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La liberazione di Gorizia: 1 maggio 1945 Identità di confine e memorie divise: le videointerviste ai testimoni

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Premessa: confini, memorie, identità

Studiare un confine, una borderland, vuol dire affrontare un complesso nodo di questioni che non possono limitarsi agli aspetti politici, militari e geografici. La costruzione o cancellazione di un confine, la sua modificazione o spostamento, obbligano a confrontarsi anche con «l’intreccio tra il loro profilo territoriale e quello che invece si gioca sul piano delle identità e delle appartenenze, [con] i diversi significati attribuiti alle frontiere dai diversi soggetti politici e sociali»[1]. Questioni politiche, geografiche, storiche, quindi, ma anche mentali, simboliche e identitarie.

Liberazione di Gorizia, 1945: manifestazione filojugoslava (Fonte: Archivio fotografico dell' Istituto friulano per la Storia del Movimento di
Liberazione
Liberazione di Gorizia, 1945: manifestazione filojugoslava (Fonte: Archivio fotografico dell' Istituto friulano per la Storia del Movimento di Liberazione

In questa sede, si propone l’analisi di un’area di frontiera – la Venezia Giulia e, più nello specifico, il territorio goriziano – volta ad indagare la complessa questione dell’identità nazionale in una fase di grande mutamento e profonda incertezza: la liberazione della città avvenuta il primo maggio 1945.

In questo tipo di esplorazione si assumeranno come fonte privilegiata i racconti di vita dei testimoni, italiani e sloveni, che vissero a Gorizia durante quel periodo. Si cercheranno di analizzare le complesse dinamiche che legano la ridefinizione di un confine fisico con la definizione delle identità individuali e collettive. In questo quadro, la fonte orale sarà assunta come «testo da analizzarsi a più livelli e da comprendere ermeneuticamente, […] come un testo in cui la verità fattuale di ciò che il soggetto dichiara può essere meno rilevante della sua verità emotiva, e in cui i contenuti di ciò che è narrato, a volte, sono meno importanti dei modi in cui sono espressi»[2]. Come ha scritto spesso Alessandro Portelli: «le fonti orali ci informano più ancora che sugli avvenimenti, sul loro significato»[3] per i singoli individui e per i gruppi. Ci aiutano a comprendere come, nella percezione degli eventi, «si insinuino l’immaginario, il simbolico, il desiderio»[4], tutti elementi che entrano in stretta relazione con le identità, con la definizione e percezione che ognuno ha di sé.

In particolare, si concentrerà l’attenzione sulle modalità del racconto dei testimoni cercando di far emergere le differenze e le somiglianze fra coloro che oggi si identificano come italiani, come sloveni o come “minoranza slovena in Italia”. Si analizzerà cosa viene ricordato e cosa viene relegato nell’oblio, accennando ad alcuni espedienti discorsivi e retorici che fanno emergere in modo più o meno consapevole i sentimenti provati, le paure e i desideri, i giudizi su ciò che stava avvenendo. Le memorie, legate alle scelte compiute e ai contesti e gruppi in cui ognuno ha vissuto, possono essere di grande aiuto per capire se, come e quando e secondo quali percorsi mentali si siano create identità di tipo nazionale a partire da una situazione di grande incertezza e fluidità nella definizione del sé.

Tale situazione di fluidità della definizione identitaria nella popolazione è legata al fatto che il goriziano (che attualmente comprende le città di Gorizia in Italia, Nova Gorica in Slovenia e i comuni limitrofi) si è sempre caratterizzato per essere una zona di confine, un’area di frontiera dove per molti secoli hanno convissuto e si sono confrontati gruppi differenti per origine, lingua e cultura. Un’area in cui, per lungo tempo, hanno prevalso identificazioni di tipo regionale, sociale, culturale. Questa situazione inizia, però, a mutare nel corso del Novecento, e soprattutto nel periodo tra la fine della prima e la fine della seconda guerra mondiale, quando si sono susseguiti: il crollo dell’Impero austro-ungarico, l’ascesa del fascismo, l’applicazione di politiche di snazionalizzazione e assimilazione, i due anni di occupazione tedesca e la seguente lotta di liberazione. Punto d’arrivo e data simbolo di questi processi è il primo maggio del 1945.

Questa data rappresenta, dopo l’8 settembre, un nodo fondamentale nella storia della città e nella memoria dei testimoni che vissero quei giorni. La questione nazionale si pone al centro della vita pubblica e del dibattito politico. Ed è proprio a partire da questa data che le memorie dei testimoni appartenenti a diversi gruppi linguistici, politici, sociali e culturali iniziano ad assumere configurazioni, contenuti e strutture molto diverse e spesso contrastanti.

