfr. anche Parti et Ordini Concernenti alla Liberatione de poveri Schiavi, Venezia, Pinelli, s. d. [fine sec. XVII].

[11] ASVe, PPOOLLPP, b. 1, «Capitolare I», deliberazione del Senato 1587 febbraio 19 (1586 more veneto), che riprende testi precedenti.

[12] Sulla «Scuola» veneziana della Ss.ma Trinità, cfr. Manuale ristretto 1740, 28-29; Prodi 1990, 71-72; Scarabello 1992, 213-220.

[13] Terminazione (=provvedimento) 1604 agosto 4: ASVe, PPOOLLPP, b. 1, «Capitolare I», sub data.

[14] ASVe, PPOOLLPP, b. 1, «Capitolare I», c. 133 ss., terminazione 1735 luglio 8; essa richiama disposizioni precedenti.

[15] ASVe, PPOOLLPP, b. 1, «Capitolare I», c. 133 ss., terminazione 1735 luglio 8. Per ovviare al problema, fu allora stabilito che a ciascuno «schiavo» potessero essere fatte le promesse di «elemosina» solo se il necessario contante fosse stato disponibile in cassa, cosicché, in caso di felice conclusione del riscatto, al momento del ritorno degli «schiavi» medesimi risultasse pronta al pagamento la somma promessa, «con che non siano neccessitati a rissentir li pregiudicii sin ora corsi nelli particolari inonesti contratti». Per potere praticamente osservare tale metodo, le promesse agli «schiavi» si sarebbero dovute fare solo due volte l’anno, nei mesi di marzo e di settembre; in tali occasioni si sarebbero esaminate le suppliche pervenute e si sarebbe proceduto a verificare le effettive situazioni di schiavitù, distribuendo pro capite le somme raccolte nel corso dell’anno.

[16] Per la ripresa del commercio veneziano nel XVIII secolo e per le sue alterne vicende, cfr. U. Tucci, La marina mercantile veneziana nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano», 2 (1960), 156-157 (155-200).

[17] In una bibliografia ricca di contributi, cfr., da ultimo, D. Bressan, Alla vigilia del crollo. Il riformismo veneziano della seconda metà del Settecento, «Studi Veneziani», n.s. 52 (2006), 343-354.

[18] Tucci, La marina mercantile veneziana nel Settecento, cit., 160; A. Tenenti, L’assicurazione marittima, in A. Tenenti, U. Tucci (eds.), Storia di Venezia, vol. XII, Il Mare, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, 677.

[19] Che produsse anche, anni dopo, a coronamento di decenni di elaborazione teorica, la redazione del nuovo Codice per la veneta mercantile marina e la riorganizzazione dei lazzaretti lagunari e di tutta la rete di assistenza sanitaria ai naviganti [Zordan 1981-1987; Costantini 1998, 593-597].

[20] Per la prima cifra, desunta dalla deliberazione senatoria del 3 giugno 1588, cfr. R.C. Davis, Slave Redemption in Venice, 1585- 1797, in J. Martin, D. Romano (eds.), Venice reconsidered. The History and civilization of an Italian city-state, 1297-1797, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2000, 457; le altre sono riportate nella scrittura dei Provveditori sopra monasteri al Senato del 1728 ( 1727 m .v.) gennaio 16: ASVe, Provveditori sopra monasteri, b. 6, reg. IV, c. 143v. ss.; cfr. anche A. Sacerdoti, I padri Trinitari Scalzi a Venezia (1723-1735), «Studi Veneziani», 7 (1965), 436 (433-441), che cita i dispacci del bailo a Costantinopoli.

[21] Sul Perulli, cfr. Tucci, La marina mercantile veneziana nel Settecento, cit., 177n.

[22] O erano stati invece informalmente invitati proprio dagli armatori? Il sospetto rimane forte. Per una prima informazione sui padri Trinitari cfr., nell’ambito di una bibliografia molto ampia, la trattazione agile e completa di G. Cipollone, Cristianità-Islam. Cattività e liberazione in nome di Dio, Città del Vaticano, Ed. Pontificia Università Gregoriana, 2003 (1. ed. 1992), 394-448.

[23] ASVe, PPOOLLPP, b. 98, fasc. 117, supplica dei «parcenevoli» e dei capi di piazza al doge, luglio 1721.