I giorni precedenti: come si arrivò alla liberazione

Non potendo ripercorrere nel dettaglio i complessi fatti che si sono susseguiti in quei giorni, vorrei qui accennare solo ad alcuni degli eventi che hanno portato alla liberazione di Trieste e Gorizia. Il 28 aprile 1945 il Cln di Trieste si trovava in uno stato di febbrile attesa. Sia il Corpo volontari per la libertà (Cvl) - il movimento clandestino del Cln - sia Unità operaia, la struttura alle dipendenze del comando di città del IX corpo d’armata dei partigiani jugoslavi, attendevano il momento più adatto per far incominciare l’insurrezione. Per le forze italiane, che potevano contare su non più di 3000 uomini, era necessario insorgere non troppo prima dell’arrivo degli alleati occidentali, ma comunque prima che la città venisse occupata dagli jugoslavi[5]. Le formazioni filo jugoslave, invece, erano frenate dagli stessi comandi del IX Corpus che, nell’attesa dell’ingresso in città dell’esercito della IV armata, volevano evitare inutili scontri e violenze con gli insorti filo-italiani. Intanto, era già avvenuta una parziale ritirata delle truppe tedesche e collaborazioniste e nelle altre città della Venezia Giulia ci si stava attrezzando allo stesso modo.

Anche a Gorizia si verificarono contrasti fra le forze antifasciste presenti in città. Una delicata riunione del Cln si tenne il 29 aprile, a casa di Angelo Culot (Dc) in via XXIV Maggio. Erano presenti i membri del Cln — Olivi, Sverzutti, Pettarin e Forchiessin — e alcuni membri dell’Of (Fronte di liberazione sloveno), fra cui Petek, Kominanz, Nanut, Orelo e Bregant[6]. La situazione era complessa: i tedeschi avevano concentrato circa 3.000 uomini dai presidi esterni e si apprestavano a partire, non prima di aver sabotato alcune strutture strategiche della città. Inoltre, in periferia erano accampati oltre 20.000 cetnici che costituivano la retroguardia delle forze naziste[7].

Un punto di vista dall’interno ci viene fornito da Dario Culot, figlio di Angelo, che faceva l’usciere durante le riunioni del Comitato. Dal suo racconto emerge chiaramente come il punto di disaccordo tra il Cln e l’OF riguardasse la futura collocazione nazionale della città. Alla fine, il governo provvisorio nominato dal Cln e dall’Of, «constatata l’impossibilità del progetto insurrezionale a causa delle soverchianti forze nemiche»[8], decise di raggruppare tutti i militari all’esterno della città al fine di evitare scontri impari e inutili spargimenti di sangue con le retrovie dell’esercito avversario.

Nel frattempo, alle 5.20 del 30 aprile, le sirene di Trieste dettero l’annuncio dell’insurrezione generale. Ad essa presero parte sia il Cvl sia Unità operaia[9]. Nonostante alcuni parziali risultati, il tentativo di espellere totalmente i tedeschi dalla città non andò a buon fine. Il giorno seguente i primi effettivi dell’esercito jugoslavo entrarono in città. Poiché l’VIII armata inglese non era in vista, al Cln non restò altra scelta che ritirarsi dai combattimenti per non trovarsi costretto allo scontro con i partigiani jugoslavi. Il pomeriggio del 2 maggio le forze jugoslave presero possesso dei simboli del potere, conducendo fuori dalla prefettura i rappresentanti del Cln.

A Gorizia — mentre nella periferia ovest della città proseguivano gli scontri tra civili armati e i cetnici iniziati il giorno precedente — il primo maggio arrivò un comando partigiano jugoslavo guidato dal commissario “Boro” che si istallò alla prefettura. Allo stesso tempo giunse in città un piccolo gruppo di ufficiali neozelandesi che però decise di non agire, visto anche il numero esiguo, in attesa delle truppe inglesi e americane. “Boro” chiese formalmente ai membri del Cln l’autorizzazione a prendere il comando della città e delle forze armate cittadine affermando che i partigiani di Tito rappresentavano a livello internazionale l’unica forza di Resistenza operante e riconosciuta in Jugoslavia. Il Cln non aderì alla richiesta sostenendo il ruolo avuto dalle forze italiane durante gli scontri con i cetnici. Il giorno seguente i partigiani jugoslavi presero il potere con la forza, disarmando le esigue truppe ai comandi del Cln[10]. Era il giorno del trionfo per le truppe partigiane jugoslave e per i loro sostenitori. Il 2 maggio la città venne “invasa” da una folla di gente proveniente soprattutto dal circondario che inneggiava all’appartenenza di Gorizia alla Jugoslavia e manifestò a lungo per le vie del centro.

Dal maggio del 1945, per circa quaranta giorni, la Venezia Giulia rimase sotto il controllo delle forze partigiane di Tito.

1 maggio 1945: la “duplice liberazione” nelle memorie dei testimoni

I racconti di vita dei testimoni[11] ci forniscono una serie di “versioni contrastanti” su ciò che avvenne il primo maggio. Troviamo “memorie individuali divise”, ricordi che, da un lato, hanno contribuito alla costruzione di memorie collettive polarizzate e, dall’altro, sono il frutto di discorsi pubblici nazionali contrapposti sviluppatisi in Italia e in Jugoslavia (poi Slovenia) nel corso di sessanta anni. Stabilire chi avesse liberato la città e, di conseguenza, chi avesse il diritto di governarla divenne immediatamente un elemento centrale all’interno del dibattito sulla collocazione nazionale dell’area e ben presto costituì anche un fattore fondamentale del processo di affermazione di un’identità di tipo nazionale da parte della popolazione. Molte memorie si sono formate e sedimentate sull’onda dei discorsi pubblici tesi ad affermare da un lato il mito della liberazione da parte delle “forze democratiche ed egalitarie” rappresentate dai partigiani di Tito, e dall’altro, quello dell’occupazione militare e violenta della città da parte di un esercito nazionalista mosso solo da mire annessionistiche.

R. S., italiana, nata a Roma nel 1916, si trasferisce a Gorizia in giovane età a seguito del padre ferroviere.

Nella sua testimonianza R. S. non ci racconta cosa avvenne di preciso in quei giorni convulsi. Ricorda, correttamente, che i primi ad arrivare furono i neozelandesi e poi ci riporta un’immagine della sfilata dei partigiani attraverso il corso principale. Questo frammento di testimonianza evidenzia almeno due questioni fondamentali e ricorrenti. Innanzitutto mette in luce la centralità che assunse, anche nella percezione della popolazione comune, la questione di chi fosse entrato per primo in città. In secondo luogo, è interessante notare come nel suo ricordo, l’arrivo dei partigiani sia vissuto come l’inizio di una “tragedia”.

Per una buona parte della popolazione italiana, infatti, i giorni di amministrazione titina sono visti come giorni tragici, di forti incertezze e paure legate alle ritorsioni, alle delazioni e alle deportazioni che si verificarono in quei giorni. Bisogna però tener conto alcuni elementi fondamentali che ci aiutano a capire meglio come mai il ricordo di molti testimoni italiani, anche di coloro che non subirono alcuna violenza, si focalizzi quasi unicamente sul problema delle deportazioni. In primo luogo, assume un ruolo molto importante il ricordo delle “foibe del 1943” in Istria - riguardo alle quali si erano sviluppati una moltitudine di racconti personali e pubblici – e l’uso propagandistico che ne fecero i nazisti. In secondo luogo, non si può sottovalutare la centralità che il problema delle foibe del 1943 e del 1945 ha assunto nel dibattito politico negli anni successivi alla fine della guerra ma anche negli ultimi decenni, dibattito che in alcuni casi ha recuperato “immagini” e strategie propagandistiche non troppo dissimili da quelle utilizzate dopo le foibe istriane. È naturale, quindi, che nella memoria degli italiani siano rimaste impresse soprattutto emozioni di paura e incertezza. In quei giorni si aveva timore di parlare perché non si sapeva cosa sarebbe potuto accadere. Inoltre, il pericolo che la città rimanesse sotto la Jugoslavia si fece estremamente concreto e per ampia parte della popolazione italiana di Gorizia questo era visto come un’ulteriore insicurezza e preoccupazione. Anche nella Relazione della commissione storico-culturale italo-slovena[12] si ricorda che: «i giuliani favorevoli all’Italia considerarono l’occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia».

Al contrario, molti sloveni vissero il primo maggio e i giorni che seguirono come il momento del riscatto. Buona parte della popolazione non era mossa da esasperati sentimenti nazionalistici o da volontà annessionistiche esplicite. Il momento della liberazione da parte dell’armata jugoslava era visto innanzitutto come la sconfitta delle forze fasciste e naziste, una sconfitta conquistata dal popolo jugoslavo dopo molti anni di soprusi e dopo una lunga lotta di liberazione. È abbastanza comprensibile, quindi, che la popolazione slovena vedesse, come conseguenza ovvia della liberazione, l’instaurazione di un’amministrazione slava al posto delle forze nazi-fasciste e, poi, un’annessione dell’area a quella che appariva come la democratica e antifascista Jugoslavia.