[24] Cfr. A. Sacerdoti, Due documenti della seconda metà del 18° secolo relativi alla schiavitù cristiana nelle reggenze di Algeri e Tunisi, «Acta Ordinis SS. Trinitatis», 4/7 (1948), 9.

[25] «Persuasa già la maturità di questo consiglio, anche per secondare li riccorsi dei capi di piazza e de’ parcenevoli, del molto profitto che verrebbe a ritrarsi dall’introduttione a questa parte dei padri scalzi della Ss.ma Trinità» [ASVe, SM, reg. 189, 48v. ss.: decreto 1723 aprile 23].

[26] La chiesa doveva essere officiata «con celebrazione di due messe giornaliere applicate alle intenzioni e per il bene della Repubblica; escluso qualunque altro pubblico gravame» [Sandi 1772, 203].

[27] ASVe, PPOOLLPP, b. 98, fasc. 116.

[28] ASVe, PPOOLLPP, b. 1, «Capitolare I», sub data. Cfr. anche Sacerdoti, I padri Trinitari Scalzi a Venezia (1723-1735), cit., 433-441.

[29] ASVe, PPOOLLPP, b. 1, «Capitolare I», sub data.

[30] Scarso esito avevano avuto infatti i tentativi di giungere a un’intesa diretta con i Maghrebini, che la Repubblica stava conducendo, ancora una volta su sollecitazione dei rappresentanti del ceto mercantile, almeno dal 1718 [Sacerdoti 1957, 276-278].

[31] G. Cappovin, Tripoli e Venezia nel secolo XVIII, Verbania, Airoldi, 1942, 56 ss.; A. Sacerdoti, Venise e les Régences d’Alger, Tunis et Tripoli (1699-1764), «Revue Africaine», 452/453 (1957), 276-278 (273-297); Tucci, La marina mercantile veneziana nel Settecento, cit., 158-172.

[32] La media è di 288 ducati pro capite. Cfr. Sacerdoti, I padri Trinitari Scalzi a Venezia (1723-1735), cit., 436-437.

[33] ASVe, PPOOLLPP, b. 103, fasc. 4, scrittura dei provv. sopra monasteri 1727 maggio 7.

[34] Cfr. Sacerdoti, I padri Trinitari Scalzi a Venezia (1723-1735), cit., 437; L. Urban, Processioni e feste dogali. “Venetia est mundus”, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1998, 153-176; Davis, Slave Redemption in Venice, 1585-1797, cit., 470 ss. Per lo specifico aspetto simbolico, nell’organizzazione processionale, del ritorno alla sfera sociale e religiosa d’appartenenza originaria di soggetti vissuti in cattività in un ambiente “altro”, in un contesto di “ibridazione culturale”, cfr. Sarti, Bolognesi schiavi dei “Turchi” e schiavi “turchi” a Bologna tra Cinque e Settecento: alterità etnico-religiosa e riduzione in schiavitù, cit., e G. Ricci, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2002, 173-192.

[35] Per una media di 343 ducati pro capite. Cfr. E. Rossi, Una missione di Redentoristi a Tripoli di Barberia nel 1730 sotto Ahmad I Caramanli, «Rivista degli Studi Orientali», 10 (1923), 141-144; Sacerdoti, I padri Trinitari Scalzi a Venezia (1723-1735), cit., 437 ss.

[36] D. Beltrami, La crisi della marina mercantile veneziana e i provvedimenti del 1736 per fronteggiarla, «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», 13 (1942), 304-318; Tucci, La marina mercantile veneziana nel Settecento, cit., 175 ss.; M. Costantini, Commercio e marina, in P. Del Negro, P. Preto (eds.), Storia di Venezia, VIII, L’ultima fase della Serenissima, Roma, Ist. dell’Enciclopedia Italiana, 1998, 569 ss. (555-612).

[37] ASVe, PPOOLLPP, b.1, «Capitolare I», deliberazione del Senato 1735 aprile 23.

[38] Sacerdoti, I padri Trinitari Scalzi a Venezia (1723-1735), cit., 439 ss.

[39] C.A. Marin, Storia civile e politica del Commercio de’ Veneziani, VIII, Venezia, s.e., 1808, 328.