Altrettanto significativi, su questi aspetti, sono i ricordi di Dario Culot. Bisogna considerare che, durante il periodo di amministrazione jugoslava il padre di Culot, Angelo, fu più volte arrestato e interrogato in quanto membro Dc del Cln. Il periodo fu, quindi, estremamente delicato per la sua famiglia anche se Angelo non fu né torturato né deportato. Dario, nel suo racconto, tende a sorvolare sul momento dell’ingresso in città dei partigiani, non lo descrive e non si sofferma sulle dinamiche di liberazione della città. Sembra quasi che voglia porre in secondo piano il ruolo e la rilevanza dell’azione dei partigiani assumendo come soggetto principale della sua narrazione le forze alleate. Ammette che i partigiani sono entrati per primi in città ma poi sottolinea come gli anglo-americani avessero iniziato fin da subito a prendere possesso di alcuni luoghi simbolo. Non menziona né gli scontri che ci furono, né la sfilata e le manifestazioni di giubilo per l’arrivo dei partigiani. Inoltre, per Dario come per molti altri italiani, l’effettivo momento della liberazione coincide con l’arrivo degli americani, con le loro scorte di cibo e sigarette, e non con l’ingresso delle truppe di Tito.

In maniera totalmente opposta si struttura la memoria di T. M., sloveno, nato a Salcano nel 1932. Durante il fascismo la sua famiglia è conosciuta in città per la gestione di un’osteria ai piedi del Monte Santo. È il centro di raccolta dei “pellegrini” prima di salire sul monte. Un punto d’incontro per tutta la popolazione: friulani, italiani, sloveni, croati. Il padre frequenta l’università a Graz e poi a Vienna. Dopo essersi sposato si trasferisce con la moglie slovena in piazza Vittoria a Gorizia. Durante il secondo conflitto aiuta i partigiani, viene denunciato e arrestato. Una volta uscito di prigione, decide di andare in montagna nei pressi di Tarnova. Fa il medico nelle retrovie partigiane, curando i combattenti feriti o trasportandoli in alcuni ospedali. T. M. e la madre salgono in montagna quasi ogni fine settimana per portare al padre dei vestiti puliti e del cibo. Per il pericolo dei bombardamenti la famiglia di T. M. ritorna a vivere dalla nonna a Salcano. Durante una delle numerose visite ai partigiani, dopo un forte bombardamento, T. M. e la madre sono costretti a rimanere con il battaglione e ritirarsi con loro da Tarnova per andare a Circhina. Dopo questa avventura, il testimone dichiara di essere tornato a casa cambiato, nonostante la giovane età (12 anni). Insiste per entrare a tutti gli effetti nei gruppi partigiani. Il padre non condivide il desiderio del figlio e perciò T. M. è costretto a rimanere a casa. Comincia, così, a collaborare con un “gruppo di saccheggio locale”, una banda di minorenni che compiono diverse azioni di sabotaggio, rubano i cavalli ai cosacchi, tagliano fili del telefono e linee elettriche. Hanno sempre con loro anche delle pistole, rubate nelle case di qualche soldato. «Eravamo dei bambini che facevano la guerra», ripete più volte.

T. M. racconta il primo maggio come il giorno di una grande avventura. Il suo ricordo è chiaro e nitido. L’ingresso dei partigiani a Gorizia è, per lui, l’occasione di avverare il suo sogno di collaborare con la Resistenza. Vista anche la giovane età, gli eventi assumono il sapore eroico dell’avventura ma anche dell’incoscienza. Tali modalità narrative ritorneranno anche nei suoi racconti riguardo alle manifestazioni contrapposte filoitaliane e filo jugoslave del 1946.

Per T. M. il problema di chi fosse entrato per primo a Gorizia non si pone. Nel suo racconto le truppe alleate non compaiono. Gli unici liberatori della città sono i partigiani jugoslavi. Il testimone ricorda il loro ingresso come una marcia eroica accompagnata dagli applausi e dalla gioia della popolazione. Per lui il primo maggio è il giorno della definitiva affermazione dell’identità slava della città grazie all’azione liberatrice dei partigiani. È significativo il fatto che, nonostante avesse solo dodici anni, T. M. si ricordi così nitidamente che la prima cosa che fece una volta entrato a Gorizia con i partigiani, fu appendere la bandiera con la stella rossa alla finestra.

Rispetto all’immagine dei partigiani deboli, malconci e con i piedi gonfi che ci viene fornita da alcune testimonianze femminili, nel racconto di T. M. prevale una descrizione in termini eroici che evidenzia la grande marcia, la forza del battaglione e il successo nella lotta contro i cetnici. In questo senso, bisogna sottolineare il ruolo centrale che assumono le armi nel suo ricordo. È inoltre evidente il forte senso di identificazione del testimone con l’esercito partigiano. Egli sottolinea a più riprese la sua partecipazione diretta a quegli eventi, il fatto che lui, come molti suoi compagni, avesse cercato di unirsi alla colonna che stava entrando in città, e si fosse trovato coinvolto in scontri a fuoco. Afferma orgogliosamente di non aver avuto paura. Il primo maggio è il giorno dell’orgoglio slavo. Gli sloveni si sentono gli unici liberatori della città e affermano, in questo modo, la slovenità della città. I sentimenti provati appaiono quindi opposti a quelli degli italiani.

È interessante notare che nelle testimonianze di Dario Culot e di R. S., come in quelle di molti altri italiani, la popolazione di Gorizia viene descritta essenzialmente passiva. Sembra subire gli eventi. La gente è spaventata e confusa, distingue con difficoltà gli eserciti che entrano in città e rimane sostanzialmente in attesa. A prevalere sono il sospetto e i timori per l’incertezza su ciò che sarebbe potuto succedere. Il punto di vista di T. M. è opposto. La popolazione slovena appare fortemente attiva, collabora con i partigiani per favorire la liberazione.

Elementi simili si ritrovano anche nel racconto di S. M., nato nel 1928 a Savogna d’Isonzo, paese di cultura slovena oggi situato in Italia. La madre era di Savogna, il padre di Volčnja Draga (Valvociana). «Si parlava sempre solo sloveno dappertutto, l’unico posto dove era d’obbligo parlare italiano era la scuola e lì erano molto severi»[13]. S. M. entra subito nelle formazioni partigiane slave, insieme al padre che, già abbastanza anziano, era stato ferito nei battaglioni speciali. S. M. viene messo sotto il diretto comando dei comandanti del battaglione. Rimarrà ai loro ordini fino alla fine della guerra, guidandoli anche nei rastrellamenti per le strade di Gorizia.

Anche in questo racconto, l’ingresso in città viene raccontato sottolineando il fatto che le battaglie non erano ancora finite, i partigiani dovettero lottare per conquistare la città. L’aver combattuto e liberato la città legittimava “la presa del potere” e sanciva, una volta per tutte, il carattere slavo della città.

I ricordi femminili appaiono alquanto differenti. A. B., di origine slovena, ricostruisce la cronologia dei fatti in maniera abbastanza corretta, aiutata forse dal fatto che per tutto quel periodo aveva lavorato in un negozio di giocattoli in centro a Gorizia. Nel 1947 decide di restare a vivere a Salcano, quartiere sloveno di Gorizia passato, poi, alla Jugoslavia.

I ricordi della testimone si concentrano soprattutto sul susseguirsi delle varie occupazioni della città da parte di diversi eserciti e sui differenti aspetti fisici delle truppe occupanti. I partigiani jugoslavi sono riconosciuti come i più poveri e rozzi, sia rispetto ai tedeschi che rispetto agli americani, ma questo sembra essere un elemento positivo. Anche altri passaggi del suo racconto lasciano intendere che la povertà e le cattive condizioni dei liberatori significavano, per la testimone, che i partigiani erano dalla loro parte, che avevano subito anche loro le violenze della guerra allo stesso modo della popolazione e ciò rendeva ancora più meritoria la loro opera di liberazione della città. L’immagine poco eroica dei partigiani assume un valore positivo, in quanto diventa simbolo dell’attenzione che i poteri popolari avrebbero avuto verso le componenti più disagiate. Al contrario, se andiamo ad analizzare le memorie di alcuni testimoni italiani, l’immagine dei partigiani “straccioni e malconci” che entrarono in città assume un significato tutt’altro che positivo[14].

Questi combattenti non avevano quasi nulla in comune con gli sloveni che abitavano da molto tempo la zona. Anche la lingua e le usanze erano diverse, poiché molti provenivano dalla Bosnia, dalla Serbia o da altre zone dei Balcani. Questa immagine degli slavi poveri, straccioni, ignoranti e rozzi viene percepita da tanti italiani come la minaccia di un ribaltamento drammatico dell’ordine sociale precedente. Ci si affacciava ad un altro mondo, tutt’altro che rassicurante e desiderabile.

La descrizione dei soldati alleati, come abbiamo visto anche nel caso di Dario Culot, è molto diversa, anzi, quasi opposta. Gli americani sono l’incarnazione stessa del benessere e dell’abbondanza, distribuiscono cioccolata, pane bianco e sigarette alla popolazione, organizzano feste e balli. Ma anche in questo caso, gli indicatori di benessere saranno interpretati, a volte, con valenze opposte. Molti, infatti, percepiscono questi soldati come eccessivamente dissoluti e immorali, interessati solamente a festeggiare e a corteggiare le ragazze del luogo e poco attenti alle effettive esigenze della popolazione stremata dalla guerra. Questi elementi critici li ritroviamo anche nel racconto dello stesso Culot.

I ricordi divergenti riguardanti gli slavi e gli americani sono un ottimo esempio delle differenze d’immaginario che si stavano consolidando in quegli anni, differenze che si legavano per lo più alle diverse aspettative di ogni gruppo e al vissuto di ogni individuo. Questi immaginari contrapposti andranno, poi, a consolidarsi nella costruzione di memorie altrettanto divergenti.

Alcuni degli elementi proposti da A. B. li ritroviamo nel racconto di un’altra donna A. D.: madre italiana (di Gradisca d’Isonzo) e padre sloveno, A. D. vive a lungo a contatto con la comunità slovena di Gorizia. Inizia a collaborare con i partigiani sloveni già prima dell’8 settembre. Successivamente, durante tutto il periodo di amministrazione alleata, sarà una convinta attivista delle associazioni filo jugoslave.

I ricordi di A. D. sono densi di stimoli. Come A. B., anche lei mette in luce il lato antieroico delle truppe partigiane, sottolineando come avessero bisogno dell’aiuto della popolazione. In qualche modo fornisce una visione dei combattenti più umana, eliminando gli aspetti violenti e insistendo, piuttosto, su come gli jugoslavi avessero lottato duramente per la liberazione della città. Il fatto di evidenziare le debolezze dei partigiani e lo scarso aiuto prestato dalla popolazione si pone in aperto contrasto con i discorsi dominanti in area italiana che descrivono le forze di Tito come degli occupatori violenti, desiderosi di vendetta verso la popolazione italiana, e spinti unicamente da mire annessionistiche. Questa strategia si ritrova anche nella parte finale della testimonianza qui riportata. A. D. ricorda come, durante i quaranta giorni, non furono deportati soltanto coloro che erano ritenuti conniventi col fascismo o politicamente avversi alla causa socialista e jugoslava. Ci furono molti casi di violenze dovute a ritorsioni e vendette personali, perpetrate anche da italiani verso altri italiani. Il problema delle deportazioni avvenute durante i quaranta giorni fu, insieme alla liberazione della città, uno degli elementi fondamentali nella costruzione e nella trasmissione delle memorie individuali e collettive su quel periodo.

L’analisi di queste testimonianze può farci ragionare anche sui differenti tipi di socializzazione dell’esperienza all’interno dell’universo maschile (uomini che spesso erano stati partigiani) e all’interno di quello femminile. Le narrazioni riguardanti questi eventi si costruiscono, si sviluppano e si modificano in contesti sociali diversi. Gli uomini tramandavano le loro memorie soprattutto all’interno di gruppi di ex partigiani, nelle associazioni di militanti, nelle sedi di partito o durante le manifestazioni pubbliche a cui, spesso, erano invitati a parlare, ed è quindi facile che gli aspetti eroici tendessero a prevalere, a riproporsi e a consolidarsi nella memoria collettiva. Le donne, invece, erano generalmente più restie a condividere i propri ricordi in pubblico e quando ciò avveniva il contesto era, per lo più, quello domestico. È comunque interessante notare che, per quanto riguarda i testimoni sloveni, sia nei racconti maschili che in quelli femminili, la popolazione assume un ruolo attivo. In un caso partecipano direttamente alla lotta e alla liberazione della città, nell’altro corrono in soccorso dei partigiani.

Dalla narrazione di A. D. emergono anche alcuni elementi che ci spiegano come l’inizio di maggio sia stato un periodo fondamentale per la definizione delle identità nazionali. In questi giorni, in cui l’incertezza su ciò che sarebbe avvenuto e sul destino di Gorizia erano grandi, si tennero le prime importanti manifestazioni per affermare l’identità nazionale della città. Furono le prime occasioni pubbliche in cui era possibile dichiarare e rivendicare apertamente la propria appartenenza al gruppo filo-italiano o a quello filo-jugoslavo nella speranza di influenzare il corso degli eventi. La popolazione iniziava a radunarsi e a scendere in piazza, sfilava per le strade con cartelli e striscioni per affermare il carattere nazionale di Gorizia[15].

La complessità e la repentinità degli eventi dell’inizio di maggio traspare dal concitato racconto di A. M.. Nata a Gorizia nel 1930 in una famiglia “mista”, padre goriziano e madre slovena, A. M. passa l’infanzia e la giovinezza a Gorizia. Frequenta assiduamente la Casa del Popolo dove conosce il suo futuro marito. La sua abitazione si trova in via San Gabriele, una delle vie che dal ’47 verranno attraversate dal confine. Quando la frontiera viene fissata, A. M. e la sua famiglia traslocano in Jugoslavia rimanendo sempre sulla stessa via, ma subito al di là della linea. Dopo alcuni anni, appena possibile, A. M. decide di riacquisire anche la cittadinanza italiana, a cui aveva dovuto rinunciare. «Volevo indietro quello che mi apparteneva», ci dice. Oggi vive tra le due città: durante la settimana abita dalla figlia a Gorizia e si fa chiamare A. T. (cognome del marito), nel fine settimana si trasferisce a Nova Gorica con il nome di A. M.

I ricordi della testimone sono senz’altro confusi ma possono evidenziare alcuni elementi interessanti. Da un lato, emerge un giudizio abbastanza chiaro sulla liberazione della città. Secondo lei i partigiani jugoslavi avrebbero svolto “il lavoro sporco” permettendo poi l’ingresso degli americani in città. Il passaggio dei partigiani di Tito sarebbe stato quindi solo una piccola parentesi prima dell’ingresso degli americani. Dall’altro lato, però, la testimone ribadisce a più riprese e con insistenza l’affermazione dell’identità jugoslava della città. I due fattori sono senz’altro in contraddizione, anche se penso siano rivelatori di un clima e di un nodo emozionale di difficile scioglimento. Alla felicità per la liberazione, raccontata in maniera molto concitata e quasi piangendo di gioia, si sommavano le speranze di un passaggio di Gorizia alla Jugoslavia. Tali attese, però, si esaurirono nel brevissimo arco di quaranta giorni. Dopo la breve esperienza dell’amministrazione titina, infatti, il Gma cancellò tutte le “innovazioni” portate dall’amministrazione jugoslava. La delusione, per molti sloveni, fu enorme e traspare chiaramente dai racconti di vita.

Il tracciato confinario, percepito come penalizzante dalla componente slava, ha contribuito a rendere più complessa la strutturazione della memoria di A. M.. Un tipo di costruzione che possiamo riscontrare, anche se in maniera meno evidente, in molti altri testimoni sloveni.

Un ultimo punto di vista interessante, completamente diverso dai precedenti, ci viene fornito da S. P.

S. P., nato nel 1921 a Pordenone da una famiglia di operai tessili, lavora per diversi anni nel cotonificio di Gorizia. Dopo essere stato esonerato dal servizio militare per motivi di salute, decide di partire partigiano, arrivando a ricoprire posizioni di comando all’interno della divisione Garibaldi Natisone. Militante prima nel Partito comunista della Regione Giulia e poi nel Pci, S. P. è stato a lungo membro dell’Anpi di Gorizia. La sua attività politica, militante e culturale gli ha permesso di studiare a fondo gli eventi di cui è stato partecipe. Inoltre S. P. è uno dei testimoni che con più frequenza vengono chiamati a rappresentare e a parlare del movimento partigiano nelle occasioni pubbliche e durante le commemorazioni. Per tutti questi motivi la sua narrazione della memoria è strutturata in maniera molto particolare. Nel corso di tutta l’intervista, cerca di spiegare nel modo più approfondito possibile i principali eventi politici e militari, a cui prese parte. La precisione con cui cita date e nomi risulta assolutamente fuori dal comune. La sua memoria appare sistematica, costruita e ormai consolidata.

La sua testimonianza ci offre un punto di vista inedito, quello di un partigiano italiano, comunista che ha combattuto contro l’occupazione nazifascista e che poi, pur essendo italiano ha sostenuto le rivendicazioni jugoslave sul territorio. In questo caso potremmo dire che la componente politica, ideologica e sociale prende il sopravvento rispetto al senso di identità nazionale. Un aspetto interessante da notare è che S. P. sembra incapace di raccontare una storia “al singolare”. Non riesce a narrare la propria storia, ma solo quella dei gruppi a cui apparteneva. Anche quando gli viene richiesto il suo modo di vivere certi momenti, il suo parere, le sue sensazioni, le sue aspettative, lui risponde utilizzando il “noi” esponendo le idee e i punti di vista dei partigiani della Garibaldi Natisone prima, e dei comunisti giuliani poi. La sua identificazione con questi gruppi è totale. Ad ogni modo, la sua narrazione mette in luce alcuni snodi problematici che ritornano frequentemente nella memoria collettiva e nel discorso pubblico. Dal suo lungo racconto si percepisce immediatamente come una delle questioni più problematiche ed angosciose sia stata quella riguardante l’inglobamento della Divisione italiana Garibaldi Natisone all’interno del IX Corpus dell’esercito partigiano jugoslavo. Le accuse di tradimento, ancora oggi, ritornano spesso. Il fatto che si sia cercato di ritardare l’arrivo delle truppe alleate e dei reparti partigiani italiani al fine di favorire l’annessione dei territori da parte dell’esercito di Tito è un elemento che riemerge continuamente nelle discussioni storiografiche. S. P. lo sottolinea con forza. La sua testimonianza si inserisce chiaramente all’interno di questo dibattito pubblico. Senza entrare nel merito della questione, che meriterebbe un volume a sé e su cui tanto è già stato scritto, la testimonianza di S. P. evidenzia una forte esigenza (probabilmente comune a molti suoi compagni) di affermare la “verità” su quei giorni. Nella sua narrazione ritorna per tre volte l’espressione “giudizio obiettivo”. La sua maggiore preoccupazione appare quella di spiegare come andarono veramente le cose e giustificare le scelte politiche e militari compiute da lui e dai suoi compagni.

Conclusioni

Le numerose testimonianze raccolte durante la ricerca potrebbero fornire ulteriori esempi interessanti, ma per ovvi motivi di spazio non possono essere riportare in questa sede. Tuttavia, anche basandosi sui soli casi riportati, emerge in maniera abbastanza chiara il profondo legame che esiste tra la formazione delle memorie e costruzione delle identità. Come sostiene Jedlowski nella sua rilettura del pensiero di Halbwachs, la funzione della memoria «consiste, più che in quella di fornire immagini fedeli del passato, in quella di preservare quegli elementi del passato che garantiscono ai soggetti il senso della propria continuità e l’affermazione della propria identità»[16]. L’identità del singolo, ma anche quella dei gruppi, si basa essenzialmente su cosa si ricorda del passato, o meglio, su come si ricorda il passato. Questi legami fra memorie e identità appaiono ancora più stretti in una zona di frontiera come il goriziano. Un area di confine che, proprio in quanto tale, si è trovata soggetta a spinte contrastanti, collocata al centro di relazioni e conflitti molteplici: culturali, politici, nazionali, famigliari.

All’interno di questo contesto, come si è visto nel caso del 1 maggio, i diversi gruppi sociali e i singoli individui hanno rielaborato e poi narrato il proprio passato in modi a volte simili e a volte contrastanti, perfino opposti. Una stessa data ha assunto significati molto differenti e ha rappresentato il punto d’arrivo o di partenza di percorsi plurimi, sul piano storico e politico, ma anche a livello emotivo ed emozionale. Si sono venute a creare memorie individuali e collettive divise, ricordi che, seppur legati a specifici percorsi di vita, spesso sono stati influenzati dai discorsi e dalla retorica pubblici. Ricordi che, però, sono andati a costituire e a rafforzare a loro volta determinate versioni/visioni ufficiali del passato. Queste memorie ci consentono, in ogni caso, di analizzare i modi in cui i singoli individui vissero un periodo estremamente delicato, un periodo fondamentale per la ridefinizione geopolitica del territorio e quindi anche per la (ri)definizione delle identità la cui complessità non può essere ridotta ad una semplice polarizzazione di tipo nazionale.

Note

* Dottorato in Storia contemporanea dell'Istituto italiano di scienze umane (SUM) - Università di Firenze e Napoli.

[1] S. Salvatici (ed.), Confini, costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Saverio Mannelli, Rubettino, 2005, 8.

[2] C. Saraceno, Corso della vita e approccio biografico, «Quaderni del dipartimento di politica sociale», Università di Trento, 9 (1986).

[3] In C. Bermani (ed.), Introduzione alla storia orale, Roma, Odradek, 1999, 154.

[4] L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988, 13.

[5] M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale. 1866–2006, Bologna, il Mulino, 2007, 285; R. Pupo, Il lungo esodo, Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005, 88-89; G. Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Milano, Franco Angeli, 1986, passim.

[6] L. Fabi, Storia di Gorizia, Padova, Il Poligrafo, 1991, 186.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem.

[9] Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale. 1866–2006, cit., 285; Pupo, Il lungo esodo, cit., 89; B. C. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica ed ideologica, Milano, Mursia, 1973, 146.

[10] Fabi, Storia di Gorizia, cit., 190.

[11] I racconti di vita sono stati raccolti attraverso una serie di videointerviste condotte congiuntamente tra il 2007 e il 2008 da chi scrive e da Kaja Sirok, che sta compiendo in Slovenia un percorso di ricerca parallelo a quello qui proposto . Le interviste si sono svolte nella lingua scelta dal testimone.

[12] Relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena, in AA.VV., Dall’Impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto-adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, 265 e sgg..

[13] Videointervista a S. M. raccolta da Alessandro Cattunar e Kaja Sirok il 13.10.2007 a Birdice Pri Neblem (Nova Gorica). Traduzione dallo sloveno di Kaja Sirok.

[14] Alcuni esempi ci vengono forniti da A. Di Gianantonio, T. Montanari, A.Morena, S. Perini (eds.), L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese, Monfalcone, Consorzio Culturale del monfalconese, 75-77.

[15] Queste manifestazioni si faranno particolarmente intense nel 1946, soprattutto in coincidenza dell’arrivo in città della commissione interalleata per la definizione del confine.

[16] P. Jedlowski, Memoria, esperienza, modernità. Memorie e società nel XX secolo, Milano, Franco Angeli, 2002, 47.